Le Clofrenì
(Les Claufrenìes)
Viaggiando si impara.
Imparando si viaggia.
Altri e opposti sono diversi e lontani
solo prima di arrivare.
Studia da ingegnere, conta da ragioniere,
misura da controllore, computa da calcolatore.
E osserva da bambino.
Milano, 25 gennaio 2015
Claudio Aroldi
Indice
1 Viaggiare non mi piace, ma l’anima del mondo invece si.
A me non piace viaggiare.
Il che mi rendo conto che faccia sembrare strano che voglia
parlare di viaggi.
Ho sempre pensato che se avessi dovuto viaggiare lo avrei
voluto fare risiedendo per periodi abbastanza lunghi in un dato posto. Alcuni
mesi, ad esempio.
In tal modo avrei potuto aspirare ad assimilare, almeno un poco,
la cultura del posto in senso lato.
Quindi possiamo dire che non mi piace viaggiare nel modo in
cui lo si intende oggi.
Non mi piacciono i viaggi mordi e fuggi.
I pacchetti turistici.
Le settimane organizzate.
Le crociere in grattacieli galleggianti.
E non mi piacciono per un motivo specifico.
Non mi piacciono perché sono espressioni del bisogno di
possesso trasformatosi e canonizzatosi in diritto di proprietà.
Sono manifestazioni di appropriazione consumistica che non
permettono di conoscere le destinazioni del viaggio, ma solo di comperarsene
un’idea.
Non sono diversi dalle fotografie: sono tentativi più o meno
inconsapevoli di appropriarsi, di rubare, lo spirito della destinazione.
Allora, piuttosto, meglio non correre il rischio e meglio
non viaggiare.
Dunque, viaggiare non mi piace.
Ma, come tutti noi, mi sono ritrovato a farlo.
In molti posti e in molti modi. Anche se di sicuro una larga
fetta di popolazione ha viaggiato fisicamente molto più di me.
Ecco, io posso dire di avere integrato i viaggi che ho fatto
con delle buone puntate nella fantasia e nei meccanismi cerebrali.
Comunque se oggi guardo a ritroso la cronistoria di tutti i
posti e le cose che ho visto, mi accorgo che anche se non mi piaceva viaggiare,
il viaggiare in ogni sua forma mi ha lasciato qualcosa.
E quel qualcosa contribuisce a rendermi ciò che sono.
Ragion per cui voglio dire che, se anche ho rubato piccoli
morsi di spirito dei posti, evidentemente li ho digeriti ed essi sono diventati
carne della mia carne.
Sono diventati parte di me.
Viaggiando, dunque, si impara. In senso figurato possiamo
dire che ci si nutre, e quindi si cresce.
E al tempo stesso vivendo ogni cosa come cosa da imparare,
si viaggia dentro se stessi.
Ma la cosa importante è un’altra: tutte le volte che ho
viaggiato, in qualsiasi modo e verso qualsiasi destinazione, sono partito con
un’idea e sono arrivato a fine viaggio con un’altra.
Sono partito sempre alla ricerca della diversità dei luoghi,
delle idee, delle situazioni.
E mi sono invece accorto che proprio quella diversità era
indicazione del fatto che era tutto uguale.
Come ci si veste, cosa si mangia, come sono le abitazioni,
come si interagisce col prossimo, ma anche come è la natura del posto, la
fauna, le piante.
Sono tutte manifestazioni della stessa unitarietà.
Diverse case, cibi, lingue e abitudini testimoniano soltanto
la capacità di adattamento dell’ambiente e dell’uomo a diverse loro
configurazioni.
Ma l’essenza resta semplice: quella di una società che vive
in un habitat.
E questa è la dinamica sottostante, o dominante.
Viviamo in tanti modi, eppure siamo sempre umani tutti su
questa terra.
Per questo amo dire che viaggiare ricompone gli opposti, o
ricuce gli strappi.
Quando partiamo esistono gli opposti, appunto.
Quando arriviamo vediamo che non sono opposti o diversi o
altri, ma solo sfumature della stessa realtà.
La biodiversità, o l’infinita molteplicità in cui si
manifesta la frattalità della vita, è chiaramente testimoniata dalla quantità
di configurazioni che essa stessa assume.
E che, nel caso degli umani, sono tutte più uguali di quanto
crediamo.
E’ solo osservando più volte, in più contesti, quanto in
apparenza diverso sia un paio di scarpe messicano da uno parigino, o un camicia
guatemalteca da una della city Londinese, che ci si rende conto delle infinite
possibilità che l’essere umano ha di fare la stessa cosa.
La quale, infine, è però sempre la stessa cosa.
Si impara dalle piccole cose quotidiane una verità assoluta:
“c’è sempre un’altra via” .
O ancora meglio,
molteplici altre vie, per fare una cosa.
Ma quella cosa è sempre la stessa.
E questo dovrebbe insegnarci che siamo davvero tutti uguali.
Devo anche aggiungere
che i ricordi di viaggio partono riferendosi a viaggi realmente fisici, e si
trasmutano infine anche in viaggi più eterei e metaforici.
Penso si sia capito che l’idea di viaggio, a mio giudizio,
può essere estesa a molte manifestazioni.
Fino addirittura a raggiungere la casistica del delirio, vocabolo
che analizzato a modo mio vuol proprio dire l’io del viaggiare.
Del ir io = l’io dell’ire.
La sostanza è che viaggiare è movimento, certo.
Ma soprattutto, movimento è vita e viceversa.
La chiave quindi, è camminare. In ogni senso.
Non fermarsi mai.
Sia che siamo in un piccolo viaggio o in un viaggio dello
spirito o in quel lungo viaggio che è la vita.
Infine, l’ultima considerazione.
Ho cercato di rendere in una, o in poche immagini l’idea
della reale natura del posto e degli eventi raccontati.
Questo per me è un esercizio importante, soprattutto in età
come la nostra connotate da forte entropia cognitiva.
Imparare a cogliere, o almeno cercare di distillare,
l’essenza di una località o di una situazione è fondamentale.
Bisogna cercare di “catturarne” l’anima, o meglio ancora quella
loro specifica configurazione di anima del mondo.
In tale scopo bisogna spurgarle da quelle parti che anima
non sono.
Quindi, scopo finale di questa raccolta è anche cercare di testimoniare
alcuni casi in cui io creda di essere riuscito a cogliere proprio quello
spirito.
Mi piacerebbe riuscire a diventare così essenziale da rendere
una sola immagine per ogni viaggio, e che questa immagine testimoni realmente la
vera essenza di quel posto stesso.
Il suo spirito.
Da tutto ciò, e non solo, nasce il titolo.
“Viaggiando si
impara.”
“Imparando si
viaggia.”
“Altri e opposti son diversi
e lontani
solo prima di
arrivare.”
2 Studia da ingegnere, conta da ragioniere, misura da controllore, computa da calcolatore. E osserva da bambino.
Come mia abitudine questa è la contro-introduzione. O
ri-introduzione
Una introduzione, in effetti, non mi basta mai.
C’è un motivo.
Si tratta di introdursi, o presentarsi, su vari piani o
dimensioni di realtà.
Ma per ora ci risparmio il pippone filosofico.
Direi che questo secondo titolo è una filosofia di vita.
O almeno, parte di una filosofia di vita.
L'arte
della guerra è roba da bambini in confronto a quello che ci serve oggi.
“Quando ti muovi sii rapido come il vento, maestoso come la
foresta, avido come il fuoco, incrollabile come la montagna.”
Caro Sun Tzu, sono precetti buoni nel 5° secolo avanti
Cristo.
Oggi è diverso.
Quella di oggi è una guerra perenne, fatta di mille piccoli
gesti quotidiani.
Si deve combattere al supermercato, al lavoro, in macchina,
l’indifferenza, la cattiveria, e così via.
Qua ci vuole un upgrade, e che sia pure utile a qualcosa.
Ed allora ecco il mio upgrade.
Se seguirete il precetto del titolo, otterrete “lo sguardo del
rapace”.
Allenato a riconoscere ogni minimo segno di pace.
E’ una citazione. Viene da Bandabardò. E funziona bene.
Per sopravvivere nella guerra quotidiana abbiamo bisogno di
ricevere messaggi dal profondo dell’anima del mondo.
Messaggi di pace, appunto.
I quali sono spesso fugaci e altrettanto spesso dissimulati.
L’anima del mondo è un po’ preziosetta.
Non è che sta sempre li a disposizione, come al
supermercato.
Bisogna essere allenati a guardare da lontano, e molto
velocemente, il mondo che ci sfreccia intorno.
Molti dei racconti intendono proprio dimostrare come il bello
supremo, il grande bello, si presenti in cose o momenti in apparenza
insignificanti.
Se impareremo a coglierlo sempre, ce ne nutriremo l’anima, e
la vita ci scorrerà dentro più fluida, non solo più piena.
Il bello supremo, quello dell’anima del mondo, infatti ha
una proprietà incredibile.
In questo invece è come il detersivo della lavapiatti al
supermercato: 5 in uno. Che tra un po’ sarà 50 in uno.
Ne basta una capsula e si neutralizzano tutte le vagonate di
merda quotidiana.
Ma bisogna imparare a riconoscerlo.
Per farlo bisogna seguire il precetto.
La regola.
Lo so, sembrerà una regola quantitativamente meccanicistica.
Ma non è così, ed è fondata.
Studia da ingegnere
Bisogna imparare a capire come funzionano le “cose”.
Tutte le cose, grandi o piccole. Singole o complesse.
Tutto ha un suo ethos, un suo paradigma di comportamento.
Una macchina, una società, un mercato, una persona, un
animale.
Come se fossimo ingegneri, dobbiamo chiederci continuamente
come mai qualsiasi cosa sia come è.
Cosa è che la rende tale.
Solo così ne conosceremo l’anima, l’essenza. E la
riconosceremo sempre.
E solo così sapremo come fare a rispettarla lasciandola come
è, o addirittura a migliorarla o a usarla a nostro favore. O, infine a riconoscere
ciò che anima non è. I cosiddetti malfunzionamenti dell’essenza.
Conta da ragioniere
La matematica è un linguaggio.
In quanto tale descrive qualcosa e non è quel qualcosa, ma
posso garantire che funziona.
E che a tutto si può assegnare una proprietà numerica.
Se si riesce a non confondere quella proprietà numerica con
la cosa che sto contando, riuscirò ad attribuire a tale cosa il suo alterego
quantitativo.
Il quale mi servirà a stabilire se la detta cosa sia grande
o piccola.
Pensate a come può funzionare bene con le preoccupazioni, ad
esempio.
Se le analizzo, e ne conto l’importanza, spesso mi accorgo
che sono più fastidi che problemi.
Misura da controllore
Al tempo stesso tutte le “cose” sono correlate.
Il fatto di sapere che una preoccupazione sia grande o
piccola mi serve se la metto nel contesto in cui si trova.
Avere un pugno di riso da mangiare, ha una diversa rilevanza
a seconda che debba bastare per una giornata solo a me, oppure che sia la
razione di cinque figli per una settimana.
Questa è l’arte del controller, che è quella con cui si assommano
tutti i conti del ragioniere e tutte le conoscenze funzionali dell’ingegnere,
per ottenere un “business plan” completo.
Vale anche per la vita di ognuno di noi.
I business plan non sono solo numerici e aziendali. E
nemmeno solo previsionali. Ce ne sono di funzionali.
Li facciamo continuamente, ma non ce ne rendiamo conto.
Se sappiamo come funzionano le cose che ci riguardano, se le
abbiamo contate e se ci caliamo nel contesto in cui si trovano, ecco che
possiamo misurare loro e infine anche la nostra vita e non solo.
Computa da
calcolatore.
I funzionamenti, i conti e le misure sono calati in una
realtà variabile, a volte anche molto velocemente.
A questo serve calcolare continuamente: si riaggiornano i
risultati del business plan.
E infine si adegua la nostra vita creando visioni e
previsioni sul futuro e controllandole in corsa.
Tutti siamo costantemente impegnati nella previsione del
nostro futuro, ma prima ancora nella “visione”, o rappresentazione,
dell’esistente. E spesso lo facciamo bene. Soprattutto se conosciamo i
funzionamenti, i conti e le misure.
Ma non è ne veggenza ne preveggenza esoterica. E’
computazione, è calcolo.
L’esempio empirico per
San Tommaso
Pensate a dovere attraversare una strada trafficata.
Il semaforo è verde ma diventa subito rosso e voi decidete
di volere attraversare lo stesso.
Il vostro ingegnere sa come funziona il traffico : da due
direzioni opposte arrivano sciami di macchine.
Il vostro ragioniere sa quante macchine ci sono : le ha
contate.
Il vostro ragioniere fa anche di più. Sa che le macchine
vanno ad una certa velocità, la misura ad occhio.
E il vostro controller fa il vostro business plan : le
macchine mi raggiungono in x secondi.
Quindi, il vostro calcolatore fa il suo lavoro e vi dice:
devi attraversare in x -1 secondi.
Ad un tratto mentre state per attraversare, spunta una
macchina in sorpasso.
Contate che va più veloce delle altre.
Allora rimisurate distanza e velocità e il risultato è che
dovreste attraversare in x-5 secondi invece di x-1.
Computate, e capite che il business plan va riaggiornato.
Anzi lo riaggiornate mentre computate, perché il cervello
umano è un dono straordinario.
Se attraversate alla vostra velocità, che conoscete perché
la contate sempre, sarete investiti.
Computazione veloce, e risultato del business plan : venite
schiacciati come una cotoletta.
Quindi ricalcolate e : non attraversate.
Ecco, avete appena predetto il futuro.
E lo avete anche cambiato.
Non siete morti di quella morte che sarebbe stata certa se
non aveste seguito il “paradigma ingegnere, ragioniere, controllore,
calcolatore”.
Immaginate ora di disporre un cervellone, come si dice in
gergo.
E di potere elaborare contemporaneamente una montagna di
informazioni in input, ma anche di scenari di output, i quali ad esempio cambiano
anche solo a seconda di come inserisco gli input, non solo a seconda di quali
siano questi input.
Otterrete l’oracolo di Delfi
Il Grande Divinatore. Ma, prima ancora, il Grande
Conoscitore.
Oggi con qualche principio simile ci fanno le reti neurali.
Ma il backgammon o gli scacchi, ad esempio, facevano già lo
stesso sporco lavoro.
Tutto questo sproloquio è per ribadire il concetto iniziale .
Se vi allenate con il paradigma, arriverete ad un punto in
cui padroneggerete molte cose come padroneggiate il funzionamento e la velocità
del traffico. Le riconoscerete “ad occhio”.
E a quel punto riconoscerete istintivamente anche singoli
lampi che le attraversano.
Possiamo metterla in termini più semplici
Bisogna solo tenere il cervello sempre in funzione. E
allenato alla flessibilità, alla rimisurazione e alla rimodulazione, oltre che alla
continua osservazione con ingenui occhi vergini di bambino.
Tanto i passaggi del paradigma li fa lui da solo.
E’ fatto apposta.
Tenendolo allenato, o maglio allertato a fare quel mestiere
li, saprà riconoscere da solo “ogni minimo segno di pace”, come dicevamo
all’inizio. Ogni lampo di anima del mondo.
E la merda in cui viviamo verrà alleggerita.
Perché io posso garantire una cosa: quando l’occhio del
rapace inizierà a funzionare, vi ritroverete frequentemente a sorridere sapendo
che non siete soli.
E che l’anima del mondo, o Dio se preferite, non solo è
sempre con voi.
Ma anche, che vi parla in mille modi.
La regola non è finita.
Manca l’ultimo precetto.
Quello che forse con l’età non viene più naturale. Quello
legato alla flessibilità di cui sopra.
Osserva da bambino.
La meraviglia di bambino rende giustizia alle mirabilie del
creato, l’ho già scritto. Voglio aggiungere solo che anche nelle cose negative
c’è spesso dell’incredibile.
Tra queste cose incredibili, io ho riconosciuto quelle che
ho descritto in questo libro.
Cercatene ovunque anche voi. Vedrete che ne sarete ripagati.
Che vi conviene. Che ci guadagnerete.
3 Viaggio in Africa
Iniziamo con la Tanzania per un
motivo.
Per la biodiversità e anche per
un tributo ai primordi di vita umana dalle africane radici.
Mi voglio concedere una cosa che
si dice che solo i grandi possano concedersi.
Mi voglio autocitare.
In realtà l’ho già fatto altre
volte. Di Africa ho già parlato.
Qui mi soffermo su di un aspetto
in apparenza solo faunistico, ma in realtà molto più importante.
Serengeti National Park: sembra
quello che mi aspettavo.
Potrei dire una sconfinata landa
desolata, fatta di pietre e sterpaglia.
Ma non è vero.
La realtà è che la savana è un
mare giallo e verde da togliere il fiato.
Altro che desolato.
Il sole è rovente come deve
essere in Africa.
Traditore che si nasconde dietro
l’aria ancora fresca della montagna da cui arrivi, il Kilimangiaro.
Ci sono nuovi odori. Di cosa? Di
certo sono inconsueti.
E infine eccoli.
Introdotti da quei loro odori
compaiono gli animali.
E questa sì che è una sorpresa.
Ma quante cazzo di gazzelle ci
sono?
Incurante della quantificazione
e con un sorrisetto ironico percettibile anche attraverso la sua nuca, la guida
sancisce solo : “Thompson’s Gazelles”.
Ah beh! Questo cambia tutto!
Se sono Thompson’s allora è
normale che siano disseminate come pulci sulla schiena di un cane.
E poi chi sarà mai questo
Thompson e cosa se ne farà di tutte ‘ste gazzelle?
Il tutto mentre la jeep scorre
fluida lungo la strada sterrata che taglia infinitamente in due la pianura.
Di fianco il panorama cambia
continuamente, ma solo in termini di configurazioni di vita animale.
I branchi si sostituiscono, le
gazzelle non sono tutte di Thompson’s, ma gli altri nomi ci sfuggono quasi
subito.
In ogni caso le altre specie
sono tutte più grandi della prima, che forse proprio perché incontrata per
prima e perché più minuta, diventa la nostra preferita.
A volte passano zebre un po’
sfocate, siamo pur sempre in movimento, che si alternano in una configurazione
tipica con gli gnu.
A volte gnu da soli ci tagliano
la strada.
A volte gnu e basta, senza zebre
e senza tagli di strada, stanno li di fianco brucando, camminando, e a volte
impegnandosi in scaramucce tra maschi.
Ci offrono un sempre mutevole
spettacolo, seppure della stessa natura, di cui potremmo non stancarci mai.
C’è sempre qualcosa da vedere.
E poi c’è quell’odore,
quell’odore persistente. Di cosa sarà ?
E’ sconosciuto, mai sentito
nulla di simile.
Intenso, acre? No, è più come se
fosse… Odore di terra, forse? Ma no, così forte no. E allora?
E allora, voilà!
Non per niente lo chiamano afrore.
Due milioni di gnu, seicentomila
zebre, chissà quante gazzelle, non solo di Thompson, sono i dati del censimento
ufficiale.
L’odore è il loro, che sono
tutti raggruppati in una piccola fetta di questi immensi parchi nazionali
grandi quanto le nazioni europee a cui siamo abituati.
Fetta piccola per modo di dire,
perché poi si perdono a vista d’occhio.
Anche se sembra che abbiano
tutti una direzione.
Un mare grigio-marrone, che pare
seguire un più piccolo lago di passaggi pedonali zebrati, opportunamente messi
li proprio ad indicare la strada agli gnu.
La guida si concede, forse
intenerito dalla mia domanda : “Certo che le zebre sono proprio come asini. Ma
a cosa servono?”.
Sottintendo l’incomprensibilità
della loro funzione nell’ecosistema ed una sorta di gigantesca burla
evoluzionistica (600.000 pagliacci dell’evoluzione bicoloured).
Ed invece tutto è al proprio
posto, le zebre hanno un ruolo fondamentale.
Che stanno svolgendo proprio ora
che le incontriamo.
Sono loro che guidano la
migrazione.
Sono loro che tracciano la
strada a tutta la savana, in direzione dell’acqua quando la stagione si fa
secca.
Ah! Vorrei sprofondare.
Una cosa è certa.
E questa è la grande lezione che
ho imparato.
Il re della savana non è il
leone, né il leopardo, né l’elefante.
Il vero sovrano è senza dubbio
lo gnu.
Due milioni di re, che si
aggirano per la steppa in cerca di cibo e acqua ed ai quali un singolo vitello
dato in pasto ad un leone non fa un baffo.
Anzi quando incontreremo il
leone che ne mangia una carcassa, come qualsiasi altro predatore o “pulitore”
intento a nutrirsi di “cacciagione” o rifiuti, l’unica sensazione che ne
riceveremo sarà di compassione.
Che vita di inferno, sempre in
mezzo a tutto quel ben di Dio che solo a volte viene loro concesso perché così
vuole lo “spirito che tutto penetra”.
Ecco, dall’Africa io ho imparato
che i re del creato sono quelli che lo pervadono.
E non quelli che ogni tanto lo
depredano per gentile concessione democratica del popolo con cui vivono.
La lezione che ho imparato,
quindi è questa.
In ogni concentrazione di
moltitudine il sovrano è la massa e non chi sopravvive solo grazie alla carità
di questa massa stessa.
Il re dunque è leone ?
No.
Io non credo.
Penso piuttosto che il re sia il
popolo.
In questo caso, il popolo gnu.
Che non è quello bue.
4 Viaggio nel fulmine
Polvere siamo, e polvere
ritorneremo ad essere.
E’ un balla.
Se siamo fatti per l’80% di acqua, è chiaro che acqua siamo,
e vapore acqueo torneremo ad essere.
Gas, quindi.
A me è capitato di andarci proprio vicino.
Ho davvero creduto di venire polverizzato.
Sono partito in aereo da Olbia, in Sardegna, per
destinazione Milano.
E’ estate, il tempo a Olbia è bello e tutto pare a posto.
Ad un tratto arriviamo in Piemonte abbastanza vicino a
Milano.
Come mio solito io sono seduto lato finestrino, che di solito
funziona bene come anti-claustrofobico e anti-paura.
Nessuno potrà mai convincermi del contrario: volare a quasi 10.000
metri di altezza tutti pressati in una
scatola di sardine è una pratica “contro natura”.
Mentre sono tutto intento a contare i minuti che mancano a
Milano, l’aereo inizia a dare segni di insofferenza atmosferica e inizia a
scalpitare sotto di me.
Faccio quello che faccio sempre: guardo le hostess.
Tutto tranquillo, sono intente nei loro compiti.
Vuol dire che non stiamo cadendo. Per ora.
Dal finestrino si vedono nuvole, un po’ più avanti e a
destra sotto di noi.
Dopo qualche minuto le nuvole si fanno più vicine e io
inizio a vedere qualche fulmine.
Inizio a chiedermi che rotta abbiamo fatto.
Se dobbiamo girare a sinistra, allontanandoci dai fulmini,
oppure se da sinistra ci veniamo e dobbiamo girare a destra verso di loro.
Pochi istanti e parla
il comandante “Signore e signori, tra pochi minuti inizieremo la discesa verso
Milano”.
L’aero inizia ad abbassare la prua e a virare verso destra.
Verso il temporale.
Vedo le luci e mi
rendo conto: Milano è dritta dentro il temporale.
Cazzo.
Mentre inizio a percepire un po’ di mia fastidiosa tensione,
l’aero inizia a sobbalzare più deciso.
D’improvviso la prua si abbassa ancora.
Non dico che fossimo in picchiata, ma di certo non era una
situazione di confortevole inclinazione.
Scendiamo velocemente, e più scendiamo più aumenta la
gradazione di sobbalzamento.
Ad un tratto ci ritroviamo a ballare come sopra ad un
cavallo in un rodeo.
Io inizio a preoccuparmi, o per essere più onesto “a cagarmi
addosso”.
E faccio l’errore che non dovevo fare: guardo le hostess.
Non lavorano più.
Una è seduta sul seggiolino fatto per lei, e cerca
inutilmente di allacciarsi la cintura.
Un’altra è attaccata a un sedile con le unghie.
Gli occhi sono inequivocabili.
Hanno una paura fottuta anche loro.
Mentre borbotto tra me e me ogni maledizione possibile
contro chiunque mi passi in mente, faccio il secondo errore.
Distolgo lo sguardo dalle hostess e guardo fuori.
Sono seduto lato finestrino, come già detto, ed in più
sull’ala.
Vedo fulmini un po’ dovunque intorno a noi.
Poi all’improvviso dalle “ore tredici” del mio finestrino
vedo una luce che si avvicina.
Quando è abbastanza vicina è diventata una palla di fuoco
che arriva velocissima dritta dritta verso di me.
Non faccio in tempo a gridare o far nulla e quella colpisce
l’ala con un boato.
Mi spiegarono dopo, che per qualche proprietà di correnti
elettriche statiche, non poteva averci colpito davvero.
Io non sarà mai convinto.
Secondo me, a quel fulmine sferico, che non ci poteva
colpire non lo aveva detto nessuno.
L’aereo sobbalzò piuttosto marcatamente, e iniziò a
pendolare lungo l’asse delle ali.
Io non respiravo più.
Le hostess quasi piangevano.
I passeggeri erano in delirio.
Credo che a tutti passò tutta la vita in testa in un
istante.
Forse addirittura le vite si mescolarono e passarono nelle
teste in ordine sparso, a casaccio.
Finalmente dopo qualche manciata di secondi il pilota riprende
il controllo e ferma il rollio.
Si sente distintamente che da tutto gas ai motori, alza parecchio
la prua verso l’alto e vira brusco a sinistra.
Stiamo scappando a gambe levate.
Quel pirla aveva provato ad atterrare nonostante il
temporale.
Probabilmente perché aveva da fare a Milano.
Aspettammo un’ora sopra Novara, senza che migliorasse nulla,
prima di atterrare non ricordo più dove.
Quando arrivammo, dopo essermi ripetuto una infinità di
volte che avevo ragione io e che volare è contro natura, mi promisi che non
avrei più preso un aereo se non per questione di vita o di morte.
Per questo amo ripetere che io in aereo non ci vado più.
Se dovevo volare, mi facevano le ali.
Forse un giorno le ali mi cresceranno grazie a un tumore che
sia infine intelligente mutazione genetica simbiotica con me stesso.
Ma fino ad allora, i piedi li voglio per terra.
Quando saremo gas, allora potremmo volare.
Ecco gli opposti : uomo e aereo.
E quest’ultimo. se lo conosci lo eviti.
5 Viaggio in treno
Oh, questo si.
Mi piace.
Siamo per terra.
E mi ha insegnato qualcosa anche lui.
E cioè che la vera alta velocità è quella che non si sente.
Ma si vede, eccome se si vede.
Ricordo la prima volta che a Parigi vidi una stazione dei
TGV. Train Grande Vitesse.
Già l’acronimo da tutta un’altra impressione rispetto a Alta
Velocità, o Italo, che mi da tanto l’idea di farmi portare a spasso su un
calesse da un vetturino Italo di trilussiana memoria.
L’acronimo ti si
conficca nel cervello e li rimane solidamente.
Come tutti gli acronimi.
Sono fatti apposta, ma noi in Italia non lo sappiamo ancora.
Forse non lo sapremo mai.
Era la Gare de Montparnasse, in mezzo a Parigi e tutta
sottoterra, se ben ricordo.
In superficie c’era un bel giardino moderno, e tutto intorno
nuova architettura anch’essa moderna.
Mi diede subito la sensazione di grandeur.
Ma il bello doveva ancora arrivare
Salii su treno aspettando di partire per vedere l’effetto
che faceva.
Immaginavo rollii, beccheggiamenti, vibrazioni e quella
sensazione che proviamo in Italia di “io speriamo che me la cavo”.
Uscimmo da Parigi a bassa velocità, e dopo poco prendemmo il
passo normale.
Io rimasi un po’ deluso perché non succedeva niente e mi
addormentai.
Stavo andando verso nord in Bretagna, a Rouen.
Ad un tratto, nel più assoluto silenzio e immobilità, mi
svegliai.
Guardai dal finestrino e fuori c’erano morbidissimi sali e
scendi collinari appena accennati.
Solo due colori coprivano tutto: il verde dell’erba ed il grigio del cielo.
Ad un tratto mentre sonnecchiavo con una stanca fessura tra
le palpebre,….fiùùù.
Cazzo, cosa è stato ?
Sembrava un missile terra terra.
Ci stanno sparando !
Girai la testa verso il finestrino dall’altro lato e….fiùùù;
pochi istanti, e di nuovo: …fiùùù.
Allora tirandomi più diritto sul sedile rigirai la testa dal
mio lato e ….fiùùù.
Fiùùù, fiùùù, fiùùù, fiùùù.
Cazzo, ma sono mucche.
Ma chi è che ci tira delle mucche contro il treno?
Mi ricordai di essere sul TGV.
E mi venne in mente che Einstein scrisse la Teoria della
Relatività anche in una versione divulgativa.
E se non sbaglio, proprio in questa, un esempio che faceva
era legato all’osservazione della realtà da un treno, o qualcosa del genere.
E io capii che le mucche erano ferme, ma io cambiavo punto
di osservazione a 350 km all’ora.
Che vuol dire circa 97 metri al secondo.
Tanto per rendere l’idea.
Il che voleva anche dire che la mucca appariva “bislungata”
come la scia di un proiettile.
Ecco, possiamo dire che io ho imparato la relatività delle
mucche francesi.
E possiamo dire che ho imparato grandeur e imperialità anche
da velocità, stabilità e quantità di TGV.
Per inciso, mentre noi ci arrabattiamo per fare funzionare
la nostra alta velocità, in Francia studiano per andare oltre i 500 km ora.
Forse 600. Non ricordo bene.
Ora, io non sono un appassionato estremista di alta velocità
su rotaie.
Trovo che ìn spazi ristretti come quelli d’Italia, arrivare
da Milano a Roma in 3 ore invece che in 4, non cambi nulla.
In fondo basta far funzionare internet e telefoni (molto più
economici di una intera ferrovia) e un’ora in più passa in fretta.
E forse i pochi soldi che abbiamo a disposizione si possono
usare più utilmente.
Però se dobbiamo farla, facciamola bene.
Ecco l’altro, il diverso : l’altro treno non italiano.
6 Viaggio in Andalucia
Penavo di non avere dato un ordine preciso a questi racconti
di viaggi, e invece mi accorgo che almeno in questo caso non è così.
Il collegamento con le mucche bretoni sarà evidente.
Il viaggio è un viaggio estivo, da Milano al Portogallo,
buona parte del quale in autostrada.
E’ solo a metà Spagna che decidiamo di abbandonare
l’autopista e prendiamo la prima salida
disponibile.
La strada è in salita, stiamo andando verso la Sierra Nevada .
Non ci avremmo mai pensato, ma invece la guida ci sciorina
un corposo elenco di montagne sopra i 3000 metri.
Sono montagne vere, dunque.
E non piccole alture o grandi colline come immaginavamo noi
pensando a una non meglio esplicitata idea di supremazia Alpina.
E d’altronde se si chiama Nevada un motivo ci sarà.
E’ notte, per cui non si vede granché.
Ma una cosa la si nota di sicuro.
Cadenzate ai bordi della strade si presentano ripetutamente
coppie di colonne con al centro, in cima, delle corna.
Sono le entrate delle grandi tenute agricole.
Le Haciendas
dei ricchi proprietari terrieri spagnoli delle sierras. Serranos, appunto
A quel punto capiamo di incanto tutta la grandezza, seppur
sterminatrice, della secolare dominazione imperiale spagnola.
In sud America innanzitutto, ma non solo.
Tutto quello che abbiamo imparato nei film, da Zorro e da Zapata,
non è messicano o americano.
Tutto nasce da questa terra.
Dalla Spagna in generale, e dall’Andalusia in particolare.
A me piace pensare così.
Sul far dell’alba, scesi dalle Sierre, si iniziano a vedere
i colori.
Quando il sole sorge, è un flash che spero ricorderò per
sempre.
Andalusia.
Per me è un bagno nel : “Rosso, verde, blu.”
“Rosso, verde, blu.”
“Rosso, verde, blu.”
…….
“Nero”.
Per chilometri e chilometri.
Dire che era monotono direi una balla.
Credo che fosse merito della saturazione cromatica.
Non erano rosso, verde e blu comuni.
E nemmeno il nero lo era.
Erano quelli andalusi.
La terra è rossa come un fuoco scuro.
Il verde è olivastro pieno, carico degli ulivi secolari.
Il blu è il blu del cielo estivo, probabilmente denso oltre
il normale per il riverbero della terra rosso scuro e per quello dell’idea di
vacanza.
E poi il nero.
A intervalli che sembravano quasi predefiniti, seppur
irregolari, una sagoma sulla cime di una piccola altura si presentava come una
sentinella.
Il toro.
Quello le cui corna, se degne di nota, un giorno sarebbero
finite all’ingresso di una hacienda.
Sembrava proprio che ti curasse.
Che ti controllasse immobile dall’alto della altura che
troneggiava.
E poi l’attesa del toro successivo…
La mucca bretone mi ha insegnato la relatività.
Il toro andaluso mi ha insegnato l’immobile fiera uguaglianza
a se stesso, pur nel ripetersi delle sue apparizioni.
Una identità polare, che si ripresenta sempre uguale e
ricorda a tutti quale sia la loro anima.
L’anima dell’Andalusia per me resterà quella.
L’anima dell’inquisitore, severo, fiero, austero, toro nero.
7 Viaggio del rum
Una cosa che mi ha colpito del Guatemala fu la varietà di
territorio in così poco spazio.
Guatemala city, moderna contraddittoria metropoli da
un milione di abitanti.
Le montagne, dove con la piccola jeep si risalivano saltellando
strade come letti di torrenti fino a che non ci si trovava in coda ad un
autobus ancora più lento e più carico di noi.
Gli altopiani di piantagioni, lungo le quali i braccianti, ad
orari impossibili, venivano caricati, portati e scaricati da camion per il
bestiame proprio come bestie.
Le piantagioni coloniali di caffè, alcune dagli edifici, o
vicino a paesi, in perfetto stile tirolese o svizzero perché svizzeri o
tedeschi erano i coloni originari.
Il grandi laghi in altura circondati da vulcani. E quelli in
pianura. I fiumi.
I siti e le piramidi Maya.
La discesa in una pianura di deserto dove c’erano pure gli
avvoltoi a bordo strada.
Dopo il deserto, chilometri e chilometri di strada bianca
fiancheggiata dalla impenetrabile foresta tropicale.
E infine distese infinite di banani lungo la via che portava
al mare il quale, pur nella stessa località, si presentava in due facce del
tutto opposte.
Da un lato il resort turistico tutto palme, mare e sabbia
bianca.
E sullo sfondo il paese di Puerto Barrios, grande terminal
bananiero dove oltre ad un considerevole numero di puttane malate ed
alcolizzati terminali, si poteva rimirare sullo sfondo la visione più candida
immaginabile in quel posto. Come un angelo, un enorme cargo tutto bianco stava
alla fonda con solo uno stemma azzurro
ben visibile al centro: Chiquita.
Davvero tanta roba per un fazzoletto di terra di pochi
chilometri quadrati.
Ma tutto questo non c’entra con il viaggio di cui voglio
parlare.
Che è un viaggio nella testa di una ragazzino.
Stiamo percorrendo la larga “autopista bianca” tracciata
come una coltellata nella foresta tropicale, quando ad un certo punto
incontriamo un posto di blocco.
Sono sei militari: ci fermano, ci chiedono i documenti e ci
fanno scendere dalla macchina. Tutto in un linguaggio fatto di gesti e
movimenti di fucili mitragliatori.
Uno dei sei mi si avvicina e mi punta la canna del suo
fucile dritto ad una trentina di centimetri dalla mia faccia.
Non posso fare a meno di incrociare il suo sguardo e, mentre
cerco di abbassare il mio più rapidamente possibile, mi rendo conto che avrà 13
o 14 anni.
Non posso dire che ci sentissimo tranquilli, e io iniziai a
viaggiare nella sua testa chiedendomi cosa ci potesse passare dentro, ed in
particolare chiedendomi se ci fosse spazio anche per pensieri omicidi. Con la
foresta a due metri dalla macchina poteva tranquillamente spararmi e farmi
sparire e nessuno avrebbe mai scoperto cosa fosse successo.
Nel frattempo un suo collega ragazzino stava rovistando in
tutta la macchina mentre una altro faceva lo stesso con i bagagli.
Ad un certo punto il primo ragazzino aprì il cassettino della
macchina in cui tenevamo due bottiglie di rum che usavamo anche come
disinfettante e antidoto alla vendetta di Montezuma. Le prese, mostrandomele
trionfante.
Io mi dissi che eravamo morti, e che finire come pasto per
avvoltoi per guida in potenziale, nemmeno effettivo, stato di ebbrezza mi
pareva proprio una morte del cazzo.
Ad un certo punto il ragazzino con il trofeo lo passa al
ragazzino con il fucile alla mia faccia.
Quello guarda la bottiglia con interesse, poi mi guarda e me
la allunga, e sempre con il fucile a 30 cm dalla mia faccia mi fa : “toma!”
Io rimango basito giusto il tempo di fargli ripetere :
“toma, toma!”. A quel punto obbedisco e tomo, tomo.
Appena tomato, quello prende le bottiglie, le passa al
superiore, mi da i documenti e mi fa “gracias, senor. Vaja con dios”.
Volevano solo farsi una bevuta gratis. Ma assicurandosi
prima di non avvelenarsi.
8 Viaggio nella fiesta del pais
Siamo in Chiapas.
All’epoca il Chiapas era in fermento rivoluzionario, poi
sedato. Forse dovremmo dire purtroppo.
Comunque arriviamo alla nostra destinazione dopo una
giornata di spostamenti deliranti quanto solo quelli extraeuropei e
panamericani possono essere.
Solite strade come torrenti, salite a passo duomo, discese
rodeo e trial test per il nostro jeeppino Suzuki. In effetti, nella sua
modestia, un gioiellino.
Arriviamo al paese dove volevamo arrivare.
Cerchiamo un posto dove mangiare e dormire.
Ci ritroviamo in una classica posada postcoloniale.
Corte al centro, e porte tutto intorno.
Me la ricordo bene, ma proprio bene, probabilmente per
quanto segue.
Al secondo piano c’è la classica balconata sui 4 lati della
corte, che da l’accesso alle camere.
Balaustre di legno e pareti rosa scuro, quasi colore di casa
cantoniera.
In mezzo, gli immancabili banani e palme.
Dopo la consueta cena di frijoles neri, guacamole, carne e
tortillas, andiamo a letto stravolti dal viaggio.
Io mi addormento quasi subito.
Ad un tratto mi sveglio di soprassalto al suono di un “bum”!
Non capisco subito cosa succeda, ma subito dopo iniziamo a
sentire spari e botti di cannone.
Subito ci balza un pensiero: la rivoluzione ! Sono arrivati
fino a qui. In un empito di nemesi popolare mi vien in mente che se fossi un
contadino rivoluzionario, dei turisti occidentali li catturerei o li ucciderei
volentieri. E noi siamo inequivocabilmente turisti e occidentali.
Ci buttiamo pancia a terra dopo avere spento le luci per non
fare da facile bersaglio. Mentre stiamo li sul pavimento come appiattiti come sottilette,
sentiamo delle voci attraverso la parete con la stanza vicina.
Si sente tutto. Sono americani. Anche loro terrorizzati.
Ad un tratto sentiamo uno stridio di gomme di una macchina
che si ferma davanti all’ingresso della posada.
Qualcuno bussa alla porta, parla a voce alta e concitata con
il gestore o il custode.
A me viene in mente che sono rivoluzionari che stanno
cercando i turisti da sequestrare. Fortunatamente dopo qualche minuto sembra
che se ne vadano .
Tutto va avanti per un bel po’. Poi così come sono iniziati,
gli spari e i botti finiscono.
Ne noi ne i vicini ci muoviamo per una decina di minuti
Ad un tratto io mi dico che non è che possiamo restare per
sempre per terra.
Mi alzo, e furtivamente sbircio fuori dalla porta oltre la
balconata per vedere chi c’è e cosa succede.
Non c’è nessuno.
Allora mi faccio coraggio e arrivo alla staccionata del
balcone.
Di sotto, vedo il gestore o custode della posada che parla
con un altro uomo.
Mi vede e allora, piuttosto incerto, io gli chiedo . “Senor,
que pasa?”
Quello mi guarda interrogativo, poi si rimette a parlare con
l’altro uomo.
Mi faccio un po’ più coraggio e sollecito di nuovo la
pregunta : “Senor, ma que pasa?”
Quello di nuovo mi guarda interrogativo, allora io a gesti e
versi gli faccio: ma que es todo esto “bum, bum”.
Allora lui realizza, ricollega la mia performance mimica
alla faccia pallida di paura, guarda il suo amico e tutti e due scoppiano in
una fragorosa risata.
“Tranquilo, senor : è la fiesta del pais”.
Di botto io ricollego i botti. Arrivando avevamo visto il
municipio su di una collinetta con sovrastante la bandiera e un cannone.
Era con quello che sparavano a caso nella foresta. E gli
spari erano la loro variante dei fuochi di artificio.
E mi dissi :”Volevi fare il campesino rivoluzionario?”
Eccoti accontentato “piccolo zapatista lombardo”.
9 Viaggio del contadino e del pellegrino
E’ sempre Guatemala quello di cui parliamo. E con questo
paragrafo chiudiamo la trilogia. Ci riserviamo un quarto paragrafo più avanti.
Mentre ci abbarbichiamo sulle montagne della sierra madre
con le solite peripezie automobilistiche, ad un certo punto a bordo strada
vediamo un uomo.
E’ vestito di tutti i colori, come sempre da quelle parti.
Ci fa segno di fermarci mettendosi in mezzo alla strada. E
quindi noi ci fermiamo.
Tra spagnolo, dialetto indigeno e gesti ci fa capire che sta
aspettando la corriera che però non arriva. In effetti, lungo tutta la strada
precedente non ne abbiamo incontrate.
Capiamo che ci chiede un passaggio.
E noi decidiamo di darglielo.
Quello sale dietro e si piazza a centro sedile,
aggrappandosi con le due mani ai due sedili anteriori.
Io guardo nello specchietto e noto che da sotto il poncho
gli spunta un machete bello grosso.
Mi maledico: che cazzo lo abbiamo fatto salire a fare ? E
perché si tiene ai sedili come se fosse pronto a balzare davanti e sgozzarci ?
Esterno le mie preoccupazioni e la mia compagna si mette a
ridere. Mi convince.
E partiamo, col nostro caracollante andare di auto ubriaca.
Ad un certo punto la strada inizia a scendere. Forse per il
passaggio dell’acqua, è ancora più piena di buchi, scanalature e dossi e la
macchina inizia a sobbalzare parecchio più di prima.
Ad ogni sobbalzo il nostro passeggero rimbalza sul sedile
posteriore e, sempre tenendosi forte ai sedili anteriori, parecchie volte
sbatte la testa contro il tetto dell’abitacolo.
Ogni volta che sbatte, prorompe in una fragorosa risata di
bambino.
E noi capiamo: sta giocando alle sue montagne russe.
Mi strappa un empito di commozione.
Ad un certo punto inizia a gridare: “aquì senor, aquì”.
Io mi guardo in giro e non vedo assolutamente nulla che
giustificasse la sosta. Siamo in cima ad un rialzo delle montagne da cui si
domina tutto. E non si vede niente. Solo verde.
Mi fermo lo stesso, e scendiamo per farlo scendere. Quello
ci prende le mani ringraziandoci e mentre ci ossequia tira fuori da un taschino
qualcosa che sembra carta appallottolata.
La “spallottola” e noi vediamo che sono soldi. Voleva
pagarci il biglietto dell’autobus.
Mi strappa il secondo fremito di commozione, e gli faccio di
no con la testa mentre mi inchino leggermente verso di lui come se fossi io a
ringraziarlo.
Mi prende la mano e me la bacia, poi si avvicina al bordo
strada oltre la quale iniziava una ripida discesa in mezzo alla fitta
vegetazione, si ferma un secondo, prende il machete e inizia a brandirlo a
destra e sinistra mentre senza remore o paura si butta giù tra le frasche.
Ecco, posso dire che quel contadino rappresenta un buon
ritratto della mia idea di “buon selvaggio”.
Riprendiamo il viaggio. Arriviamo in pianura. A bordo strada
ricordo per lo più pubblicità imperialiste americane. In particolare ricordo
dappertutto “Coca Cola” e “ICI” che produce chimica per l’agricoltura.
Mentre ripenso al mio amico contadino chiedendomi che
prodotti ICI gli potessero mai servire, vedo un cartello a bordo strada :
“todos somos pecadores. 10 min.”
Ovviamente, per mie predisposizioni personali, lo associo
all’imperialismo e non al contadino.
Passa un po’ e vedo un secondo cartello. “todos somos
pecadores. 5 min.”
Ancora un po’ e riconosco in lontananza una casetta bianca
col tetto di mattoni. Capisco da un dettaglio che è una piccola chiesa. Ha una
austera croce di ferro sul tetto. L’ultimo cartello subito prima della chiesa dice solo “todos somos pecadores”.
L’indicazione dei minuti si è dissolta nella promessa di eternità..
Straordinario. Un popolo di buoni selvaggi, sterminato e
colonizzato, crede ancora così tanto al nostro Dio, che addirittura gli dedica
stazioni stradali di servizio per viandanti con l’anima sporca.
Todos somos pecadores. Sorrido pensando al mio amico
contadino e mi dico : “No, non è vero. Non todos”.
10 Viaggio in Bretagna
In Bretagna ci sono stato di inverno per 3 mesi. Ero in
formazione lavoro per una azienda del posto.
Arrivo in treno, con il citato TGV, a Rouen dove mi vengono
a prendere in macchina. Lungo il tragitto per Saint Malo è tutto in ordine.
Poche cose e pochi colori: cielo di nuvole grigie, prati verdi e mucche per lo
più bianche e nere.
L’impatto con Saint-Malo
è potente: la cittadella medievale, intra ed extramuros, ma soprattutto
l’oceano. Interminabili spiagge ancora
scoperte per centinaia di metri dalla bassa marea,battute da file di onde
lontane.
Trattori che arano la sabbia con grandi rastrelliere, per
raccogliere ostriche e cozze.
Ma è soprattutto il porto, che mi lascia a bocca aperta. Non
c’è acqua. E tutte le barche e i pescherecci sono adagiati sulla sabbia
inclinati in una posa innaturale. Assecondano la marea, che in quel momento è
inequivocabilmente bassa.
Come se non bastasse, davanti al porto si vede una
costellazione di scogli, secche e affioramenti vari. Il tutto con una marea che
seppur bassa non lascia dubbio alla potenza del mare. Ci sono onde da tutte le
parti e che nel frangersi contro scogli, fondale e terra in genere, vanno in
ogni direzione.
Io so andare in barca nel Mediterraneo, dove ci vado quando
il mare è calmo. Come potessero destreggiarsi in quel dedalo di canali e
correnti solo vagamente ordinabili e riconoscibili, non lo capirò mai.
Probabilmente è questo il motivo per cui, aperta al
commercio marittimo fin dal Medio Evo, Saint-Malo si è fatta ricordare come una
delle più famose città corsare. Per avere la patente di corsa dal Re, di sicuro
per mare ci si doveva sapere andare. E quale miglior scuola di una “mission
impossibile” dell’attracco portuale?
La sera del mio arrivo ero stanco e andai a dormire presto.
Ad un certo punto, non ricordo a che ora, mi svegliai di soprassalto per il
rumore.
L’albergo era sul lungomare, io mi affacciai al balcone e
alla luce dei lampioni vidi che il rombo di tuono era dato dalle onde della
marea che era salita per centinaia di metri fino a coprire tutta la spiaggia.
L’acqua era arrivata al lungomare.
Si vedevano onde, gorghi, mulinelli : un grandioso
spettacolo di potenza della natura.
Notai un cartello che metteva in guardia, indicando orari e
pericoli delle maree. Se ti ci trovi in mezzo hai buone probabilità di “restarci
secco”, seppur bagnato. Non salgono nemmeno dritte, le maree, ma si arrotolano
e capovolgono portandosi via tutto.
Il giorno dopo, finito il lavoro mi misi a cercare un posto
dove mangiare. Mi segnalarono Cancale
un paesino di 5.000 anime che è famoso per le ostriche.
A me piacciono molto i piccoli paesi e in particolare quelli
a demografia turistico-ciclica. Mi piace vederli a nudo nei momenti di loro
bassa marea, quando non c’è nessuno.
Cancale era perfetta : al mio arrivo non solo non c’era
nessuno, ma nemmeno nessun negozio o locale. Quasi quasi non ricordo nemmeno
luci alle finestre, ma forse questa era una mia elaborazione successiva.
Nella piazza centrale c’è solo una locanda. Entro ed è
vuota. Pochi tavoli di legno, nessun cliente, una coppia, marito e moglie,
dietro un austero bancone.
Saluto e chiedo cosa si può mangiare.
La donna mi guarda strabiliata. Io faccio altrettanto e
allora lei mi dice solo: “huitres et moules”. Come si direbbe ad un bambino
ignorante. Cosa altro volevi a Cancale? Sembra dire.
Le ordino entrambe, con del vino bianco. Quella di nuovo mi
guarda come un alieno, ma non dice niente contando proprio sul fatto che la mia
ignoranza mi rendesse un buon cliente.
Arrivano in due, lei con un enorme piatto di portata pieno
di ostriche e il marito con un enorme pentolone pieno di cozze. Rimango un
attimo interdetto mentre capisco perché sembravo un alieno: c’è da mangiare per
un esercito.
Mentre mangio entrano due omoni enormi. Giaccone blu,
cappello di lana, scarponi di sabbia e pantaloni impermeabili. Sono pescatori,
anche se li si pesca sia con la barca che con il trattore.
Mi danno un’occhiata fugace, tra il “che cazzo ci fa questo
qua” e il “chissenefrega”. Vanno al
bancone, la donna e il marito li salutano. Uno dei due guarda l’altro è gli fa
“Pascal, un pastis?
L’altro fa solo un cenno con la testa, come se dicesse
“obligatorie”.
E iniziano a bere tanto quanto io stavo mangiando. E’ il
loro passatempo di anime Corsare.
11 Viaggio a Zeebrugge
Possiamo dirlo: i Paesi Bassi si assomigliano un po’ tutti.
Gran falso-piani, anche noti come vero-bassi, tanto grigio e
tanto verde.
Dire che sono belli, si direbbe una minchiata.
Però hanno un loro fascino: le grandi città e i grandi porti.
Qui voglio parlare di un viaggio nel porto di Bruges, che si
chiama appunto “marina di Bruges” o Zeebrugge.
Premetto subito che non c’è nessun fascino naturalistico,
solo ingegno umano per uno scalo con 10.000 punti di attracco e uno dei maggiori terminal europei per il gas naturale
liquefatto.
Ci arriviamo di sera. E’ già buio.
Stiamo andando a prendere il traghetto che ci porterà alle
bianche scogliere di Dover, in Inghilterra.
Il ricordo distinto che ho, è quello di un piazzale di
asfalto sterminato, sul quale passiamo svariati minuti nell’intento di
attraversarlo con la nostra auto, valicando un numero interminabile di rotaie
al classico suono del “tum tum” che fanno le due coppie di ruote ogni volta
che, prima una e poi l’altra, saltano le due stanghe di ferro dei binari
ortogonali all’auto.
Finalmente vediamo i cartelli per il traghetto e riusciamo
ad accodare la macchina.
Saliamo a vedere la cabina dove dormiremo, un bugigattolo
senza finestre al centro della nave
Abbiamo due ore e decidiamo di scendere a fare un giro sul
porto.
Sembrava che non ci fosse nulla da vedere, ma a me piace
comunque curiosare.
Ed in effetti non possiamo dire che non ci fosse proprio
nulla da vedere. C’era una gran quantità di navi, che hanno sempre il loro
fascino.
In mezzo alla distesa del piazzale si vedono quattro o
cinque finestre illuminate e un cartello che promette da mangiare.
Entriamo, e ci troviamo in una classica taverna da
camionisti, che sono quelle dove si mangia meglio.
Menu fisso e piatto unico, il piatto nazionale: moules et
frites, cozze e patatine. Un po’ dubbiosi ci arrendiamo all’evidenza e le
ordiniamo.
E ci arriva una pentolacciona da cucina piena di cozze con
una vassoiata di patatine dell’ordine di grandezza a nostro parere
inequivocabilmente da camionista.
Chissà perché nell’immaginario collettivo un camionista non
mangia mai una bistecchina con l’insalatina ma sempre delle quantità di cibo
che sembrano più adatte al suo camion che non a lui essere umano. Manco se lo
dovesse spingere a mano, il suo camion.
Al ritorno verso il nostro traghetto, mentre contiamo
implicitamente i binari, mi viene in mente un porto fratello maggiore di Zeebrugge
e di tutti i porti europei.
Il porto di Rotterdam. Città natale del famoso Erasmo,
quello dell’elogio della pazzia.
Il porto di Rotterdam è il più grande porto in Europa.
Dal 1962 fino al 2002 è stato il porto più trafficato del
mondo, ora superato prima da Singapore e poi da Shanghai.
Io l’ho visto per lavoro più di una volta. Dico solo che è
situato su di una profonda insenatura ed è lungo ben 40 chilometri; la Milano –
Bergamo, praticamente.
Si costeggia in macchina e si possono vedere moli, banchine,
darsene, gru, container, navi, tutto a perdita d’occhio. E’ infinito, nemmeno
immenso. Ma bisogna averlo visto per capire di cosa parlo.
Ecco, per quanto affascinante possano risultare questi
grandi porti mondiali, io mi sono sempre chiesto se Erasmo non li avrebbe
annoverati tra gli esempi di follia umana, per capire se elogiarli o no.
L’essere umano non si accontenta del suo viaggiare.
Deve far viaggiare qualsiasi cosa.
Il che dal lato della complessità della trama logistica è
affascinante, lo ripeto. Ed è anche chiaro come sia una derivazione del
commercio internazionale.
Dall’altro lato, però, a me fa sollevare sempre una semplice
domanda : ma cosa ci sarà mai in tutti quei container di così indispensabile
che dobbiamo continuamente mandare da un capo all’altro del mondo?
12 Viaggio a Cambridge
Non è un titolo che si riferisca a qualche particolare
celebrazione.
A Cambridge ci sono stato avendoci accompagnato la mia
futura moglie.
La madre aveva bisogno di un trapianto di fegato e per
garantirle di essere operabile a “prima chiamata”, l’ospedale locale aveva
richiesto la sua residenza vicino.
Ciò per non incorrere nel rischio di “sprecare” un prezioso
fegato per banali problemi di logistica Milano-Londra.
E così, essendo estate, ci avviammo tutti sulla via di
Cambridge.
Come dire: con le code in fila si scherza o si fa i furbi fino
a che è possibile.
Ma quando diventano questione di vita o di morte è un altro
discorso.
E se ci si deve accodare, ci si accoda.
Della malattia che aveva mia suocera posso dire che non
lascia dubbi.
In un intervallo di tempo abbastanza lungo è certo che
muoiono tutti quelli che ce l’hanno.
Con il trapianto di fegato, e parlo di 25 anni fa, una buona
parte muore nell’attesa che arrivi il fegato giusto.
Di quelli che hanno la fortuna di essere trapiantati, ne
sopravvivono il 50 %.
Di quelli che sopravvivono al trapianto, una buona parte,
nonostante i farmaci specifici, è soggetta a successivi rigetti spesso fatali.
Gli altri devono convivere con rigetti, anche frequenti, che
si rivelano non essere fatali solo dopo che un’emergenza è passata.
Insomma, a Cambridge ci sono andato in un contesto
tutt’altro che allegro.
E forse per quello me la ricordo un po’ triste.
Mi pareva che lo fosse anche per quelli che ci abitavano, il
cui passatempo preferito era spesso quello di bere.
Ricordo bene alcuni pub di campagna, tutti bianchi con i
loro tetti di paglia (mi pare) grigia.
E ricordo bene anche uno o due pub in centro a Cambridge,
dove ad una certa ora smettevano di servire da bere.
Ma siccome il locale restava ancora aperto, al suono di una
campanella tutti correvano a prendere fino a 5 o 6 pinte di birra per volta da
consumare poi piano piano.
Fatta la legge, trovato l’inganno. Così diremmo noi in
Italia.
Ma in realtà loro la vedevano piuttosto come un
approvvigionamento di riserve strategiche.
E molte di queste riserve erano scure, erano Guinness.
Un “pubbista di campagna”, come lo chiameremmo noi pensando
ad un nostro barista, mi insegnò che anche la Guinness, o forse soprattutto lei,
ha un’anima.
E questa anima apprezza molto l’osservanza di tutto un suo
rituale che chiunque sia stato in un pub ha di sicuro osservato.
Non è solo una birra, ma anche una tradizione, ed infine una
medicina.
Così la chiamavano loro: la medicina.
E sfido chiunque, ora che sappiamo che la chiamano così, a
non rendersi conto dei suoi benefici influssi.
Comunque tornando a Cambridge, un giorno arriva il fegato
per la suocera.
Viene operata e la lunghissima operazione riesce.
Verso fine operazione ci dicono di stare pronti.
Noi non capiamo perché o per cosa, ma lo scopriamo presto.
Appena si sveglia dalla rianimazione ci vengono a chiamare
dicendo di andare a farci vedere.
Siamo ancora in zona per malati gravi, ma ciò nonostante ci
fanno entrare.
Il contatto con gli affetti è terapeutico.
E non per modo dire.
Ci spiegano che stimola la ripresa vitale, che come noto è
influenzata anche dalle percezioni cerebrali.
A me ciò rimase molto impresso, e pensai alle mie esperienze
simili negli ospedali italiani.
“Tutti fuori. Vietato entrare. Non disturbare. Il paziente
deve riposare”.
Sembra Auschwitz, e probabilmente ciò si deve anche a quel
classico meccanismo per cui una divisa di qualsiasi tipo conferisce a chi la
porta una certa autorità.
E chi è pervaso da sentimenti di frustrazione vitale, può
facilmente deviarla in autoritarismo.
E’ sempre questione di “vorrei ma non posso”, in Italia di
certo assai frequente.
Ecco, restai convinto che la civiltà di un popolo si misura
dal peso che sa dare alle emozioni, e quindi agli affetti, anche dentro un
ospedale.
Ma non solo.
Si misura anche da quanto refrattari si sia rispetto ad ogni
forma di “fascino della divisa”.
Per concludere, devo dire che mia suocera è ancora viva e
vegeta, pur tra mille problemi e varie altre malattie.
Non è certo fortunata.
Ma il suo fegato nuovo, nonostante qualche capriccio, ha
attecchito bene sin dal principio.
Chissà che non sia stato anche perché, appena sveglia, la
paziente si è sentita a casa e così anche il suo fegato nuovo.
13 Viaggio a Heidelberg
Heidelberg
è una bellissima cittadina antica nel cuore della Germania.
E’ sede della più antica università tedesca.
E trasuda conoscenza dappertutto, da ogni pietra.
Dei 150.000 abitanti, 30.000 sono studenti.
A questi vanno aggiunti gli studiosi ivi residenti.
Quando si cammina per strada in centro, o lungo la
passeggiata dei filosofi, è difficile non farsi suggestionare.
Sembra proprio che tutti stiano elaborando una nuova visione
del modo o stiano fondando una nuova scienza.
Per arrivarci, in auto, ricordo bene anche un pezzo di Foresta
Nera. Schwarzwald,
per l’appunto
I luoghi famosi hanno sempre un certo fascino, e se
diventano famosi c’è un motivo.
Questa è famosa dal paleozoico, quindi da tanti milioni di
anni.
Il motivo per cui è famosa, quindi, deve essere bello
grosso.
E in effetti io della Foresta Nera, forse per probabile
suggestione, ne ricordo l’influsso magico.
I brividi che mi dava.
Ma non è questo ciò che voglio raccontare.
Voglio invece parlare della centralità americana di
Heidelberg.
Dopo la seconda guerra, divenne parte della zona di
occupazione americana e sede dell'alto comando dell'esercito americano, e in
seguito della Nato.
La città ospitò il quartier generale della NATO per l'Europa
Centrale, oltre al quartier generale dell'USAREUR (esercito degli Stati Uniti
in Europa), ex Settima Armata.
Migliaia di militari vivevano in una loro città nella città,
con quartieri residenziali, scuole,
caserma e ospedale militare.
Dal 2012/2013 era previsto il trasferimento dell'USAREUR a
Wiesbaden che si sarebbe completato entro il 2015.
Io ho avuto anche questa fortuna.
Anni fa sono stato fidanzato con una ragazza americana, il
cui padre era un militare di carriera.
Un generale americano proprio di stanza ad Heidelberg.
Tra l’altro, a questa fidanzata devo anche il fatto di saper
l’inglese.
Altro che vacanze-estive a Londra.
Comunque la base Nato, io l’ho vista nel modo migliore:
dall’interno accompagnato da una americana.
Devo dire che l’impatto è forte.
Si varca un cancello e ci ritrova proprio in un film di
guerra.
Blindati, camionette, carri armati, tutto in formato
mimetico.
Arrivano anche fiotti di plotoncini di soldati a passo di
marcia cadenzato, che a me piace sempre ricordare cadenzato dal blindatissimo canto
di “topolin, topolin, viva topolin, anche noi canterem viva topolin” di Full Metal Jacket.
L’impatto con il generalissimo suocero è piuttosto aspro.
D’altronde come altro avrebbe potuto essere l’incontro del
generalissimo John Wayne con un mancato marine “Joker” come Matthew Modine, pure
pacifista?
Al contrario della famiglia che era invece cordiale, quello
mi squadra da subito rudemente.
E perentorio mi chiede “dove hai fatto il militare ?”.
Oh, cazzo. Io non l’ho fatto.
E glielo devo dire.
Non posso correre il rischio di una conversazione
militarizzata.
Non ci capisco un cazzo.
Rimane impassibile in silenzio qualche secondo, poi mi
congeda girandomi le spalle e se ne va.
Arriva la domenica e scopro che l’establishment militare e
tutta la già settima armata (che era quella di Patton dello Sbarco
in Sicilia) ha dei tratti per nulla diversi da un qualsiasi
piccolo borghese italiano.
Tutti a messa, prima di tutto.
E mentre la messa procede, io mi metto a pensare a due cose:
al conflitto ideologico con i blindati all’esterno e alla realtà
dell’occupazione militare di un ganglo vitale tedesco.
Quando la messa finisce, si va tutti a pranzo fuori.
Proprio come facevano i miei genitori.
E’ solo il ristorante che cambia.
La Festa si fa da McDonalds.
In Italia non esisteva ancora, o quasi.
Il primo McDonalds fu aperto nel 1985.
Solo nel 1996 comperarono Burghy che intanto aveva fatto da
“testa di ponte”.
Così lo straniero si
espanse in tutta Italia senza che noi ce ne accorgessimo.
Ci colse alle spalle come uno strisciante McCong.
E l’era della pizza tramontò per sempre.
Io ricordo distintamente che dopo avere guardato i prezzi
inverosimilmente bassi per un pasto completo, quando nel candore igienico
vagamente asettico del McFormat addentai il mio succulento Big Mac e le patatine
perfettamente croccanti con sopra quella pseudo mayonnaise così buona da dovere
essere irricopiabilmente protetta da brevetto, mi dissi : “tempo qualche anno e
se tutto va bene, noi siamo rovinati”.
Altro che armamenti, divisioni e battaglioni.
La guerra la perdemmo definitivamente.
Quando ci invasero con il Big Mac.
14 Viaggio all’ancora
Sono in Magna Grecia.
Vale a dire che potrei essere in una qualsiasi località di
mare, dove fiorente risiedette, secoli addietro la civiltà greca.
Tanto sono tutte simili.
Quindi, potrei anche essere in tutte insieme nello stesso
momento.
Se sono tutte uguali perché ne parlo ?
Perché proprio l’essere tutte uguali mette in evidenza la
loro caratteristica fondamentale.
Sono tutte testimonianza concreta dell’anima dei quattro
elementi.
Acqua : il mare
Aria : il vento
Terra : le isole
Fuoco : il sole
In pianura padana, e in tanti altri posti, questa tetrarchia
non si nota.
E’ tutto più confuso.
Ci sono troppi grigi.
E anche tutti quei verdognoli non fanno bene.
Prati, boschi, campi.
Sono tutti troppo rasserenanti.
Addirittura quando si confondono diventano depressivi, come
può esserlo il grigioverde militare.
Ahh, come mi mancano i rossi, i gialli, i marroni e i blu
del mediterraneo.
E’ per questo che certi posti sono come sono.
Il grigiore che li penetra si diffonde per osmosi molecolare,
o cellulare, dentro e fuori di loro.
E dentro chi li abita.
E infine li ingrigisce, posti o uomini, fino nell’anima.
Noi siamo quello facciamo, certo.
E anche quello che mangiamo, certo.
Ma soprattutto noi siamo dove viviamo.
I luoghi ci pervadono,volenti o nolenti.
In ogni caso, già che posso spaziare, voglio spaziare in
barca.
E spaziando spaziando arrivo a destinazione.
Sono immerso in acqua, dalla quale emerge la terra di un isola.
La terra emersa a caso, non è una terra qualunque.
Non è uguale alla costa.
E ciò è a maggior ragione vero quando ci si arriva dal mezzo
del mare.
Simboleggia proprio un punto di vita. Non di vista.
E’ un’oasi di ristorazione dal pericolo, non tanto dello
stomaco.
Nel porticciolo non c’è posto, per cui devo ancorare in rada
per passare la notte.
Guardo la rada.
La vedo.
La riconosco, dovrei dire.
È traditrice.
E’ una rada di purissima razza bastarda.
Di quelle che non vogliono turisti a rompere le balle.
Ma ancora non so perché.
E comunque devo fermarmi. Per cui mi fermo.
Calo l’ancora e vado in acqua con la maschera.
L’ancora è appoggiata su una distesa infinita di sabbia
nera.
Guardo in giro e mi accorgo che la distesa non è neppure infinita.
Ad un tratto finisce in uno strapiombo verticale senza fondo
visibile.
Cazzo. E’ il peggior ancoraggio possibile.
Acqua di sopra e terra di sotto, alleate per fare danni.
L’aria fortunatamente si sta facendo i cazzi suoi.
Non si muove un alito di vento.
Il fuoco del sole è già calato, e non si sono nemmeno levate
le brezze di vento indotte da masse calde e fredde che si spostano di posto.
Per forza. Siamo su un isoletta.
Le dinamiche di terra e di aria funzionano con la
terraferma. Un’isola è marginale.
Decido comunque che resto li.
Per sicurezza, e soprattutto per rispetto (o meglio paura)
proprio degli elementi, organizzo i turni di guardia di 2 ore.
Siamo in 4, quindi copro tutta la notte.
Ma non faccio i conti con una di quelle creature di greca mitogenealogia.
Alle 6 mi sveglio e mi accorgo che dormono tutti.
Il pensiero corre a quello stronzo di Morfeo.
Comunque mi affaccio fuori e a prua, dove doveva esserci la
terra, vedo solo blu.
In acqua e in aria non c’è altro.
Blu a strafottere dovunque, per usare un raffinato eufemismo.
In aria non c’è nemmeno un alito di vento, ma evidentemente
i venti c’erano in fondo alle profondità delle acque.
Sono le correnti, che ci hanno portato via
impercettibilmente.
Sembriamo sempre fermi, ma evidentemente non lo siamo.
Giro lo sguardo e in lontananza, dal lato opposto rispetto a
quello che avevamo lasciato come giusto, vedo l’isola.
Tra una bestemmia e l’altra tiro anche un sospiro di
sollievo.
Potevamo essere andati a sbattere contro degli scogli,
invece è andata liscia.
E capisco la lezione.
Quei posti sono tutti uguali, si.
Ma con gli elementi non si scherza.
Mi hanno suggerito gentilmente di ricordarmi il rispetto e
la prudenza.
Ma soprattutto, mi hanno dato quella lezione perchè mi
volevano bene.
Altrimenti mi avrebbero buttato sugli scogli.
L’anima del mondo: a volte è anche nella deriva.
15 Viaggio nel deserto
Il deserto è deserto.
E’ sempre uguale.
E sono tutti uguali.
Alla fine è sempre questione di sabbia, di pietre e di
assenze.
E questa è la visione comune.
Ma sbagliata.
Io non ne ho visti molti, di deserti. Ricordo quelli del
Sinai, del Guatemala e della la Corsica. Quest’ultimo non è propriamente un
deserto, se non per l’assenza di presenza umana.
Il che mi ha fatto imparare che si può nominare qualsiasi
cosa a proprio piacere, purchè ci sia una logica.
In più, ho sognato il Kalahari , che di quelli
citati ricordo bene come il deserto vero e il più potente.
In ogni caso ogni deserto, per quanto fatto della stessa
pasta, è una porta da attraversare.
Oltre ogni deserto c’è quello che aspettiamo di vedere o di
trovare.
Non è diverso dai mari aperti.
Ci piacciono perché sono vuoti, e vogliamo che finiscano per
potere decretare finito proprio quel vuoto.
Ecco un caso di opposto pedagogo: apprezziamo il non vuoto
grazie al tuffo nel vuoto.
Nel dialogare tra opposti, poi, può darsi che si apra anche
qualche diversa forma di diverso.
Nel raffrontarsi con l’opposto della vita, ad esempio, ci si
può trovare a dialogare con il diverso di altre forme di vita.
Le quali possono anche essere portatrici di opposto, di morte.
Tranquilli, non parlo degli alieni, ma di specie più
terrene.
Arrivammo in un albergo dopo un lungo viaggio. Era un bel
posto, a bordo giungla.
Ci eravamo arrivati dopo avere attraversato un deserto, per
cui la giungla era gradita.
Era giungla vera, fitta e inesplorata o quasi, ragione per
cui possiamo considerarla un deserto anche noi, come i francesi fanno con la
Corsica.
Inoltre le frequentazioni animali di questa stessa giungla,
potevano tranquillamente essere di deserto.
Per cui decidiamo che siamo ancora nel deserto. Almeno con
il cuore e con la testa.
In albergo notiamo subito cartelli un po’ ovunque che
dicono: “ricordatevi che siamo nell’habitat di tanti animali e che noi siamo
gli ospiti. Non disturbate gli animali”
Bello, mi dico. Molto fair. Civile.
Passa il primo giorno e quasi non vediamo altri animali che
non fossero umani.
Si ogni tanto qualche uccello, ma nulla di più.
Il secondo giorno è uguale al primo.
Alla fine vado a chiedere lumi sul cartello.
Il tizio mi guarda trasalito e mi fa “ma perché, non ve
l’hanno detto ?”
“Gli animali che non dovete disturbare sono quelli che vi
trovate in camera”.
Io ovviamente lo guardo interrogativo, e gli faccio “e
cioè?”
Quello, con una punta di tono di spavento (un turista morto
è sempre una rogna) mi fa : “scorpioni e tarantole” .
“Qui sono questi gli animali che potete trovarvi in camera.”
“E anzi, dovreste sempre controllare il letto prima di
entrarci e le scarpe prima di mettervele”.
Non fa in tempo a finire la frase che sono già in camera a
rivoltare tutto quanto.
Fortunatamente nessuno scorpione o tarantola ci aspettava in
agguato.
E io imparai non solo la lezione sul non disturbare gli
animali, ma anche che nel raffrontarsi con il diverso si può incorrere
nell’opposto della vita. Se non si conosce il diverso, si può incontrare la
morte.
Una volta saputo questo, ogni diverso viene naturalmente trattato
a seconda della sua diversità.
Così ci si può avvicinare. E
infine convivere in un deserto che è tale solo prima di conoscerlo.
16 Viaggio al Mar rosso
Mi hanno costretto a staccarmi da casa mia almeno per una
manciata di giorni.
Parto prevenuto.
Ho distrattamente dato uno sguardo a qualche fotografia su
qualche brochure, nelle quali ho visto un gran quantità di costruzioni moderne
in cemento armato.
E una serie infinita di pesci di ogni colore.
“Sarà un’altra bufala. Una Calabria solo un po’ più esotica”
mi dico.
Appena scendo dal’aereo, però, vacillo nelle mie certezze.
E’ pieno di ibischi enormi, e già questi mi mettono una
pulce nell’orecchio.
Non so bene perché, gli ibischi sono tra le mie piante e i
miei fiori preferiti. Forse è perché sono molto resistenti eppure anche sofisticati.
Basta guardarli per capirlo. E già in aeroporto, è tutto un tripudio di
ibischi.
Ma c’è un’altra cosa. E’ l’odore dell’aria che è diverso dal
nostro. Non saprei descriverlo se non
dicendo che è odore di aria cotta dal sole. Odore di caldo. E a me il
caldo piace molto.
Arriviamo in albergo, e io mi accorgo che il format “presunto-calabro”
non necessariamente deve essere disgustoso. In particolare, visto da dentro, è
tutta altra cosa che dal di fuori di una foto.
Vado a controllare la spiaggia.
C’è un piccolo pontile di legno lungo una decina di metri.
Ci vado sopra e subito passa un flash giallo e blu. Penso a un colpo di sole
fulminante, ma poi fermo lo sguardo e mi accorgo che in un metro d’acqua sotto
di me è un brulichio di pesci e pesciolini di ogni forma e colore.
Ah, però. Mi dico.
Il giorno dopo dovremmo prendere la barca per andare verso
la barriera corallina.
Io parto con un atteggiamento di sufficienza, chiedendo che
cosa ci andiamo a fare.
Di pesci è pieno anche al pontile dell’ albergo. Tutti mi
guardano in cagnesco. E allora io cedo e partiamo.
La barriera corallina è stata una delle cose più incredibili
che io abbia mai visto.
Davvero un concentrato di infinita bellezza di ogni essere
vivente acquatico.
Le foto che avevo distrattamente guardato prima della
partenza erano assolutamente inveritiere.
Non rendevano minimamente l’idea della quantità e della
densità di ogni vita da ammirare.
Ripartiamo alla volta di un isolotto con un spiaggia.
Lungo la traversata la guida pesca a traina un tonnetto in
pochi istanti. E’ uno di quelli che io potevo impiegare settimane a trovare nel
mio Mediterraneo. E ce lo fa mangiare sfilettato crudo con il limone. Alla faccia di chi pensa
che solo i giapponesi mangiano pesce crudo.
Arriviamo all’isolotto.
E’ al confine con un altro Stato.
E’ solo sabbia gialla, mare blu, cielo indaco. Ancoriamo.
Io mi butto in acqua e vado sulla spiaggia bollente.
Sto camminando tranquillo, quando inizio a sentire urla
dalla barca.
Mi volto e vedo la guida che si sbraccia disperata saltando
e urlando. Mi fa segno di guardare una cosa indicandola ripetutamente.
Finalmente capisco e vedo un cartello che non avevo notato.
Mi avvicino e leggo : Danger! Mined shore. It is strictly forbidden to land”.
Cazzo! Lo dicevo io che non ci volevo venire in questa
Calabria minata !
La guida è sollevata, mi fa ripetutamente cenno di fare
piano piano e di tornare a mare sulle mie orme.
Ce la faccio, e torno a nuoto in barca. All’arrivo la guida
mi sommerge di improperi.
A fine pasto ripartiamo per un’altra baia.
E’ una enorme distesa di sabbia bianchissima con in centro un
piccolissimo boschetto di mangrovie, che
sono un’attrattiva di quella località.
Si sono adattate a vivere anche li, in pochissima acqua
salmastra che viene filtrata quasi dolce dalla sabbia quando ci sono le maree.
La sabbia finisce a mare in una grande baia di rocce e
coralli in meno di un metro d’acqua.
Mentre si nuota con la maschera e si può toccare il fondo
con il braccio.
Ci mettiamo tutti in formazione dietro alla guida.
Io sono il primo dopo di lui. Ad un certo punto, lo vedo
che”piega” la nuotata a sinistra e si attacca a una roccia con una mano.
Con l’altra inizia a smuovere le pietre fino a che una enorme
murena marrone, come le nostre ma grande come una anaconda. parte e scappa
lontano.
Rimango senza fiato.
La guida si sposta un po’ e si rimette a ravanare.
Dopo qualche secondo succede qualcosa e inizio a vedere la
polvere di fango nell’acqua della guida.
Sono a meno di 10 metri di distanza, quando dal fango sbuca
un’altra murena.
E’ anche più grande dell’anaconda di prima. Ed è tutta
bianca a puntini grigi.
Parte fulminea per scappare dalla guida, e viene giusto
nella mia direzione.
A bocca aperta procede fulminea verso la mia faccia.
Mi si ferma il cuore.
La vedo sempre più vicina.
Quando arriva ad un metro da me, sempre a bocca spalancata e
zanne in bella vista, fa una cosa che non avevo proprio immaginato.
Si immerge tra la mia pancia e il fondo corallo-roccioso e
sguiscia via sotto di me mentre io sento la sua pinna centrale che mi sfiora la
pancia.
Il cuore che si era fermato riprende a battere all’impazzata.
E io mi ritrovo per la seconda volta nella giornata vivo per
miracolo, ma consapevole di avere fatto due tuffi nell’assoluto.
E avendo capito la lezione mi trovo a pregare: “caro Mar
Rosso, mi sono sbagliato. Non sei una bufala. E magari la Calabria fosse come
te. Ti chiedo perdono. Non mi uccidere”.
Ecco un caso in cui per percepire l’anima del luogo bastano
pochi eventi e momenti e non servono
mesi di permanenza .
E’ un raro caso in cui il viaggio non è appropriatore di
anima del posto, ma è l’anima del posto che si appropria del viaggiatore e lo
porta a incanalarsi lungo la Grande Via.
17 Viaggio in Cisgiordania
E’ il giorno 8 di gennaio del nostro anno domini 2015.
Di cultura del terrore, o strategia delle tensione, non sono
certo io il più grande conoscitore.
Ragion per cui può essere che dica solo stronzate.
Ma trovo che ci stiamo facendo tutti abbindolare in una
grande reiterata manipolazione collettiva.
Penso che sia già inspiegabile come nella pentola a
pressione in cui viviamo, di fatti come quello accaduto al giornale francese
Charlie Hebdo non ce ne sia uno al giorno.
Anzi, è miracoloso.
Trovo poi fuorviante ogni catalogazione accomunitarista
sotto un generico cappello di “terrorismo”.
Se in occidente esistesse davvero un pervasivo fenomeno di
tale surrettizia diffusione terroristica avremmo reiterati attentati a grappolo
già da anni e non solo un caso isolato e saltuario.
O forse questi sono solo i prodromi.
Anche se a guardarsi indietro dalle torri gemelle, e fino a
oggi, la minaccia di terroristi in occidente non è diventata certo un’orda di
cavallette.
Entrando nello specifico, penso che si potrebbe ragionare
come segue.
Prendi due ragazzi, nati islamici per caso.
Dimenticati l’aggettivante appellativo di “algerini”, così
eviti subito inappropriate derive di dogmatica causalità geografica.
Falli vivere e crescere in una qualsiasi banlieue, francese
o no.
Credo che in quanto a terreno fertile di coltura della
rabbia, o odio, le banlieues non abbiano nulla da invidiare a qualsiasi
periferia emarginata del mondo.
Considera la possibilità che i 2 non siano nemmeno tanto
intelligenti, e quindi siano facilmente manipolabili.
Oppure pensa invece che siano dei geni e che anche per tale
motivo raggiungano una saturazione di tolleranza più velocemente e più
energicamente di altri.
Esponili ad un costante bombardamento mediatico incentrato
sul semplice fatto che dai per scontata una fortissima escalation di un
fenomeno che non solo tu accetti di catalogare come islamico, ma che già in
principio è identificato come “terrorismo”.
Il che già da solo lo colloca in uno scenario da “cultura
del terrore”.
Considera dunque, che questo “movimento culturale” venga
percepito come degno di essere seguito, anche solo perché è diverso dalla merda
in cui ti ritrovi a vivere.
Aggiungi un giornale che si definisce di satira, ma che
dalle poche vignette viste in televisione, può apparire piuttosto intriso di
triviale sarcasmo.
O per meglio dire, di pornografia dell’umorismo.
Dell’ironia, se preferisci.
Considera anche che vanno in edicola con 60.000 copie di
tiratura e, se conosci un po’ l’editoria, sai che non sono poche e venderle non
è mica facile.
Pensa quindi che cerchi di inventarti ogni volta nuovi colpi
ad effetto proprio per vendere la tua tiratura, perché vendere ti piace, e così
tanto che dopo l’attentato progetti addirittura di tirare 1 milione di copie
invece delle tue solite già tante 60.000.
Considera infine che stai scherzando con la religione la
quale coinvolge la vita e soprattutto la speranza di qualche miliardo di
persone, terrorizzate si, ma dalla consapevolezza di come devono vivere.
Prescindendo da considerazioni sul fatto che il tuo diletto
sia opportuno o meno, la probabilità che in mezzo a loro non ci sia nessun
pazzo è rappresentabile con una curva di limite matematico tendente a zero.
Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi, si dice.
Proverbio o monito profetico?
Mettici anche che ti piace credere di prendere in giro, ma
in realtà spesso offendi e basta, la più giovane religione monoteista del
mondo.
E che essendo giovane è poco propensa all’autocritica e
autoironia.
Dovresti capirlo facilmente, se esercitassi la memoria.
Non eravamo forse così integralisti anche noi cristiani fino
a poco tempo fa?
Anche le culture, del terrore o no, hanno una loro anagrafe.
Noterai come d’improvviso, se segui tutti i passaggi logici,
ti si presenti piuttosto chiara una certa evidenza : “ma che cazzo ti aspettavi
che succedesse?”
E infine : ma non vedi che il Grande Disgregatore invece sa
bene cosa aspettarsi, eccome ?
Questa riflessione fa riferimento all’attacco criminale alla
redazione del giornale francese Charlie Hebdo.
Non la ho pubblicata a caldo proprio per non buttare benzina
sul fuoco.
E mi è dispiaciuto non farlo perché mi è sembrata proprio
ben congeniata e pertinente, sia allora sia rileggendola adesso.
Ma in tale modo penso, appunto, di avere evitato di buttare
benzina sul fuoco.
O in termini di psichiatria quantica, ho cercato di evitare
di afferire energia ad una già vigorosa sua configurazione negativa, da
qualsiasi parte la si guardi.
O in altri termini ancora, ho evitato di aumentarne il
potenziale di importanza energetica .
Ho lasciato stare i santi tutti, di qualsiasi religione ed
anagrafica età essi fossero.
Ma adesso che è passato del tempo, penso di poterla
pubblicare perché “chiamarsi fuori” o astenersi dall’aumentare il casino è cosa
buona e giusta sul momento.
Educare a cercare le verità nascoste, ove si ritenga di
averne titolo, o a non lasciarsi ingreggire nella passiva assunzione della
verità pubblicamente iniettataci, invece è un dovere.
Anche se non deve diventare fonte di compiacimento
personale.
Sul tema mi hanno segnalato, e io risegnalo, www.dirittiglobali.it 2015 01 09 - Terrorismo di Stati e
scontro di inciviltà
Sempre gli stessi autori mi hanno ricordato che il qualche
volta compianto Giulio Andreotti ebbe a dire (pubblicamente, non in privato)
che se fosse cresciuto in un campo profughi in Cisgiordania
probabilmente sarebbe divenuto
anche lui un terrorista.
Tornando al titolo, io in Cisgiordania non ci sono mai
Stato.
O almeno così credevo.
Ma forse una verità nascosta è che invece ci sono stato, ma
con gli occhi dell’anima di qualcun altro.
18 Viaggio nella Qasba.
A Milano c’è la Qasba.
Anzi, dirò che ce ne è più d’una. Ma una ce l’ho dietro casa
e quindi è vicina.
Wikipedia la definisce cittadella fortificata di una città
araba, frequentemente cinta da mura difensive e solcata da stradine su cui
insistevano abitazioni private.
Mura difensive e fortificazioni oggi a Milano sono
metaforiche, ciò nondimeno esistono e funzionano.
E’ un mondo a parte.
Quella che conosco un poco è quella di Milano, appunto.
Quindi non ho nemmeno dovuto viaggiare molto per andarci.
Comunque, a Milano le Qasba ci sono pure da qualche
decennio.
Per tanti milanesi distratti sarà una bella rivelazione.
Chi se l’aspettava, eh ?
Ma anche per tanti politici estremisti deve essere una bella
scoperta. Già.
Sempre concentrati su quei quattro gatti di rom, si devono
essere persi qualche centomila “cristiani”.
Ah, già.
Forse se li sono persi per l’appellativo di cristiani, che
comunemente viene usato come sinonimo di anime.
Ma se poi l’anima è islamica forse me la perdo del tutto e
non mi accorgo nemmeno che esiste.
Allora, tutto il discorso è per dire che bisognerebbe farci
tutti quanti un giro dentro, a queste Qasba.
E forse si capirebbe quale è la realtà.
Certo, ci sono le case popolari.
Non sono bellissime, è vero.
Ma stanno in piedi, non sono ridotte a cumuli di macerie
come in guerra.
Ci sono negozi aperti sempre, il che è comodo anche per me.
Oltretutto hanno un sacco di cose strane che solleticano le curiosità.
Ci sono ristoranti maghrebini. Cous cous formidabili.
Ci sono i kebab shop. Valida alternativa al Mc Donalds di
turno.
Ci sono le loro fantastiche speciali macellerie.
Si perché poi, cosa incredibile, ci sono i mussulmani.
Tanti.
Di tanti paesi, e di tante razze.
Si vede dal colore della pelle.
E’ incredibile, sapete ?
Accorgersi che sono neri oppure arabi si può fare.
Senza per ciò discriminarli.
Anzi, cercando di imparare dalla loro differenza.
Riconoscere la razza è questione di rispetto.
Diventa razzismo a seconda di come li tratto.
Se ricordate ho già parlato degli “ismi”: molti sono
accomunati da valenze negative.
In ogni caso, nella mia Qasba di Milano, ci passo
regolarmente a piedi da anni.
Faccio la strada per andare a prendere mia figlia.
E in tanti anni mai nessuno mi ha importunato, o scippato, o
minacciato.
Sono tutti indaffarati in una attività incredibile : si
fanno i cazzi loro.
Addirittura ci passo anche con mia figlia che adesso ha 11
anni, ma io ce la portavo già da piccola.
E’ bella, castana chiara, quasi bionda.
Deve essere stato un miracolo !
Nessuno la ha mai stuprata.
Nemmeno rapita.
Addirittura a volte la salutano.
Allora ho cercato di capire come fosse stato possibile avere
ricevuto tanta grazia di incolumità.
Finchè un giorno dopo anni di studi sociologici e
psicologici e allologici di ogni tipo, ho visto la luce.
Ho ricevuto l’illuminazione!
Se io e mia figlia siamo ancora vivi è perché i mussulmani
di Milano sono poveri.
Sissignore.
Ma ciò nonostante non poveri abbastanza da non riuscire a
vivere comunque più o meno dignitosamente.
Pensateci, la prossima volta che esplode una kamikaze
bambina o qualcuno si mette a sparare.
La spiegazione è più facile di quanto sembra.
E la soluzione sarebbe altrettanto semplice.
19 Viaggio dai campesinos
Ritorniamo a raccontare del Centro America.
Forse perché ci è più affine di qualsiasi altra parte del
mondo, lo cito spesso.
La chiamano America Latina, infatti.
E noi italiani dicitur che latini lo siamo si sicuro.
Questa volta voglio raccontare alcune snapshot e aneddoti di
pseudodiversità dalle lontane origini socio storiche.
La prima è questione di calzatura.
“Se vuoi conoscere un uomo, guardagli le scarpe” mi diceva
sempre mia madre. E io lo ripeto spesso.
Così feci io quando, seppur non al massimo, arrivai al
Messico.
Il primo ricordo è quindi un ricordo scarparo.
Non parlo in termini cronologici, quanto piuttosto logici.
Del Messico ricordo strade tanto polverose e polveri tanto
diffuse. Ti entravano dappertutto.
Quelle strade passavano in mezzo al nulla, e tutto questo
nulla era intervallato solo da alcune baracche con un cartello in bella vista.
Botas. E poi botas. E poi ancora botas.
Ad un certo punto il condizionamento fa il suo effetto e io
decido di fermarmi.
Un mondo si apre ai miei occhi: scaffalature “quasi” piene
di botas.
E dico quasi, perché siamo pur sempre nelle campagne
terzomondiste.
Uno scaffale si riempie con una decina di articoli, mica con
una gragnuola di specchi per allodole.
Botas: sono gli stivali.
I classichi stivali camperos di pelle di mucca visti in
tanti film.
Sono un simbolo.
Ma sono anche una necessità.
Con tutta quella polvere che, come nebbia se foste in val padana,
nasconde scorpioni e serpenti a sonagli, non è consigliabile andare in giro con
altre calzature.
Eppoi sono belli. Per lo meno, a me piacciono un casino.
Fanno tanto western gaucho.
Ma il punto è un altro.
Ed è sintetizzabile con il concetto di scontro di civiltà,
se raffrontata alla porzione di America confinante a nord.
Da un lato lo stivale.
Dall’altro le scarp de tennis.
Le cui più note sono di usurpata nomea che tutti conosciamo
come vittoria, ma siccome è in greco non ce ne accorgiamo. Parlo delle Nike,
ovviamente.
Pensateci.
Da un lato le Vittoria su tutto il continente. Dall’altro la
prudenza antideserto fatta botas.
Da un lato la corsa. Dall’altro la poesia della siesta.
Da un lato i bambini in fabbrica. Dall’altro i bambini che
te li vendono, e tra l’altro con gran
maestria di trattativa. Il che comporta che il guadagno se lo tengono tutto
loro in famiglia.
Insomma, io sono della
scuola di pensiero del noto adagio: ”in botas veritas. In nike no
caritas”
E quindi ne compro un bellissimo paio tinti di nero pure con
la punta di ferro.
Con l’aiuto dello scugnizzo, me li metto nella polvere e non
me li tolgo più.
Botas ai piedi, arrivo dunque a Città del Messico.
Anche se in realtà Mexico City era la prima tappa del
viaggio, ragione per cui mi chiedo se gli stivali avevano qualche qualità
magica che mi abbia fatto viaggiare nel tempo e soprattutto nello spazio fino
ad una “boteria” che mi avesse permesso di riatterrare dopo a Città del Messico
con la scarpa giusta.
Come sia sia, adesso ero li.
E pure giusto-scarpato.
Curiosamente, appena sceso dall’aereo mi aspettavo di
trovare una cortina fumogena sopra tutta la città.
E invece nella città normalmente additata come una delle più
inquinate del mondo il cielo era come quello di Milano.
Azzurro, seppur un po’affaticato.
Addirittura lasciava passare anche la luce del sole.
Non eravamo al buio.
Per strada ci sono tanti essere umani.
Per quanto io mi sforzi di cercare, non riesco a vederne nemmeno
uno geneticamente mutato dallo smog.
Nemmeno uno straccio di misero mutante con quattro braccia.
Inizia a serpeggiare dentro di me un atroce dubbio: ”ma vuoi
vedere che ‘sti messicani sono uguali a noi ?”
Parcheggio questa perversa idea unitarista e mi avvio
camminando camminando per la città.
Dopo avere liquidato el Zòcalo, o
Piazza della Costituzione grazie ad una precisa diagonale con cui la
sezionai in due immaginari triangoli, mi affaccio su di un’altra piazza.
E si apre un mondo.
La piazza ha una respiro antico. Trasuda Europa ispano-coloniale.
Ci sono portici tutto intorno.
In mezzo c’è un giardino palmato.
Ma la cosa che mi incuriosisce, sotto uno dei portici, è che
quella che sembra una generica calca di persone in realtà è ordinatamente
organizzata in piccole file indiane ortogonali alla lunghezza del porticato.
Allora mi avvicino ad una di esse e osservo che di fronte ad
ognuno dei capofila delle file indiane, c’è un uomo in piedi dietro ad un
banchetto di legno.
Sul banchetto, su ogni banchetto, c’è una macchina da
scrivere.
In fila ci sono quelli che hanno bisogno di farsi scrivere
una lettera a pagamento.
Dopo un po’ di osservazione mi rendo conto di una profonda
frattura sociale.
Sono due i tipi di clienti dei moderni scribi.
Ci sono quelli che hanno bisogno di una lettera scritta bene
a macchina, magari per questioni legali o anche solo per fare bella figura con
i destinatari, che si presentano con un minuta su manoscritti pezzi di carta
perché non hanno la macchina da scrivere, e men che meno un pc.
E poi ci sono quelli che non sanno nemmeno scrivere, che si
presentano con la sola proprietà della più classica delle manifestazioni di
antica cultura.
La tradizione orale.
Dettano, spesso farraginosamente e tra gli improperi dello
scriba di turno che perde tempo, quello che hanno in mente.
Il look non lascia spazio a molti dubbi.
Camicioni chiari, pantaloni sporchi, cappello se non
sombrero, e naturalmente stivali impolverati a dovere.
Per rispetto verso la conoscenza dell’intellighenzia di
casta dello scriba, il cappello se lo tolgono e lo tengono tutti in mano al
cospetto dello scrivano.
Sono campesinos di rivoluzionaria memoria della Rivoluzione messicana
E io non posso pensare nulla se non: “ecco un altro esempio
di rivoluzione rimasta tronca”.
Peccato.
Le scarpe ce le avevano giuste.
Chissà cosa è mancato.
20 Viaggio a Secondigliano
Lo so.
Secondigliano non è una meta usuale, e che qualcuno ci possa
andare di proposito appare proprio una follia.
Mi rendo conto.
Eppure io ci sono andato.
Avevo circa 25 anni. Ero un ragazzino, o come meglio mi
inquadrarono dopo, un signorino.
Per chi non lo sapesse, Secondigliano è una frazione di
Napoli.
Una specie di parteno-casbah tra aeroporto e tangenziale:
muri scalcinati, strade groviera, panni appesi e spesso, seppur non sempre,
pure la notoriamente pitoreska monnezza
per strada.
Inoltre è rinomata zona di camorra: ci furono addirittura
gli Scissionisti di Secondigliano
Abbastanza vicino, c’è un cimitero detto degli inglesi.
Io sono destinato proprio li. Sto andando al funerale di mio
zio, che pur non essendo affatto inglese per quanto a me noto viene sepolto li
per questioni di mafio-disponibilità di tombe.
Pare che altrove non si siano trovati posto o accordo con le
autorità camorristiche preposte.
Anche se oggi non so se fosse realmente così, devo dire che
ho imparato che il bello delle storie è quando sono belle. Non necessariamente devono
essere completamente vere.
Questa in ogni caso mi sembrava anche verosimile, quindi
saremmo a metà strada tra il bello e il vero, il che mi pare già un buon
affare.
In ogni caso arrivo all’aeroporto vestito di tutto punto:
cappotto blu, pantalone grigio e scarpe nere.
E vado verso i taxi.
Mi sporgo verso il primo, che mi squadra e mi fa : “Noo,
signori’. Nun se ne parla proprio. Chiedete al prossimo”.
Resto un attimo interdetto, e poi vado oltre.
Il secondo mi squadra pure lui e mi fa : “Signori’ ma che ve
siete asciuto pazzo ?”
Passo al terzo che dopo avermi squadrato anche lui, mosso a compassione mi fa :”Signuri’, non vi
portano perché è troppo vicino. Aspettano ‘nu cliente da n’ora. Se portano a
vuje rischiano di perdere ‘na corsa buona.”
“Ma ci potete andare a piedi, sono 5 minuti.”
E mi indica la strada, lungo la quale mi incammino ligio
ligio.
Dopo pochi metri dall’uscita del’aeroporto sono già a
Secondigliano cuore, se non centro.
E sempre vestito di tutto punto, cammino amenamente per la
strada, tra lo spettacolo descritto all’inizio.
Comincio a percepire sguardi, e mi rendo conto che qualcuno
a qualche finestra mi osserva.
Andando avanti gli spettatori si moltiplicano.
Io mi rendo conto di essere avulso dal contesto quanto un
marziano in una chiesa.
Ma continuo a camminare.
Inizio a capire che l’unica cosa che posso fare è far finta
di niente e proseguire.
Dopo i 5 minuti menzionati dal terzo tassista, di cimitero
non c’è neanche l’ombra.
Si deve camminare ancora, con il pubblico dei miei
spettatori sempre in osservazione.
Adesso sono preoccupato, ma vado avanti ancora in apparente
tranquillità per una decina di minuti prima di arrivare a ingresso cimitero,
che mi appare in tutta la sua cimiteriale magnificenza come un’oasi nel
deserto.
I parenti ascoltata la storia, tutti in coro mi fanno : “ma
che ti sei impazzito ?”
“A piedi a Secondigliano, e pure vestito da signorino? Sei
vivo per miracolo.”
E uno di loro aggiunge: probabilmente si stanno ancora
chiedendo se quello appena passato era un pazzo o il figlio di qualche boss
appena tornato da Harvard. Un signorino, appunto.
Possiamo dunque dire che sono vivo grazie ad una sorta di
mimetismo di seconda generazione camorristica.
Meno male che anche la camorra si insignorinisce.
O forse in quanto fenomeno di resistenza sociale non è vero
che sia sempre così incarognita come si dice?
21 Viaggio al Barrio
Siamo in Centro America, senza menzione di una nazione
precisa perché la storia poteva accadere ovunque.
Arriviamo in città in aeroporto e da li partiamo in taxi
alla volta dell’albergo.
E’ in centro, un centro che potrebbe essere di qualsiasi
città, anche europea. Forse l’unica differenza è la quantità di palme che ci
sono, ma subito penso a Nizza o a Cannes e mi dico che le palme non sono necessariamente
un fattore distintivo esclusivo del luogo.
L’albergo è moderno, di una qualsiasi catena transnazionale.
Dopo averci preso i documenti la ragazza alla conciergerie
ci da una piantina e ci inizia ad illustrare le attrattive locali.
Alla fine mi guarda con sguardo imperativo e mi fa : ma
soprattutto “cuidad a El Barrio”.
Non ci dovete andare per nessun motivo. E’ una zona “chiusa”,
malfamata è molto pericolosa.
Il barrio letteralmente vuol dire il quartiere.
Ma quando l’articolo non è più indeterminativo, e diventa “Il”,
o “El”, un motivo ci sarà.
In ogni caso Il Barrio inizia proprio al di la del vialone
palmato su cui sta anche il nostro albergo.
Io so già che non potrò resistere alla tentazione. Oramai
questo mitologico Barrio lo voglio vedere.
Usciamo quindi per andare a mangiare. La mia compagna mi
chiede candida “cosa ha detto la concierge?”
Io rispondo : “no, niente le solite cose”, mentre mi dirigo
dritto dritto verso La meta.
Entrati nel Barrio ho la prima sorpresa.
Non ci trovo nulla di sconvolgente. Le case sono un po’ più
scarrupate, ma tutte basse e quindi “umane”.
Ci sono i piccoli negozi di alimentari. Qualche ragazzino
che gioca per strada.
Insomma, Secondigliano era peggio. Ma anche certe zone dei
quartieri spagnoli di Napoli mettono la stessa, se non maggiore, soggezione.
Ad un certo punto incocciamo in un posto dove mangiare, e
entriamo.
Tavoli di legno e arredo povero, ma tutto sommato niente di
diverso da una nostra pizzeria.
Tacos e fajitas sono assolutamente equipollenti a una nostra
pizza. Buoni.
La birra è locale, quanto una Peroni in Italia. Buona pure
lei.
Paghiamo e una sorpresa ce l’abbiamo: il prezzo non è
infinitesimale come si poteva etnocentricamente e colonialisticamente
presumere, ma dello stesso ordine di grandezza di un prezzo nostro.
Insomma, sembra tutto più o meno uguale a casa nostra.
Almeno fino a che usciamo per tornare all’albergo.
Ci incamminiamo e subito mi accorgo che ci sono 4 ragazzi
che ci iniziano a seguire.
E mi do del pirla per essermi avventurato li dentro.
Acceleriamo il passo, ma quelli non mollano.
Ho anche il problema di dovere riconoscere le strade, per
cercare di arrivare al vialone palmato.
I 4 ci continuano a seguire a breve distanza, ma fino a quel
momento senza arrivare a distanza ravvicinata.
Io inizio a fare i conti di quanti soldi ho, chiedendomi se
basteranno a farli andare via.
Un brivido mi percorre, pensando ai pericoli per la mia
compagna.
Continuiamo a camminare veloce, e con la coda dell’occhio
vedo che i 4 parlottano.
All’improvviso, due di loro scompaiono in una piccola
traversa laterale.
Pochi secondi e ci risbucano davanti.
Iniziano a serrare i ranghi, due davanti e due dietro.
Noi siamo evidentemente terrorizzati e loro iniziano a
ghignare, sempre più insistenti.
Ad un certo punto uno di loro mi si avvicina, mi mette una
mano sulla spalla, e sempre sghignazzando mi fa: tranquilo senor. Non ti vogliamo
fare niente. Volevamo solo giocare a farvi paura, non si vedono molti stranieri
en El Barrio.
E conclude : “Avete visto che non è così male come dicono ?”
E che volete, io alla gratuita cattiveria proletaria non ci
ho mai creduto.
22 Viaggio in Citalia
L’Italia la ho girata parecchio.
Soprattutto quando ero giovane andavo in giro per lavoro.
Andavo a vendere il biodiesel, il neo-creato gasolio fatto
di olio vegetale.
Dentro di me c’era già il rifiuto per quel modo di pensare
che crea le differenze e gli opposti.
Ragion per cui viaggiavo in macchina, mai usando
l’autostrada e passando per tutti i paesini tipici d’Italia.
Essendo metropolitano e veloce, mi compensavo da solo e giravo
lento e in provincia.
Abbiamo 8.000 comuni, è noto.
Ma quanti contano anche le frazioni come luoghi di identità
autonoma ?
Se li contiamo a quanto arriviamo ?
Spariamo un numero : tra 25.000 e 50.000 frazioni.
In realtà, si capisce presto che sono tutti molto simili.
Anzi, diciamolo pure: sono uguali.
Sono in centro antichi o almeno vecchi.
Sono disabitati, almeno in larghe parti.
Sono dotati di servizi di base omogenei : chiesa e bar,
innanzitutto.
Il che è già indicativo del modello sociale diffuso.
I più grandi hanno anche la sede del comune, le poste, i
carabinieri, il negozio di alimentari e l’osteria.
Molti hanno luoghi o edifici di interesse storico o
artistico.
Tutto ciò testimonia l’esistenza di un modello di
riferimento.
Qualcuno ci ha pensato, a farli tutti così.
Non può essere che siano nati così in maniera spontanea.
Esiste qualche differenza tra nord, centro e sud, è vero.
Più si scende e più le case sono scarrupate, ma meno
disabitate.
Il Sudicio, emigrazione a parte, resta più legato al suo
territorio. Il quale parte proprio da casa sua.
E spesso li finisce.
Se in Italia siamo nel paese “del campanile”, al sud ogni
abitazione privata è principio, o idea, di campanile.
Ognuna fa un mondo a se stante, tanto è vero che si ampliano
e modificano a proprio piacimento senza permessi di sorta per qualsivoglia
intervento di urbanistica.
Sempre seguendo il flusso di emigrazione al contrario, si
nota che più si scende e meno presente si fa la presenza dello Stato.
Le costruzioni con le sedi dei comuni, dei carabinieri, o
delle poste si notano meno.
E’ una strana caratteristica, questa.
Le sedi sono simili a quelle dal Nord, ma per qualche oscura
ragione uno non le guarda, o non le nota, mai.
Resistono le chiese, invece.
“E priammo ‘a maronna, ca ‘ncoppa ‘a terra po’ cagnà”
cantava Pino Daniele.
Al sud questo precetto resiste.
E così si riesce a sopportare qualsiasi cosa.
Mi sono trovato più volte a giocare con il pensiero,
fantasticando su cosa si potrebbe fare per salvare o rivitalizzare il Bel Paese
a partire dal sud, ma non mi è mai venuto in mente niente di risolutivo.
Si, certo: si dovrebbe partire dalla scuola, dall’educazione
in genere.
Si dovrebbe rilanciare l’economia.
Si dovrebbe bloccare il malaffare e la corruzione.
Si dovrebbe affrontare degnamente la questione meridionale.
Tutta roba nota e trita e ritrita.
Finchè un giorno ho visto la luce.
Come mi piace dire spesso: ho ricevuto l’illuminazione.
Per sistemare l’Italia, la realtà è che non si può fare
proprio niente.
Il problema dell’Italia è l’italiano.
Gli dovresti cambiare al testa. Ma non si può.
E quando non si può cambiare la testa della gente c’è solo
una alternativa.
Si deve cambiare la gente.
E allora mi è venuto in mente un modello a contaminazione
cinese.
Un esempio di loro tessuto sociale ce lo abbiamo in casa.
A Milano c’è la più grande comunità cinese d’Europa.
Le fonti ufficiali dicono che sono più di mezzo milione di
persone.
Arrotondiamo per simpatia e facciamo finta che siano un
milione, resurrezioni d’anagrafe incluse.
Bisognerebbe farsi tutti un giro.
Guardare le vetrine, cosa vendono.
Il loro modello di consumo.
Quali sono i loro beni primari e a che prezzo li vendono.
E quindi come siano accessibili e a quanta gente, senza
socio-barriere di reddito.
Senza segmentazioni di classe.
Senza culto sfrenato per il lusso individualistico, che a
noi italiani piace tanto. La griffe “che ho solo io”.
E poi si dovrebbero guardare le persone.
La quantità di loro che ruota attorno alle attività
microeconomiche.
Provate ad entrare in un bar, oggigiorno in larga parte
gestiti da cinesi e non più direttamente da ‘ndrangheta e camorra.
Dove prima c’erano 3 italiani oggi lavorano 10 cinesi.
Ci sono tutte le famiglie allargate.
E il bar da da vivere almeno a tre volte tanti italiani.
Se non è comunismo questo, non so cosa lo sia.
Solo che questo è comunismo socio-naturale.
Non è imposto da nessuno.
Salvo che da una deterrenza geneticamente assimilata.
Se qualcuno sgarra, l’impressione che ho io è che diventi
salsiccia in men che non si dica.
E quindi non sgarra nessuno.
In tutto questo, in un paio di decenni la nostra Chinatown
si è ripulita e riordinata.
Isole pedonali, aiuole, strade pulite, negozi in spolvero,
gente in giro e così via.
E allora subito dopo ho pensato a Honk Kong.
Per salvare il Sud di Italia, se non tutta Italia, l’unica speranza
è fare come Honk Kong.
Si badi bene. Non ho detto come “a” Honk Kong.
Intendevo proprio come fu in principio Honk Kong, al
contrario: dare in concessione ai cinesi tutto il Sud.
Per almeno duecento anni.
Se facessimo solo cento poi tornerebbe in gestione a noi
Italiani che lo sfasceremmo subito di nuovo.
I cinesi lo tirerebbero a lucido, a partire dal patrimonio
storico artistico, e ci farebbero colonie per le vacanze per i nuovi benestanti
turisti cinesi.
Con un centinaio di milioni di loro all’anno che spendano
1.000 euro a testa, faremmo girare comodamente 100 miliardi all’anno, più che
sufficienti a remunerare l’investimento in capitale cinese e il lavoro
italiano.
E dopo duecento anni, ci troveremmo in mano un gioiellino.
Citalia : questo è il titolo.
Questa è l’ultima speranza che abbiamo.
23 Viaggio a Rimini
A Rimini ci sono stato due volte.
Una diurna,e una notturna.
Voglio raccontare della seconda, ma con una premessa che
nasce dalla prima.
Se Lugano come estero è un truffa, Rimini come mare è una
burla.
Eppure tanta burla funziona, se ogni estate si riempie di
turisti.
Quando ci arrivai la prima volta in auto, iniziai a cercare
quei classici cartelli stradali marroni che indicano le attrattive
turistiche e non le indicazioni
urbanistiche.
Iniziai a cercare quella con la parola “lungomare” o meglio
ancora “spiaggia”.
Normalmente il mare è facile da trovare, soprattutto se si
arriva da qualche altura vicina.
Ma qua siamo in piena landa tavoliera, seppur non di puglia,
la quale non tutti sanno che vuol dire non solo puntata di poker, ma anche
gallina.
Essendo in piano, non è dato di riconoscere alcuna discesa
verso il mare.
Alla fine trovo parcheggio e mi decido a chiedere
indicazioni, che mi vengono solertemente fornite.
C’è un divino sacrale culto per il turista, per cui alla di
lui domanda, si scatena la gara a chi fornisce per primo la risposta più
esauriente.
E così il turista viene naturalmente instradato verso il suo
destino di pagatore.
Tutto sommato non è nemmeno un destino tanto spiacevole, se
ti trattano così gentilmente.
Finalmente giro uno dei tanti palazzi parallelepipedi armati
di cemento, e mi si apre la vista che mi aspettavo essere di mare blu.
Invece davanti a me, a perdita d’occhio dopo il primo
schieramento di cabine ed ombrelloni, vedo solo una landa sconfinata
monocolore.
Vedo solo marroncino, beige.
E’ solo dopo qualche istante che il mio occhio cancella
l’idea di realtà che gli aveva preparato il cervello e si adatta alla realtà
vera.
Il grande beige ad un certo punto in lontananza appare in
movimento.
Lasciando l’occhio libero nelle sue scansioni, ad un tratto
quello riconosce delle conformazioni diverse dalla spiaggia. E mi restituisce
il mare.
E’ dello stesso colore della spiaggia. Tanto che se ci vai
vicino e ci metti i piedi dentro non li vedi.
Chiamarlo mare davvero non si può.
Con questo ricordo in mente, mi ripresento a Rimini qualche
anno dopo per lavoro.
Questa volta è inverno ed è sera.
E’ già buio.
Ma c’è una bella aria.
Si sente l’odore del mare.
Una volta ogni tanto è un toccasana.
E’ un odore che ti ricorda che c’è qualcosa di più grande di
quello che siamo e che facciamo.
Dopo cena mi avvio a fare una passeggiata sulla spiaggia.
D’un tratto nella penombra delle luci create dai lampioni del
lungomare intravedo una coppia abbracciata sulla spiaggia.
Quello che stanno facendo mi sembra inequivocabile.
E quindi allargo il giro del mio sentiero immaginario per
lasciarli in pace.
Mentre resto intento a distogliere lo sguardo dai due
amanti, mi accordo della presenza di qualcun altro sulla spiaggia.
Fingendo di fare l’indifferente, la coppia invece la sbircia
e non la lascia in pace.
D’istinto giro lo sguardo tutto intorno e mi accorgo che non
è il solo.
Realizzo di colpo: sono guardoni.
Evidentemente la markettata rivoluzione sessuale che
d’estate si manifesta in drogucce mescaline e no, discoteche, rave e balle
varie, lascia un suo personale mare di vibrazioni di perversione anche in inverno.
Restano immagini fatte di quanti stanziali.
Che non migrano.
E nemmeno vanno in letargo.
Figure di tette e di culi che condizionano intere parti
della popolazione la quale senza sesso non sopravvive.
Mi fanno quasi tenerezza: deve essere un inferno.
Ovviamente se fossero stati in un posto con il mare vero per
davvero sarebbe stato diverso.
Il mare vero fa un altro effetto
Ma stando come stanno le cose non posso non pensare che la
rivoluzione più che sessuale mi pare sessuata.
E un flash mi coglie : ecco la solita conferma.
Ecco un’altra rivoluzione mai finita.
O forse, mai iniziata davvero.
24 Viaggio in Monferrato
Anche in Monferrato ho vissuto abbastanza tempo.
E’ una terra bellissima.
Di campagna spesso pervasa di integrità medioevale.
Ci avevo localizzato l’epicentro e il baricentro del
progetto chiamato Microeconomia
Adattiva Complessa.
La quale era la mia idea di rivoluzione privata.
O una delle.
Era un modello di investimento microproduttivo replicabile
all’infinito.
Rispondeva all’idea di una economia “peer to peer” .
Tante sinapsi collegate tra loro. Nessun centro dominante.
Non la ho mai completata, e mi piace dire che non lo ho
fatto come soltanto ai grandi è concesso.
Solo ai grandi sono concesse le “incompiute”.
Ma a me ha dato modo di toccare con mano la reale natura di
tanta parte dell’anima italiana.
Ci possiamo girare intorno quanto vogliamo, ma noi siamo un
paese di vassalli, storicamente terra di conquista, diventata pure colonia.
Ce lo abbiamo nei geni.
Viviamo di espedienti, certo.
Ci siamo addirittura inventati che arrangiarsi sia un arte.
Il “razionale” che ci serviva per qualsiasi minchiata ci
venisse in mente.
E per giustificare l’Italia dei pezzenti di spirito.
Dei mendicanti dissimulati.
Degli usurpatori di idee.
Dei tecnocrati improvvisati.
E infine dei ladri polli, quelli che sentiamo continuamente
in televisione.
Gente di ogni ambiente e di ogni classe che si prostituisce
per pochi spiccioli.
Siamo in larga parte una genìa di parassiti.
O meglio, la nostra testa lo è di sicuro.
Larga parta della base segue felice.
In Monferrato io ne ho visto una ampio campionario.
C’era il finto agricoltore sempre piagnucolante miseria per
cercare contributi e aiuti vari, che poi si scoprì avere proprietà in Sud
America e soldi in Svizzera.
C’era il sofisticatore alimentare che usava il marchio di
una istituzione sociale per produrre nella sua lurida casa prodotti senza
alcuna garanzia igienico sanitaria che poi rivendeva come prodotti di
produzione sociale e professionale.
C’era il costruttore edile che si appropriava dei soldi per
una ristrutturazione mai effettuata giustificandosi con spese imprevedibili il
fatto di non avere più i soldi per fare il lavoro che gli era stato pagato.
C’era il venditore di impianti fotovoltaici che incassava e
faceva sparire cospicui anticipi prima di essere autorizzato a fare gli
impianti stessi. I quali restavano incompiuti.
C’era il ladro di idee web, che copiava pari pari nostri
siti di nuova concezione, nascondendosi dietro a reiterate improbabili negazioni
sul fatto che li avesse copiati.
C’era il ladro di marchi commerciali, che copiava nuove idee
e usava per finalità del tutto distoniche come ad esempio convegni politici.
Addirittura c’era l’ammaestratore di uccelli rapaci, che chiese
contributi per un’aquila da esibizione ritrovatasi senza dimora per la chiusura
del parco dove lavorava. Aquila mai vista da vicino.
Insomma, appena qualcuno percepiva che c’era una tetta a cui
attaccarsi, si inventava qualsiasi modo per succhiare.
L’arte di arrangiarsi, appunto. Che schifo.
Arti e mestieri. Si. In Italia un paio di cazzi.
Butecai e truffatori, questo mi sciorinò l’italica genìa.
D’altronde in terra ed era di medioevo, se nel bosco passa
un signorotto a cavallo da solo, cosa ci si può aspettare ?
Prima di raccontare il colpo di grazia che mi fece “mollare
il colpo” definitivamente voglio dire che nonostante tutto ciò io sono fiero di
non avere perso la mia anima fiduciante.
Sono ancora incontaminato e a chi mi chiede fiducia io do
fiducia, fino a prova contraria.
Quello che ho sviluppato è una certa tendenza alla
valutazione diffidente, ma cosa ben più importante, gli anticorpi alla “sola”.
Fottetemi pure, se vi pare.
O provateci.
Io sono immune.
E’ peggio per voi.
Siete voi che ci smenate.
L’anima, certo.
Ma soprattutto me.
Ma ritorniamo al colpo di grazia.
A quello che mi fece decidere di avere perseverato
abbastanza, e di dovermi ritirare per egoistica sopravvivenza.
Per non finire senza più un soldo buttato in mezzo a una
strada con il cartello ”fate l’elemosina a Giovanni che ha sbagliato il conto
degli anni”.
Pure in rima, con un classica quartina di Claudiàn, dirò:
Il fotovoltaico di Stato.
Non t’avessi mai incontrato.
In ogni caso m’hai truffato.
Ci restassi fulminato.
La farò breve. Avevo deciso che parte del progetto dovesse
essere la produzione da fonti rinnovabili del vero bene primario della nostra
economia, forse meglio del nostro sistema: l’energia.
Tra le varie fonti c’era il fotovoltaico.
La location era a fianco della cascina sede principale del
progetto.
Uno dei motivi per cui l’avevo comperata era che aveva già
la linea a media tensione a cui ci si poteva attaccare per far confluire
l’energia prodotta in rete e quindi venderla.
Era li a portata di mano.
Si vedevano i pali fino alla centralina a meno di 500 metri
di distanza.
Iniziò il delirio per cercare di districarsi in mezzo alla
giungla di offerte per la costruzione dell’impianto.
Il settore è strategico e avrebbe dovuto essere “normato” in
ogni sua manifestazione.
Invece, di posatori di impianti improvvisati ce ne era
davvero una moltitudine, come quella di insetti e parassiti in una giungla.
Proliferati come pulci sulla schiena di un cane.
Alla fine decisi quindi di far due impianti: uno posato da
un privato della provincia di Brescia, che poi è quello già menzionato che
scappò con 80.000 euro.
E l’altro posato dal franchisee della rete dell’Enel del
posto.
Passarono mesi a fare sopralluoghi, visite, disegni
approssimativi.
Ogni volta spuntava una nuova voce di spesa.
Ogni volta nasceva qualche problema che doveva fare
ricominciare qualche iter da capo.
Finalmente dopo mesi, e dopo avere già pagato gli 80.000
euro, arrivò il tecnico Enel per dirci se potevamo fare l’impianto.
Mancavano pochi mesi al fine anno, data in cui gli incentivi
statali sarebbero stati molto ridimensionati rendendo di fatto l’impianto quasi
antieconomico.
Io continuavo a chiedere conferme formali sul fatto che gli
impianti sarebbero stati finiti e allacciati in tempo.
Il tecnico Enel, i bresciani e il franchisee (sembra un western
di Sergio Leone, e forse lo è), continuavano a ripetere solo di non
preoccuparmi, di ricordarmi che tutti quelli che volevano fare un impianto
erano nella stessa situazione e che “ce la farete tutti” .
Insistevano sul fatto che non era possibile, neanche solo
lontanamente, immaginare il contrario.
Un classico meccanismo di rimozione di massa.
Sindrome dello struzzo galoppante.
La sindrome, non lo struzzo.
Per dovere di cronaca, l’impianto costava più di 1 milione
di euro.
Non “farcela” comportava una bella botta, ma a quelli “Che
nce fregava?”, come diremo nel “Viaggio a Roma” confermando l’antico adagio che
tutto il mondo è paese in tema di italica parassiteria.
Arriviamo al momento in cui il tecnico Enel doveva parlare
dell’allacciamento alla rete.
Io guardavo sereno il mio palo a meno di 500 metri da me.
Quasi lo toccavo.
D’un tratto il tecnico mi “tocolea” la spalla e io mi giro.
Lo vedo che fa segni indicando un punto lontano dall’altra
parte rispetto al mio palo, a cui si arriva solo spaziando la vista sopra
decine di poderi agricoli evidentemente pettinati da coltivatori sconosciuti.
Tanti.
Capisco che mi sta indicando dove allacciarci.
Lo guardo allibito e gli chiedo perché non ci allacciamo al
punto vicino.
Quello che indica lui richiede centomila euro in più di spese
per la linea elettrica fisica e soprattutto le servitù di passaggio sui campi della
miriade di coltivatori su cui passare.
Il tecnico mi guarda e mi dice solo : “direttive interne”.
Io sono spazientito.
Mi metto a sbraitare, chiedo spiegazioni, ma tutti mi
guardano e restano silenziosi.
Andiamo avanti un po’.
Io ho già deciso che non faccio nessun fotovoltaico, troppo
rischioso.
Ho già calcolato che è più conveniente smenarci l’anticipo di
80.000 euro.
Figuratevi quanto doveva essere rischioso, per decidere di
mollare tale somma.
Mentre penso continuo a sbraitare, fino a che il franchisee
dell’Enel mi prende, mi porta da parte e
mi dice: “dottore ha ragione, ma possibile che non capisca?”
“Glielo ha detto anche il tecnico: “direttive interne”.
“Vuol dire che ci sono precise direttive con cui l’Enel
chiede l’allaccio più lontano possibile.”
“In questo modo si fa la rete a spese di chi vuol fare
l’impianto.”
“E non solo : si risparmia anche rischi e iter burocratici.”
Quando pure l’Enel
Smette di essere bel
Una cosa sola rimane
Aspettar l’estinzione
Metaforica due quattro
Che tutto spazi come aratro
25 Viaggio A Siena
A Siena ci ho vissuto, nell’intermittenza, per alcuni mesi.
Intendo dire che non ero propriamente stanziale.
Ma era assurta a mio campo base dal quale partivo per
scorrerie campagnarde cercando il luogo perfetto.
Quello che mi avrebbe sedotto senza possibile ombra di
dubbio.
Cercavo il mio grande amore.
L’anima gemella “du terroir”.
Il posto di campagna dove vivere, sposarmi e figliare una
intera squadra di calcio.
Ma non l’ho mai trovato.
Mi è rimasto il ricordo di una bomboniera caduta in mezzo alla
perfezione di Toscana.
Con alcune contraddizioni e anacronismi.
Ricordo gente che viveva di mestieri impossibili in
qualsiasi altro posto.
Il nobile decaduto che affittava stanze nel borghetto con
vista su castelletto medioevale affogato nelle vigne.
Il collinatore da pascolo, sempre nobile e sempre decaduto,
che concedeva il diritto di pascolo sulle sue colline a vari greggi bovini.
Ovviamente i fantini da palio.
Artigiani di ogni sorta.
Il cartapestaio, che faceva maschere ed oggettistica varia.
Il vasaio, che creava a più non posso vasi e oggetti in
terracotta.
I pellettieri, tra borse e varie e scarpe.
Ma la contraddizione peggiore, fu che cerca e ricerca non
riuscii mai a trovare il mio Mulino Bianco.
Suggerisco di leggere “1989-1994: la Famiglia del Mulino”.
Sempre geniale Wikipedia.
Fa capire quanto efficace sia il condizionamento
pubblicitario.
La famiglia del Mulino Biano è descritta perfettamente ed in
più è addirittura diventata voce enciclopedica.
Non fraintendetemi, se ci si addentra nei mille anfratti toscani,
in particolare del Chianti, la sensazione che se ne ha è proprio di essere in
una pubblicità. Tanto per farsi un’idea : Colline del Chianti
Ci sono anche tanti stranieri.
E’ tutto bello, tutto naturale, tutto ordinato.
Ad un certo punto quasi ti viene il vomito, tanto è melliflua
tutta quella perfezione.
E con la nausea diventa difficile innamorarsi.
Fu così che girando girando ad un tratto abbandonai il Chianti
e andai verso terre promesse più oscure.
Ed ebbi così modo di provare altre territorialità.
Avevo un amico tanti anni fa che mi insegnò a provare a dare
sempre un’altra interpretazione alle cose.
Diversa da quella comune.
Lui si definiva “Pescatore”.
Se lo era fatto scrivere anche sulla carta di identità.
Immaginate quando qualcuno gliela chiedeva.
In Toscana ci siamo andati molte volte insieme.
Con i vini era davvero spassoso.
Ogni volta che andavamo in qualche posto lui esordiva
dicendo “si, tutto molto bello, ma mi raccomando non mi rifilate vini da figa”.
E se il malcapitato oste chiedeva cosa fossero i vini da
figa, lui partiva con il suo panegirico sul Nebbiolo .
Esordiva sempre con “io sono lomellino”, tanto nessun
toscano sa nemmeno che la Lomellina esista e men che meno che ci si fa il riso,
non il vino.
E poi continuava con Nietzsche : “L’unica vera cucina è
quella Piemontese”.
“Mangiar bene è importante. E’ per come mangiano, che i
tedeschi hanno il loro brutto carattere”.
Quando assaggiava il Chianti di turno, ogni volta storceva
il naso.
Si, buono.
Ma c’è quella venatura di retrogusto dolciastro.
Il Nebbiolo invece…..
E subito partiva con il “contrappasso palatino (del palato)
o panevino”.
Cambiamo discorso, diceva.
Non è che voi toscanacci di qua avete finalmente avuto una
buona idea e avete messo il sale nel pane ?
Ma che cosa fate ?
Praticate il contrappasso palatino?
Siccome avete messo troppo sale nei salumi, non lo mettete
nel pane?
Ahh, non va bene, non va bene.
Salumi troppo salati.
Pane senza sale.
Vini da figa.
Dove mi tocca trovarmi, lontano dalla mia amata Lomellina e
senza neanche un vino decente.
Spesso incontravamo persone che non brillavano per sense of humour, e spesso mi
sono chiesto come non siamo mai stati presi a calci.
In ogni modo sul Chianti e sul Nebbiolo aveva anche ragione.
Ma non c’era bisogno di andare a Barolo o a Barbaresco o in
Sardegna.
Bastava andare a Scansano e tra 15% di vitigni non
aromatici, terreno e clima, si otteneva un sangiovese senza più sfumature da
figa. Il Morellino
di Scansano
Rimane il fatto che mi insegnò a guardare il Chianti con
occhi diversi da quelli del Mulino Bianco.
E tanti anni dopo, quando ad andare a vivere in campagna ci
provai di nuovo, andai proprio in Piemonte.
Quasi a metà tra le Langhe dei Nebbioli e la Lomellina dei
risi.
In Monferrato.
26 Viaggio in Vallese
I viaggi, come la vita, a volte riservano alcune
sorprendenti ricorrenze in apparenza di poco conto.
Quella che voglio raccontare qui è una ricorrenza di, per
così dire, bovina caratterialità.
Fierezza, austerità, severità e forza hanno un fenotipo
ricorrente in diverse geolocalizzazioni.
Sono di colore nero e di portamento regale. E hanno le corna.
Ma si ripetono in un semplice contrario.
In un posto sono maschie.
In un altro posto sono femmine.
Ricomponendo gli opposti si imparerà quale siano le
ricorrenze: fierezza, austerità, severità e forza. E sono territorialmente
derivate e geneticamente assimilate.
Quelle maschie le ho già raccontate in “Viaggio in
Andalucia”.
Sono maschie proprio come piace a noi maschi. Sono quelle
incarnate nel grande toro nero andaluso. Che già al solo pensiero evoca potenza
e virilità maschile tanto riconducibili alla sessuosofia del “noi ce l’abbiamo
grosso”.
Oggi parliamo di femmine.
Di mucche nere dalle grandi corna.
Come vedremo, come tutte le femmine, ce l’hanno grosso
davvero. Metaforicamente e no.
Parlo di una razza autoctona svizzera, secolarmente diffusasi
anche in zona aostana e savoiarda.
Io le ho conosciute nel Canton Vallese, dove
andavo in vacanza fino a qualche anno fa. E’ un cantone storicamente agricolo
perché sta nella valle del Rodano a Sud della prima catena di Alpi, dove c’è un
clima temperato proprio perché protetto a nord da quelle Alpi.
Quando ero piccolo le prime volte che le vidi, con tutte
quelle corna, ricordo che mi chiedevo candidamente: “ ma quanti cazzo di tori
ci sono in questo posto”?
E invece erano toresse.
La cosa affascinante è che sono un po’ più piccole delle
mucche di pianura ordinarie che siamo abituati a vedere in allevamenti
nostrani, piuttosto tozze e perfettamente adattate ai pascoli di alpeggio
montani.
Hanno un forte istinto di proprietà tale per cui difendono
il loro pezzo di pascolo contro chiunque.
E ciò anche se in alpeggio, come previsto dalla normativa,
ci vanno solo un mese all’anno.
Ma loro ce l’hanno nell’indole genica.
E le peculiarità caratteriali che stanno annidate nei geni
restano le stesse comunque, come quelle somatiche.
Hanno pure un’ altra interessante caratteristica “canina”,
perché mi spiegarono dei bergers locali, che difendono anche colui che eleggono
a loro pastore. Il quale non può essere chiunque.
Posso assicurare per esperienza personale che essere difesi
da 700 chili con le corna è più efficace di quanto possa fare qualsiasi cane.
Si tenga presente poi che queste mucche sono famose perché vengono
usate anche per fare dei caratteristici combattimenti, non letali, testa contro
testa.
Ci sono tornei in tutto il Vallese, Aosta e Savoia.
Un torneo finale viene fatto ogni anno addirittura nell’arena
romana ad Aosta.
Le mucche che vincono vengono incoronate regine. Da qui il
loro nome comune di “reines”.
Sono talmente radicate nella cultura agricola del posto, che
tutti i personaggi più in vista, come avvocati, notai o professionisti
affermati, hanno le loro mucche personali gestite da pastori di fiducia.
Partecipano ai tornei, certo.
Ma soprattutto producono anche il latte con cui si fa il classico
formaggio per raclette “ad personam”.
E’ una bellissima testimonianza di radicamento nella
tradizione.
Un modo elegante di mantenere la memoria delle radici
agricole.
Ed è una tradizione chiusa.
Esiste una sorta di codice di gruppo implicito per cui non
tutti possono accedere alla tradizione, men che meno gli stranieri.
Almeno di norma.
Ma io ero talmente affascinato sia dalla tradizione che dal
fenotipo d’Herens, che un giorno decido che mia figlia piccola non deve venire
troppo contaminata dal pretenzioso lusso e dalle frequentazioni parvenu di
Crans Montana.
O meglio, decido che devo fare qualcosa che li contrappesi, e
che le dia un altro imprinting possibilmente opposto.
Per cui, pur consapevole del probabile rifiuto, chiedo al
suo maestro di sci, che è pure contadino allevatore insieme a suo figlio, se
fosse possibile diventare anche noi fieri proprietari di una potenziale
“regina” : una “reine”.
Con mia sorpresa quello mi dice che una delle sue reines
migliori ha appena messo al mondo due gemelle.
Sua figlia piccola le ha chiamate Bijoux et BonBon.
E lui accetta di vendercele perché un po’ di soldi gli fanno
comodo.
Ma a me piace credere che la vera ragione fosse che aveva
deciso che poteva concederci il privilegio di essere parte della comunità.
Tutto con una semplice stretta di mano. Niente carte, niente
documenti. Solo un patto d’onore.
Poi timidamente mi chiede : “ma quando faranno i vitelli
cosa penserete di fare ?”
E io capisco d’istinto in un istante, che l’anima di Herens
mi aveva già posseduto.
Per qualche ragione ce l’avevo già dentro chissà da quanto
tempo.
Gli dico: “ma noi siamo turisti. Le reines le abbiamo
comperate per rispetto dell’anima e della tradizione del posto. I vitelli li
prenderete voi per venderli o tenerveli”
E fu così che nacque la leggenda de “l’italien et les deux
reines jumeaux”.
Pare che la conosca buona parte della vallata.
Ma torniamo alla natura delle reines.
Un giorno stavo camminando su un sentiero con la mia coppia
di pastori tedeschi.
Ad un tratto il sentiero è ostruito da un bel gruppo di mucche.
Io cerco di trovare un passaggio praticabile, ma mi rendo
conto che non c’è.
Si deve per forza passare in mezzo a loro.
Mi faccio coraggio e forte anche dei miei cani, che non solo
erano pastori ma addirittura di teutonica presunta autorevolezza, mi avvio in
mezzo alle mucche.
All’inizio tutto fila liscio.
Qualche mucca ci guarda, ma continuano tutte a brucare.
Ad un tratto passiamo abbastanza vicino ad una di loro, che
mi da proprio l’idea di guardarci più in “cagnesco” delle altre.
Appena superata, noto che si è innervosita e piano piano
inizia a muoversi dietro di noi.
Allungo il passo, con i due cani subito dietro. E dietro di
loro la reine.
Ad un tratto questa inizia a trottare dietro a noi.
Capisco che qualcosa non va e sempre con i cani dietro
inizio a corricchiare.
Mentre sto per voltarmi vedo i cani che mi superano al
galoppo.
Giro la testa e a pochi metri la mucca galoppa a testa bassa
verso di me.
Giusto il tempo di maledire i cani, pusillanimi teutonici
senza alcuna wagneriana memoria, e parto al galoppo pure io.
Finalmente ad un certo punto mi giro e la mucca si è
fermata.
Mi fermo anche io.
La guardo. Penso a come ci ha fatto scappare tutti e tre a
gambe levate.
E mi dico : “che donna !”
27 Viaggio a Lugano
Lugano, “come estero è un truffa” cantava Lucio Dalla in uno
dei suoi migliori versi radiografici, a raggi x.
Niente di più vero.
Salvo invertire il paradigma. Il punto non è tanto che sia
estero camuffato da Italia e dunque truffaldino per noi italiani. Il punto è
che a causa alla questione linguistica uno potrebbe immaginare un protettorato
italiano su una porzione di Svizzera.
E invece è tutto il contrario. Ci troviamo nella capitale
economica d’Italia.
Ma come, vi chiederete, ma non era Milano? No. Sono loro che
ci hanno colonizzato senza nemmeno spostarsi. Imperialismo in pantofole, lo
chiamano alcuni.
Non facciamoci sentire, ma la verità è che Milano è solo un
centro di smistamento.
D’altronde Mediolanum
quello vuol dire: che sta in mezzo.
Anche se ancora oggi non si è capito se vuol dire in mezzo
alla pianura o in mezzo ai fiumi. Speriamo che sia la pianura, perché se sono i
fiumi non sono tre esempi di bellezza e nemmeno di importanza. Figuriamoci in
purezza :“Lambro, Seveso, Olona: tutto attorno muore ogni persona”.
Diciamo che sono tre affluenti fortemente tumorali e per di
più sono pure poco più che rigagnoli.
Finire avvelenato da una cloachetta di periferica padania, io
che sono romano oltre che napoletano, proprio non lo gradirei. Eppure, per
quanto cloachette, quando esondano riescono sempre a fare un bel casino.
C’è qualcosa che non torna. Sono più docili il Danubio o il
Reno.
Ma stavamo parlando di Lugano.
La cittadina è una piccola bomboniera, niente da dire. A
parte un’edilizia spesso a dir poco aggressiva, è anche un posto interessante. C’è
il lago con il suo lungolago, le papere e i cigni.
Ci sono ristoranti un po’ ovunque.
Uno addirittura alle pendici di un monte traboccante di
falchi che si possono ammirare mentre si mangia.
Ci sono tante puttane, più o meno legalizzate.
Ci sono tanti coffe shop con l’erba, più o meno legalizzata.
Ci sono tanti coltellini svizzeri, tanta cioccolata, tanti
orologi e tanti gioielli.
E ci sono pure, udite udite, tante banche. E tante
fiduciarie. E tante finanziarie.
Quello che invece ormai appare quasi introvabile, è il
luganese autoctono.
Alcuni lo vorrebbero addirittura riconoscere come specie protetta,
se non in via di estinzione.
Quelli che ci sono, si disperdono perfettamente in mezzo
alla piccola folla multietnica quotidianamente frequentante la città e le sue
attrattive.
Basta andarci in macchina e subito si capisce da dove arriva
l’orda di barbari clienti.
Alla frontiera dell’autostrada che viene da Milano c’è
regolarmente la fila di parecchie decine di macchine.
E immagino che le altre frontiere non siano diverse.
Molte auto sono di Milano, pochissime vengono controllate, e
dopo vari arrovellamenti mi toccò di capire perché.
Io sono sempre stato convinto che tra quelle macchine ce ne
fossero parecchie di spalloni. Anche se oggi lo spallonaggio è informatico, c’è
una cosa che non si può mandare all’estero via internet: i contanti.
E chi ha tanti contanti è normalmente in affari illeciti.
Così quando mi trovai a lavorare a Lugano nelle mia
esperienza lampo di pochi giorni presso la fiduciaria di un mio “amico” non
potei fare a meno di notare che quando lui arrivava a Lugano con la sua BMW semestralmente
nuova, regolarmente quasi tutti i giorni andava subito dal meccanico perché
c’era sempre qualche problema nuovo. Uno specchietto, una vibrazione, una
gomma. Di tutto un po’.
Ogni volta quando poi arrivava in ufficio mi esternava il
problema del giorno con un sogghigno, subito
seguito da risatine inappropriate.
Fino a che un giorno lo arrestarono. Ovviamente per
riciclaggio. E io pensai : “ridi, ridi, che mammina ha fatto gli gnocchi.”
“E pure con il sugo di bagherozzi”, che non tutti sanno
essere la seconda parte del romanesco “ridi, ridi….”
28 Viaggio a Zurigo
Zurigo è un’altra faccia della Svizzera.
Se Lugano come estero è una truffa, di Zurigo proprio non si
può dire.
Zurigo è una metropoli in formato bonsai.
Fa 400.000 abitanti (1 milione con l’agglomerato limitrofo),
come una media città italiana, ma si respira aria internazionale.
C’è il lago, il fiume, i monti, e naturalmente una montagna
di banche, ma anche tanti uffici, attività e altro.
Fu famosa decenni addietro per la sperimentazione sociale
estrema, riguardante i tossici.
Distribuivano eroina nel parco preposto.
Io ho un altro ricordo, e precisamente quello di un
quartiere intero, seppur piccolo, preposto a soddisfare il bisogno di devianza
di chiunque.
Si entrava da una porta urbanistica, e ci si trovava in un
microcosmo di puttane in vetrina, tossici ovunque, spacciatori in attesa,
coffee shop.
Quando ci andai ero giovane.
Ero li per lavoro, quindi non ci andai per usufruirne.
La cosa che trovai particolare era una certa somiglianza con
il modello Amsterdam.
Non so se riconducibile a qualche forma di etica
protestante.
Non c’erano ipocrisie.
Vuoi scopare ? Scopa.
Vuoi drogarti ? Comprala.
Basta che tutto accada in quel quartiere.
Vivi come ti pare, ma non disturbare la morale comune.
Mi resi conto che il quartiere era circondato da alte mura
antiche.
Quindi non si vedeva fuori, e soprattutto “il fuori” non
vedeva dentro.
Rispetto ad Amsterdam era una differenza sostanziale.
Le vetrine con le ragazze erano solo in quel posto.
Nessuno ti fermava per strada per venderti niente.
Non c’era bisogno di adescare.
Se volevi qualcosa lo chiedevi.
Vi assicuro che la psicologia comportamentale fa una bella
differenza.
Volere la droga e trovarla ovunque è molto diverso da dovere
andare a cercarsela.
Almeno per molti tipi di droga.
Ed aggiungo anche che dovere andare a cercarla in una specie
di ghetto infernale, anche quello fa un differenza.
Appena entri non puoi non essere permeato dall’odor di devianza
che in alcuni casi può anche indurti a tornare indietro.
Anche con le prostitute è così : esposte in vetrina, vengono
private da quella allure di finta trasgressione ed infine ricondotte ad un mero
meccanico rapporto sessuale.
Ai più passa una bella fetta di voglia.
Riassumendo, possiamo dire che Zurigo aveva una sorta di
modello Amsterdam, ma socialmente occulto.
L’urbanistica dell’ipocrisia, con quel muro di cinta tutto
intorno, tutto sommato a me non sembrò male.
Se aggiungiamo controlli sanitari, polizia vigilante e tasse
pagate io mi sentirei di raccomandarlo.
29 Viaggio in germania
Ho iniziato a scrivere questo paragrafetto con intenti
“paesaggistici”.
Poi ho capito che il paesaggio che mi aveva colpito era
diverso da quello che si può immaginare.
In effetti, ricordo bene la Foresta nera, che poi d’un
tratto spariva lasciando invece regolarmente ricorrenti boschetti di pale
eoliche.
Ogni qualche decina di chilometri, un campetto eolico di non
tante pale, ma evidentemente quante ne bastavano.
Da noi non ha mai preso piede, chissà perché. Non è che da
noi il vento manchi, anche al di fuori della Sardegna.
E poi quelle tedesche giravano veramente con un alito di
vento.
In più questi boschetti dovevano essere recenti. Quando feci
la strada la prima volta per andare ad Heidelberg alcuni anni prima, non
c’erano.
Se prendiamo a riferimento la Produzione
di energia elettrica in Italia circa il 73% è da fonti non rinnovabili (Gas
e petrolio), mentre del restante 27%, circa la metà è da centrali
idroelettriche molte delle quali esistenti grazie ad investimenti del secolo
scorso.
In realtà la Germania
è ancora largamente legata a carbone gas, petrolio e nucleare, ma se ci si fa
un giro non si può non notare la fioritura di boschi eolici e campi solari.
Spuntano come funghi.
Mentre da noi ci scontriamo con presunti ambientalisti,
burocrazia impossibile e truffatori vari. Ho parlato della mia esperienza in
“Viaggio in Monferrato”.
Quindi, anche se ci stanno antipatici, verso i tedeschi
proviamo sempre una certa oggettiva ammirazione.
Noi italiani, per quanto ci sforziamo, non riusciamo mai a
capire come sia possibile che nonostante il disastro sociostorico del nazismo e
della seconda guerra, i tedeschi siano ancora li, imperiali più che mai.
Mentre noi ci arrabattiamo in una costante tragicommedia di
“Pettolanculo e compagni”.
Io credo che si possa usare una “metafora empiristica” per
rappresentare la differenza tra un popolo di reich e un popolo di campanile.
Basta farsi un giro con il mezzo di trasporto adeguato.
Così, se ci troviamo ad andare in Germania in macchina, la
prima sferzata all’orgoglio di noi ferraristi incalliti, ce la danno i
macchinoni germanici di grande cilindrata che sfrecciano a 300 all’ora un po’
dappertutto, ma nell’anonimato. Sono austeri.
In larghi tratti di autostrada loro non hanno il limite di
velocità.
Eppure non fanno più incidenti di noi, non ne muoiono a
milioni.
Sanno guidare tutti.
Noi siamo li tutti assettati a 160 km/ora sulla nostra 500
styling Ferrari, il non plus ultra del “vorrei ma non posso”, e mentre
cerchiamo di evitare di venire spazzati via dallo spostamento d’aria di una
foglia che cade da un albero, tutto attorno a noi una girandola di super Mercedes,
super Bmw e super Audi ci sfilano via come se fossimo fermi.
La cosa bella è che non fanno incidenti, ma nemmeno
disturbano quelli che vanno a velocità normale.
Da loro sanno guidare tutti, dicevamo, e non esiste il caso
di qualcuno che imprechi contro qualcun altro o che usi il clacson.
Anche se sei a 300 all’ora, se qualcuno ti arriva dietro ci
sono due opzioni.
Se lui si accoda e non fa niente, si resta così incolonnati
a velocità quasi demisonica come niente fosse.
Oppure invece, se mette la feccia a sinistra, tempo 3
lampeggi e quello davanti si è spostato nella corsia più a destra per farlo
passare.
Non sto scherzando. È davvero così.
Provate a immaginarvelo da noi.
I ferraristi mancati si riconoscono sempre: sono quelli che
si piazzano a 120 all’ora nella terza corsia più a sinistra e li restano fino a
che morte non li separi dal loro sogno mancato di Cavalliniere Rampante.
Puoi mettere la freccia, lampeggiare, suonare, ma loro
niente.
Imperturbabili restano saldi nei loro principi: fare la
Milano – Reggio Calabria tutta in corsia di sorpasso.
Qualcuno deve avergli detto che così entravano nel Guinnes
dei primati, ma non è vero.
Comunque ad un certo punto sei costretto a superarli a
destra.
Dovrebbero arrestarli per istigazione a delinquere.
In Germania invece, il traffico scorre fluido e senza intoppi.
Lo so, molti di voi diranno : “ma che ci frega del traffico
tedesco ?”
Sono altri i problemi.
E certo si, è vero.
Ma ho fatto l’esempio del traffico non per puntare il dito
sulla generica civiltà di un popolo, quanto piuttosto sulla capacità di
coesione sociale che li tiene tutti insieme mentre galoppano veloci come
proiettili verso il traguardo della fine autostrada.
Guidano velocissimi in migliaia tutti insieme, serenamente e
soprattutto tutti sincroni.
Il che testimonia il rispetto dell’altro, certo.
Ma soprattutto un unico orientamento verso l’obiettivo
finale.
Arrivare dove devono arrivare.
E’ come se avessero metabolizzato dentro nei geni che
guidando disordinati o disturbandosi a vicenda, perderebbero tutti tempo e
quindi arriverebbero dopo.
In teoria dei giochi, stanno giocando un gioco a somma
maggiore di zero.
O come diceva John Nash, hanno capito che si vince quando si
vince tutti, e non quando vince il singolo.
Secondo me il traffico rende bene l’idea.
Il tipo psicologico del “mancato ferrarista frustrato” in
Germania non lo troverete mai.
E ciò è sia causa sia effetto di come sono i tedeschi.
30 Viaggio a Zanzibar
Zanzibar
: isola parte della Repubblica di Tanzania.
A leggere l’incipit della voce di Wikipedia, il nome
Zanzibar deriva molto probabilmente dal persiano zanj, con cui i persiani
indicavano i neri; zang-i bar significherebbe "Terra dei neri". Viene
talvolta proposta un'altra etimologia, dall'arabo zanjabīl, che significa
"zenzero"…..
Messa così non sembra neanche male.
Quando arrivi, è un’altra storia.
In realtà con un po’ di realismo, la città di arrivo
potrebbe essere anche chiamata Stoned Town.
Ma invece si chiama solo Stone Town.
E’ vero, in città ci sarebbero molte attrattive turistiche.
Tutte residui di passate influenze.
Si ritrovano infatti elementi moreschi, arabi, persiani,
indiani ed europei.
Per la sua importanza storica e la sua architettura, la
città è stata dichiarata patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.
Ma appena arriviamo, io inizio a percepire qualcosa che non
va.
I conti non mi tornano.
Le antiche architetture sono in larga parte scarrupate.
Strade di terra battuta sono piene di rifiuti.
Certo, la spazzatura non è il principale problema di una
qualsiasi civiltà.
Ma il fatto che si veda testimonia un “baco” della civiltà
stessa.
C’è qualcosa che non torna. O che non funziona.
Ancora non avevo capito.
Stavo pensando a quel luogo comune, e dunque vero, che dice
che la storia viene scritta dai vincitori.
Ma invece stavo percependo che in quel posto di vincitori
non ce ne erano.
Appena arrivati mi soffermo sull’idea che da soli non
capiremo niente.
Ci vuole qualcuno che ci illustri le magnificenze del posto.
Veniamo accontentati.
Dai nugoli di disperati fatti e ubriachi buttati per terra, si
leva un Lazzaro meticcio che ci viene incontro.
“La maggioranza degli abitanti di Zanzibar è di origine bantu,
e il secondo gruppo etnico più rappresentato è quello di origine persiana noto
come shirazi. La restante parte
della popolazione è principalmente di origine araba o indiana. Questi
gruppi etnici non sono comunque distinti in modo netto, poiché i matrimoni interetnici
sono tradizionalmente abbastanza comuni”.
Così recita Wikipedia.
E il nostro Lazzaro corrisponde perfettamente.
Si propone come guida.
Contrattiamo sul prezzo pur con qualche perplessità data
dalle sue condizioni.
Io mi dico che proprio per quelle condizioni vale la pena di
dargli una mano.
Inizia il tour.
Al primo palazzo notabile che incontriamo ci fermiamo.
Lazzaro ci guarda e in buon inglese, ci dice : “This is an ancient building”.
Mentre aspetto la spiegazione, quello si avvia.
Non posso fare altro che seguirlo.
Dopo un po’ arriviamo ad un secondo palazzo, evidentemente
degno di nota, e Lazzaro ci fa :”This is a beautiful building”.
Sto per chiedere qualcosa, e quello si avvia.
Al terzo palazzo, appena Lazzaro ci dice qualcosa del tipo
“This building is a building”, io lo apostrofo chiedendo quale tipo di guida
turistica stia impersonando.
Mi guarda con l’occhio assente e mi fa : “Not happy? Why? An ancient building is ancient,
a beautiful one is beautiful. What else do you need to know ?”
E subito mi
arrivò il flash.
Ecco cosa non tornava.
L’anima del mondo in quel luogo era stata schiavizzata.
Era terra di commercio di schiavi.
Li avevano privati di ogni istinto di proprietà, anche sulla
loro vita.
Che quindi ora non riconoscevano nemmeno più.
Era una privazione che si era radicata nei loro geni.
Nella loro memoria cellulare, o molecolare.
Non se ne rendevano nemmeno più conto, almeno per quanto
visto fino a quel punto.
Penso a Lazzaro.
“Cosa altro hai bisogno di sapere?”, mi aveva chiesto.
Credo che intendesse qualcosa come “cosa vuoi comperarti ?
Che proprietà stai bramando ?”
Un occidentale non può essere li che per accaparrarsi
qualcosa, pensa lui.
Sospendo ogni altra lamentela.
Mi dico che Lazzaro è la miglior guida che avessi mai potuto
sperare.
Riprendiamo il tour.
E arriviamo ad un nuovo palazzo.
Questa volta Lazzaro si volta verso di me con una nuova
determinazione.
Io vengo fulminato dal suo imprevisto sguardo, stavolta fiammeggiante
di rabbia.
Mi fa : “Questo è il mercato degli schiavi”.
“E’ qui che voi europei comperavate i nostri padri come
fossero bestie”.
“E’ qui che tuo padre ci comperava”.
“E tu non sarai mai perdonato”.
Io pensai: “in vino veritas”.
Si, in ogni tipo di vino.
E ogni matto è bocca della verità.
E poi pensai all’importanza della memoria.
Lazzaro mi insegnò.
Nessun vino potrà mai evitare la nemesi di razza e di storia.
31 Viaggio in Martinica
Storia schiavista anche questa.
Sono residui di impero.
Nel caso della Martinica che è quella che ho
visto di persona, un certo tentativo di perdurante grandeur in effetti lo si
percepisce.
Oggi sono parte dello Stato francese. Si parla francese, si
paga in euro.
Ma la vita costa infinitamente meno che in Francia.
Per cui ci sono interi quartieri di case di vacanza di
proprietà di francesi. Si riconoscono le targhe delle macchine.
Il posto è naturalmente bello.
La vegetazione è caraibica.
Ci sono fiori ovunque.
E poi lunghissime distese di canna da zucchero.
Le piantagioni dei ricchi proprietari terrieri, che
naturalmente venivano lavorate dagli schiavi.
Oggi gli schiavi sono
sostituti dai braccianti, che per la stragrande maggioranza sono però ancora
negri.
La memoria imperialista è dura a morire.
Perlomeno però oggi vivono dignitosamente.
La funzione di queste piantagioni è quella di produrre la
canna da zucchero per fare il rum.
Ma nel caso della Martinica siamo in una supernicchia, che
secondo me ha anche un valore sotto il profilo socio-economico.
E’ un raro caso di evoluzione da rivoluzione:all’impero francese
è seguito anche qualche cosa di intelligente.
Il Rum di Martinica è agricolo.
Vale a dire che è quello vero.
I francesi non fanno che ripeterlo.
La grandezza imperiale, comunque, è testimoniata nel
lessico.
La definizione di agricolo nasce dal fatto che è prodotto
come vero prodotto agricolo.
I rum normalmente sono prodotti da melasse in una
moltitudine di località e processi produttivi.
Un po’ come certi formaggi, che sono fatti con latte di
qualsiasi provenienza.
I francesi invece hanno fatto una cosa semplicissima in
apparenza.
Hanno imposto al rum di Martinica la legislazione di vino e
liquori nazionali.
Il rum agricolo francese è “Appelation di Origine Controlè”
e la Martinica è l’unica isola ad avere questo marchio.
In Martinica lavora parecchia gente, e il rum di Martinica
sembra cognac ed è conosciuto in tutto il mondo.
Qualche volta anche un imperialista può essere illuminato.
Rum Francese AOC – da
Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Rum
Dal decreto pubblicato nel novembre 1996, il rhum agricolo
ha ottenuto la denominazione « AOC Martinique », la certificazione di origine
controllata del rhum di Martinica.
La Martinica è ancora oggi l’unica isola ad avere un marchio
di origine.
E’ AOC “Martinique” solo il rhum estratto della
distillazione di succo fresco di canna da zucchero, e con la menzione “Rhum
agricole” (Rhum agricolo).
Rappresenta un territorio di produzione, una piantagione di
canna da zucchero, un tipo di canna da zucchero, un processo di estrazione del succo,
di fermentazione, di distillazione e di stoccaggio.
I Rhum che si rivendicano AOC Martinica non possono essere
commercializzati senza il certificato del INAO (National Institute of origin
Accreditation).
32 Viaggio a Milano
Venerdì 16 gennaio
2015
A Milano ci vivo, ragione per la quale dovrei avere un sacco
di cose da dire.
E invece più mi arrovello, più non mi viene in mente niente
di significativo.
E’ fondamentalmente una città dormitorio.
Un sacco di gente che si sveglia, lavora e poi torna a
dormire.
Sono “quelli che” alla fine muoiono, senza nemmeno avere
capito che cazzo hanno fatto per tutta la vita.
“Si nasce, si cresce e si muore”.
Era un mio cavallo di battaglia quando ancora discutevo sul
senso della vita.
Adesso ho perso il vizio. E così cerco di evitare di fare in
modo che il senso della mia vita sia di chiedermi quale sia il senso della mia
vita.
Ricordo una volta che lo dissi ad un mio cugino giovane, a
conclusione di una chiacchierata filosofica.
Quando arrivò il momento di chiudere la discussione a me
venne in mente e dissi: “ricordati che l’essenza in fondo è molto semplice: si
nasce, si cresce e si muore”. “Tutto qua”.
Ricordo bene che mi mandò a quel paese.
Comunque Milano mi da proprio questa idea: un corpo unico
che reitera gli stessi gesti in attesa di morire.
Ovviamente è una visione generalizzante e dunque sbagliata.
Eppure mi continua a battere in testa.
Un motivo ci sarà.
Diciamo allora, che per sopravvivere a Milano, l’unica
speranza e cercare proprio il diverso e l’opposto.
E se ci si mette di impegno alcune volte ci si riesce.
Ma non oggi, venerdì 16 gennaio 2015.
Sabato 17 gennaio
2015
Anche oggi mi sono svegliato.
Per alcuni sarebbe una buona notizia.
Invece a me non evoca nulla.
Mi ritrovo così a pensare di nuovo a cosa scrivere su
Milano.
Faccio il caffè, lavo i piatti, preparo da mangiare al cane.
Cerco tra i ricordi.
E poi cerco tra le immagini archiviate come flash nella mia
memoria.
Penso a persone conosciute o incontrate.
Cerco tra i diversi e gli opposti.
Niente. Calma piatta. Calma pianura, potremmo anche dire
L’anima di Milano non si svela nemmeno stamattina.
Milano è come un buco nero, ma grigio.
Milano è antimateria.
Passo oltre. Domani è un altro giorno.
Domenica 18 gennaio
2015
Sempre vuoto pneumatico.
Nessuna folgorazione.
Allora cerco nella empiristica corrente, si detta da Empirismo .
Mi chiedo: ma cosa è che si vede a Milano?
E se la depuro da tutto ciò che vedo o che non è milanese,
cosa resta?
Io l’unica cosa che noto davvero ovunque è la gran quantità
di bar, ristoranti, osterie, taverne e locali vari.
La Milano da bere era diventato uno slogan famoso.
Oggi, parecchi anni dopo, c’è la Milano da apemangiabere.
Fateci caso: la gente mangia.
In senso lato, che comprenda mangiare, stuzzicare,
spiluzzicare, aperitivare e tutto quanto vi venga in mente.
E lo fa sempre, ovunque, in ogni postura, in ogni negozio.
Avrebbe cantato Ivano Fossati: “nell’universo della mia
pazzia ho una nuova teoria. Per me la gente mangia.”
Funziona molto bene anche: “so cosa è che non va :
disabitudine alla realtà”. La loro disabitudine.
Si, ci pervade una profonda sofisticazione alimentare che ci
tiene lontani dalla realtà.
Come ho già detto, mangiare bene è diventato un canone.
Una regola religiosa.
Tutti diventano sofisti alla ricerca delle espressioni di
tale arte mangereccia.
Tutti ne parlano, tutti la cercano, tutti la misurano.
E così è diventato valore.
Nascono talenti, anche se la tecnica non è virtù.
Spuntano sempre nuovi piatti, accostamenti, trovate.
Spesso artificiose, o contaminate da alloculture, sembrano
novità, ma sono solo appropriazioni. Artifici.
In principio fu la rucola, poi arrivò la bufala, infine il
maremonti.
Diventarono vezzeggiativi: la rucolina, la mozzarellina, la
focaccina. In tal modo diventarono associate ad immagini di amichevole
tenerezza.
Ora c’è l’agrodolce. O l’aromaspeziato. O la cucina fusion.
Spuntano micetici oracoli di ogni sorta.
Professano direttamente in televisione o nelle loro cucine,
che diventano teatri da reality show.
Addirittura ci si spinge a cercare virtuose qualità in ogni
sorta di prodotto.
Nascono degustatori di acque minerali.
Professionisti dell’assaporare i caffè.
Panificatori del seme di sesamo marginale.
Il seme marginale; divina creatura. E’ quello che siccome fa
costare il pane 5 euro al kilo, e siccome pesa un centigrammo, fa si che 999,99
grammi di pane neutro valgano un euro al chilo, come dovrebbero, e il
centigrammo di sesamo valga 100 euro al kilo.
Ecco una verità nascosta: è quel seme di sesamo da 100 euro
al kilo che si appropria del plusvalore del consumatore.
Per questo mi sta sulle balle.
Oh, tutti quanti, disciulatevi: bisogna ricordarsi ogni
tanto dell’essenza delle cose.
L’acqua è acqua.
Il caffè è caffè.
Il pane è pane.
Cercate di capire che cosa vi succede se vi fate
infinocchiare dalla santa aura del dio marketing.
Ma comunque quello che davvero mi impressiona è quanto detto
all’inizio .
E’ la quantità di luoghi preposti a questo nuovo culto,
talmente decadente da essere foriero di visioni estinzioniste.
Ecco, se Roma è decaduta, Milano è anche peggio.
A Roma, almeno se magna nella città ‘mperiale.
A Milano ci sono solo buteche, in una provincia di impero
che tale resterà.
C’è solo un modo, per me, di rendere tutto ciò utile a
qualcosa.
La fusion che ci può salvare non è quella alimentare.
Piuttosto quella del “viaggio in Citalia”.
33 Viaggio a Roma
Parlare di Roma è semplice.
Io ci sono nato, e ci ho pure vissuto e lavorato.
E non riesco proprio a trattenermi.
Mi chiama una citazione facile, facile.
Io vi odio a voi romani, io vi odio tutti quanti.
Distruttori di finanze e nati stanchi.
Brutta banda di ruffiani ed intriganti.
Camuffati, bene o male, da intellettuali e santi, io vi odio
a voi romani tutti quanti.
Così cantava Alberto Fortis.
Ogni volta che lo sento, dall’alto delle mie esperienze di
vita e lavoro romane, non posso fare a meno di scoppiare ridere per la caustica
genialità.
E ogni volta capisco la stessa verità, che evidentemente
tendo a nascondermi.
Dalla decadenza dell’impero romano, Roma non si è mai
ripresa.
L’anima del mondo non perdona.
Una volta decaduti, si resta decaduti.
Al massimo ci si riesce ad aggrappare ad un participio, e si
riesce a restare in una protratta forma decadente.
Ma non è una gran consolazione.
La decadenza è per sua natura una cosa triste.
Di qualsiasi impero si tratti, lascia sempre un fondo amaro.
Non c’è grandezza, non c’è eleganza, non c’è niente.
Solo vizi, malcostumi, corruzioni e perversioni.
Distruttori di finanze e nati stanchi, così siamo noi
romani.
E il problema è che sono pure mali contagiosi, e decadenti
siamo sempre di più in tutto il nostro Bel Paese.
Resterà solo il noto formaggio, prima o poi. Che per altro è
già fatto anche con latte foresto.
E questo è il quadro generale, nell’ambito del quale voglio
raccontare solo un paio di aneddoti.
Il primo si riferisce a una esperienza di lavoro presso un
quotidiano. Un giornale.
Dopo poca permanenza, già mi ha insegnato come gira l’editoria
italiana.
Possiamo comodamente riassumere il tutto con pochi concetti
di fondo.
In edicola si comprano i prodotti editoriali che vengono
pagati cash.
E dove c’è cash, in Italia c’è inevitabilmente malvivenza.
Proprio non ce la facciamo ad essere onesti e se in più
qualcuno è così sprovveduto da metterci in mano tanti 1 euro, noi ci inventiamo
ogni sorta di artificio.
Si badi, non è un problema dell’edicolante. Anzi, quello è
costretto a tenere contabilità dettagliatissime per parecchie ore al giorno di
snervanti burocrazie.
Qua il problema è più radicale. Esiste una struttura di
distributori fisici intermedi tra le tipografie e le edicole che sembra proprio
possedere una predisposizione a specializzarsi in ogni tipo di truffa per fare
il “nero”.
Di tutte le cose che ho visto ne ricordo due strepitose.
La prima è “acquosa”. Bisogna premettere per i non addetti
ai lavori, che i giornali in edicola sono in conto vendita, per cui l’invenduto
viene restituito al distributore di riferimento. Ovviamente se si vuole “fare
nero”, basta organizzarsi e “taroccare le rese”.
Un modo che mi aveva molto divertito era quello della “resa
bagnata”. Se 100 giornali pesano un chilo da asciutti, posso dire che ne ho
venduti 50, mentre in realtà li ho venduti quasi tutti (80 ad esempio). La resa
invenduta di 20 giornali la bagno e diventa pesante 50. I 30 di differenza mi
vanno “a fondo nero”. Spero che l’esempio sia chiaro, ma in ogni caso lo è il
concetto.
Facile come rubare le caramelle a un bambino, o no ?
Ma siccome non ci facciamo mancare nulla, da un certo anno
in avanti tutta la rete di distribuzione decise di non contare più le rese.
Ufficialmente perché troppo complicato. Ufficiosamente, lascio a chiunque le
sue deduzioni.
Ma non è mica finita qui.
Come facilmente immaginabile, per stampare i giornali ci vuole la carta. Buona parte della carta è
prodotta in paesi nordici, perché ci sono le foreste.
Da li vengono caricate delle grandi bobine sui Tir, che
partono per l’Italia.
Come d’incanto però, alcuni broker di carta si piazzano con
la sede indovinate dove ?
In Svizzera. In tal modo la fatturazione arriva dalla
Svizzera e di conseguenza i pagamenti vengono fatti in Svizzera.
A chi non viene in mente che questo sia un meccanismo tipico
da “cartiera” ?
Taroccare i consumi di carta non è mica difficile, anche se
non ci si mette troppo di impegno.
Parliamo di un settore da parecchie decine di miliardi di
euro. Non bruscolini.
E qua ritorniamo alla decadenza dell’impero che fu.
Un giorno decido che il troppo è troppo e che voglio andare
a vedere la tipografia e la carta del giornale per cui lavoro.
Mi presento in tipografia e resto a bocca aperta, non tanto
per le rotative i cui contatori potrebbero tranquillamente essere manipolati,
ma soprattutto per la sterminata distesa di bobine di carta a perdita d’occhio
in un capannone gigantesco.
Pesano centinaia di chili ciascuna, per cui si spostano solo
con il muletto.
E se il codice a barre con il nome del proprietario è
nascosto sul retro della bobina, il controllo di magazzino è impossibile.
Chiedo quale sia la carta del giornale che mi interessa e un
magazziniere mi fa : “ahò dotto’ ma che je frega, il giornale glielo stampamo
comunque. Stia sereno”.
A quel punto, allibito, faccio passare qualche minuto e poi
chiedo “ma quando vengono i revisori, come fanno a controllare la carta ?”
Il magazziniere mi guarda e fa: “chi?”
Io rispondo, “i revisori. Perché, qua non ci vengono”?
Quello mi guarda di nuovo e mi dice: “Ah, si, i revisori,
come no. Certo che ci vengono. L’ultima volta so’ venuti dieci anni fa”.
E che volete convertire.
Così semo noartri.
D’altronde ricordo bene un mio conoscente.
Abitava in una casa con vista sul Pantheon.
Una sera ero a casa sua.
Quello mi porta alla finestra e mi fa : “a Cla’, dicono che
noi romani semo presuntuosi, strafottenti”.
“Ma noi ce svejamo tutti i giorni sulla città ‘mperiale”.
“E che nce frega”.
Eccola qua l’anima dell’impero morto.
E’ morta pure lei.
Ma il romano ancora non lo ha capito.
E probabilmente non lo capirà mai.
Morirà orgoglioso dell’impero che fu, senza averlo mai
nemmeno sfiorato con un dito.
34 Viaggio a Blackheath
Dei viaggi a me piace ricordare delle immagini ad effetto,
che catturino porzioni di realtà inimmaginata prima di averla toccata con mano.
Di Londra si potrebbe parlare per molto tempo.
Ma io voglio raccontare due aneddoti i quali, tra gli altri,
mi hanno insegnato qualcosa sulla civiltà negra.
Ripeto sempre che io dico “negro”, e non nero, per questione
di contro ipocrisia.
Vale la pena ricordarlo, non si sa mai che qualcuno possa
farsi strane idee.
Per secoli di indicibile colpa, li chiamammo negri.
Oggi se io fossi negro anche nella pelle, e non solo in
parte dell’anima, vorrei essere chiamato negro proprio per rispetto della mia
storia.
Ma prima della civiltà negra voglio fare una premessa
estemporanea.
Perché un popolo decide di fare il contrario degli altri e
mettersi a guidare a destra ?
C’è qualche motivo storico, alcuni mi spiegarono. Mano da tenere.
Ma la realtà, affascinante, è che nessuno di essi è certo.
Come è possibile che nell’era della scienza della
complessità non siamo in grado di spiegare delle cose in apparenza così
semplici ?
La spiegazione è proprio nella complessità.
L’essenza sta nel fatto che esistono forze che fanno si che
nasca l’ordine dal caos.
Si vede che certe volte l’ordine, riconducibile a tante
componenti, nasce a sinistra.
Ma non per questo non è ordine.
Torniamo alla nigro-culture.
Una sera decidiamo di andare in un noto locale ad ascoltare
del jazz dal vivo.
Il locale è il Ronnie Scott's
Jazz Club. Bella anche la storia di Ronnie Scott .
Comunque, il locale è piuttosto negro.
Ed è strapieno di penombre.
Ci sono tavolini con una romantica fievole piccola abatjour
azzurra.
Sta suonando un quartetto spagnolo.
Ad un tratto arrivano quatto ragazzotti molto british, ma
non nel portamento.
Sono pallidi, capelli rossi o biondi, magri ubriachi.
Si siedono e chiedono da bere.
Ancora si uccidono di birra.
Non riescono a non disturbare gli spagnoli sul palco, oltre
che gli avventori.
Sghignazzano, parlottano, borbottano e così via.
D’un tratto vedo movimento in sala.
Dei camerieri preparano un tavolo in un angolo in fondo.
Il direttore del locale li supervisiona.
E’ una montagna di negro in perfetto completo nero, camicia
bianca e cravattina nera.
Sarà alto due metri.
E tale deve essere anche la sua circonferenza toracica.
Appena pronto il tavolo, prende un suo dipendente altrettanto
imponente e va dai ragazzotti.
Si china gentilmente sul centro del loro tavolo e sussurra
solo, fully british : “Please Sirs. Do not be so loud”.
E si allontana.
Quelli, come ipnotizzati, si azzittiscono qualche minuto. Ma
poi riprendono.
Il direttore allora torna verso di loro.
Ripensando alla preparazione del tavolo lontano, già li io
capisco tutta la grande eleganza del suo essere british nigro.
Già lo sapeva, come sarebbe andata a finire.
Ciònondimeno si era attenuto al comportamento di elegante
ordinanza, e aveva offerto il primo avvertimento.
La seconda volta è altrettanto british polite, ma le parole
sono diverse.
“Please
Sirs. Follow me. There is another table for you”.
Il tavolo era quello preparato nell’angolo in fondo, più
lontano possibile dal palco.
Quelli, di nuovo come ipnotizzati, si azzittiscono e lo
seguono.
Ma anche stavolta la tregua dura pochi minuti.
La terza volta il direttore prende due armadi, e tutti e tre
vanno verso il tavolo.
Il direttore sussurra qualcosa e vedo che tutti e quattro i
ragazzotti seguono i tre armadi a vanno fuori dalla porta.
Non ho mai saputo cose disse il direttore, ma lo vidi
armeggiare in tasca con una mano e tirare fuori una pinza porta soldi.
Mi piace pensare, e penso di non sbagliare, che disse
qualcosa come : “Please Sirs. Here is your money. Get out of here”.
Coadiuvato da una metaforica 44 magnum, rappresentata da
loro tre armadi, evidentemente ebbe successo.
Tutto con l’ingombrante civiltà che solo sei metri totali di
enormi neri possono testimoniare.
Io pensai che anche le 44 magnum sanno essere negre. Oltre
che eleganti.
La sera dopo decidiamo di andare a sentire un concerto dal
vivo di genere più funky, seppur contaminato jazz.
In una chiesa in un sobborgo di Londra, suonava Maceo Parker. Un’ icona.
Il sobborgo era Blackheath of London
.
E’ sbagliato chiamarlo sobborgo, perché è una località di
tradizione e storia antiche, ma rende bene l’idea della lontananza da casa.
Il nome comunque avrebbe dovuto essere già evocativo, o
meglio profetico.
Al concerto siamo immersi in una folla a larga
concentrazione nera.
E quella folla genera davvero tanto calore, si.
Quando finisce il concerto, ancora inebriati dall’energia
della musica e della gente, usciamo e proviamo a cercare un taxi per tornare a
casa.
Passiamo una buona mezz’ora in attesa di un classico cab
nero londinese, ma senza successo.
I numeri di telefono di altre compagnie di taxi non
rispondono.
Per cui alla fine ci avviamo a cercare l’autobus.
Siamo fuori city, ma per fortuna anche li passa il rosso
double decker.
Quando arriva, saliamo e ci sediamo.
Subito notiamo un certo andirivieni con il piano di sopra.
Gente che sale, gente che scende.
Impermeabili di pelle.
Occhiali scuri, catenoni in bella vista.
E’ tutto piuttosto strano.
Sembra un film girato ad Harlem .
Ed è distonico rispetto al contesto.
Ad ogni fermata qualcuno scende e qualcuno sale, ma sempre
solo dal secondo piano.
Al nostro piano terra, o piano strada, non si ferma nessuno
pur essendo pieno di posti. O vuoto di persone.
Tutto d’un tratto, sentiamo un forte botto e l’autobus prima
sobbalza e subito dopo si ferma.
Mentre noi cerchiamo di capire cosa è successo, assistiamo
ad un fuggi fuggi generale dal secondo piano verso fuori, in strada.
Ad un tratto uno dei fuggitivi mi passa davanti e vedo che
sta armeggiando frettolosamente con delle bustine piene di polvere bianca.
Cerca di rimetterle in tasca mentre corre.
È inequivocabilmente droga, ragione per cui capisco che il
secondo piano era adibito a centrale di spaccio.
Un buco di procedura per la polizia.
Di chi è la competenza del secondo piano di un autobus in
movimento tra i sobborghi della city ?
Geniale, in qualche modo.
Comunque il tizio mi passa davanti andando verso le porte, e
scende dal bus.
E li si ferma un istante.
Si gira di colpo e torna su.
Mi guarda, e rapido rapido mi dice solo : “Hey folks. What the hell are you doing ? Get
out of here. Police is coming!”
Civiltà
negra!
Che
spettacolo!
Nel dubbio che potessimo avere qualcosa da nascondere, lui
ci aveva avvisato.
Addirittura rischiando di fermare la sua fuga e perdere
tempo.
Comunque mi convince.
Scendo e prima di andarmene, vado a vedere cosa è successo.
Una macchina ci aveva tamponato il bus.
Ma la cosa più incredibile era la pubblicità affissa sul
retro dell’autobus.
Era una pubblicità di una automobile, non ricordo quale.
E il pay-off finale era niente di meno che “I’m stuck behind
a bus”.
Qualcuno lo aveva preso sul serio.
E così facendo mi aveva fatto ricevere una grande lezione di
fratellanza negra.
Quando l’anima del mondo ci vuole parlare trova sempre il
modo.
P.S.
Per inciso, a proposito di ricorrenze semantiche.
Lo sapete che pay-off http://www.treccani.it/vocabolario/pay-off
, prima che in pubblicità si usa in teoria dei giochi, e addirittura in
economia ? http://it.wikipedia.org/wiki/Payoff
Meditate gente, meditate.
35 Viaggio a Parigi
A Parigi ci sono stato varie volte, come tanti.
Ma a me è capitato anche che Parigi mi venisse a trovare
direttamente a casa.
Si, ho conosciuto Parigi forse più attraverso i parigini che
ho incontrato, che andandoci.
Ho anche lavorato un paio di anni per una banca francese, ma
a Milano.
Niente da dire come banca.
Rimane una delle migliori realtà che abbia mai conosciuto.
Il parigino che ho in mente era l’amministratore delegato
della filiale della mia banca.
Persona intelligente certamente.
E pure simpatico.
Ma con qualche problema caratteriale tipico del parisien.
Spocchioso, Altezzoso, Presuntuoso.
Razzista, Paternalista, Nazionalista.
Insomma, afflitto dalla più classica delle sindromi
transalpine.
Quella di Napoleone conquistatore e imperatore di Italia.
Un giorno decide di organizzare un viaggio premio a Parigi
per tutti noi dipendenti italiani in un fine settimana.
E ci organizza la più offensiva delle visite guidate, con
finale attrattiva Neronista (come Nerone non come Peron) .
All’ignorante italiano, in mancanza di calcio, si devono
offrire le tette. Mica altro.
E così ci porta tutti al Moulin Rouge.
Io penso che più che Napoleone mi pare Berlusconi.
E penso che ha sbagliato il detto.
Non era mica “Parigi val bene una fessa”.
Per altro, al Moulin Rouge non posso dire che non ci fossero
belle gnocche.
Ma addirittura portatici da Milano mi sembrò eccessivamente
nazional-paternalistico.
Ma il parigino è così.
Lui crede di essere sempre una spanna sopra agli altri.
In fondo non è poi diverso dal nostro romano. Questioni
imperiali, le potremmo chiamare.
Comunque un giorno, dopo mille frustrazioni patite,
arriviamo al momento in cui muore mio padre.
Durante la malattia, che durò parecchi mesi, aveva tenuto
sempre un atteggiamento di falso compatimento.
Mi diceva “vai, vai, in ospedale” e poi il giorno dopo
recriminava sempre. E cose simili.
Il contesto era già complicato, la spocchia transalpina
proprio mi dava sui nervi.
Tanto più che sul lavoro io ero una “macchina da guerra”.
Eppoi un imperatore dovrebbe avere una congenita grandezza,
non perdersi in micragnerie.
Lui si presenta addirittura al funerale, pur non invitato.
Il giorno dopo, senza fare un’ora di assenza, vado in
ufficio e lui mi prende da parte.
Mi inizia a fare una paternale. Ad un certo punto mi guarda
e mi fa :”naturalmente adesso devi mettere tua madre in un ospizio”.
Lo guardo un secondo e gli dico: “scusa un attimo”.
Vado in ufficio, prendo un foglio di carta e una penna e
torno da lui.
Mi appoggio sulla sua scrivania e scrivo sul foglio solo una
parola: dimissioni.
La firmo.
Mi giro e me ne vado.
Fuori
in 60 secondi , potremmo dire.
E penso : quando c’è da fare l’Imperatore sono più portato
io.
36 Viaggio a Napoli
Si dice che Napoli sia una città degradata. E’ vero.
Si dice che ci sia la malavita organizzata. E’ vero.
Si dice che ci sia la microcriminalità. E’ vero.
Al tempo stesso, parlando di microcriminalità, bisogna dire
che non è sempre uguale, e anch’essa ha un codice deontologico.
Mi ricordo una volta che ero a piedi nel centro storico, una
zona vicino a dove abitano miei parenti.
Camminavo con dei cugini in mezzo alla gente.
Ad un tratto uno dei cugini mi tocolea un braccio e mi fa
segno di guardare un tizio per strada che tutto azzimato camminava nella folla.
Al polso si notava un orologio d’oro.
E se lo avevamo notato noi, di sicuro lo avevano fatto anche
i professionisti.
Il cugino mi fa : “3 minuti”.
Quasi allo scadere dei tre minuti, da in fondo alla via
sbuca un motorino con sopra due scugnizzi.
Se qualcuno dovesse avere la curiosità di sapere se avevano
il casco, dirò che non lo avevano. Anche se avrebbe potuto nascondere i visi,
all’epoca non era proprio contemplato.
Il motorino prende la rincorsa, va verso l’azzimato che era
di spalle, gli passa radente quasi addosso e si dilegua nei vicoli.
5 secondi e l’azzimato inizia a urlare con forte accento
nordico: “l’orologio, l’orologio!”
La gente lo guarda, all’inizio sta zitta.
Ma l’azzimato continua a sbraitare.
Fino a che il primo di una folla lo guarda e gli fa: “Statti
zitto, scemo. Ma ti pare il modo di presentarti qua con tutto quell’oro al
polso”.
“Qua c’è gente che si puzza di famme”
“Hanno fatto bbuono”.
Passa qualche secondo, e tutto in torno si solleva pure una
certa quantità di applausi.
Siccome le cose bisogna sempre sperimentarle, tempo dopo
succede a me la stessa cosa al contrario.
Siamo a Napoli.
Avevo spiegato a mia moglie di non agghindarsi per andare in
giro.
Lei ci aveva pure provato, ma risultava comunque distonica.
Eravamo sul lungomare.
Curiosamente il giorno prima l’avevo portata nei Quartieri Spagnoli e
nessuno ci aveva importunato, ne tanto meno dato importanza.
Invece stavolta ci avviavamo a salire dal lungo mare.
In un strada secondaria mi accorgo che ci sono due tizi che
ci seguono.
Pochi metri e capisco che ci hanno puntato.
La strada è deserta, non ci sono negozi vicini, solo un po’
più avanti, e i due sono inequivocabili.
Dico sottovoce a mia moglie di non farci sentire, ma
dobbiamo allungare un po’ il passo e cercare di arrivare in qualche negozio.
Lei prima non capisce, quando capisce si agita, e così siamo
bruciati.
Rimane solo da allungare il passo.
Quasi correndo, con quelli dietro, arriviamo al primo negozio
ed entriamo trafelati.
I due mollano il colpo e tirano diritto per non farsi
notare.
Mia moglie, bresciana, mi guarda e mi dice qualcosa del tipo
: “magari volevano un’informazione”.
Ecco una città piena di contraddizioni, o opposti, in
qualche modo affascinanti.
Ci si può trovare a tifare per uno scippatore di nordico.
E ci si può trovare a evitare uno scippo ad un nordico.
37 Viaggio a Barcellona
Barcellona me la ricordo come una città splendida.
Anche se non ricordo bene perché.
Si certo, le case di Gaudì.
La Sagrada Familia.
Le Ramblas.
E vabbè, metteteci quello che preferite http://it.wikipedia.org/wiki/Barcellona
Io ho un ricordo diverso.
Un giorno stavamo camminando non ricordo nemmeno in che
zona.
D’un tratto dai palazzi iniziarono ad uscire delle persone.
All’inizio non me ne accorsi nemmeno.
Dopo un po’ realizzai.
Prima li notai dai palazzi più vicini.
Poi esercitando l’arte della curiosità di bambino, il mio cervello
iniziò ad indirizzare lo sguardo più lontano e in altre direzioni.
Dovunque c’erano persone che sbucavano dai portoni.
Si avviavano da qualche parte, camminando serenamente.
La città è in lieve pendio di discesa, come appoggiata su di
un piano inclinato che finisce dentro il mare.
Tutti seguivano quella pendenza.
Senza fretta, senza frenesia, senza nervosismi.
Era davvero un’immagine di transumanza.
Vorrei dire che sembravano ipnotizzati, ma non è così.
Erano solo tranquilli.
Realizzai che ora era.
Era ora di pranzo.
E tutti, ma dico proprio tutti, andavano a fare la pausa
pranzo a mare.
Chi con la schiscetta, chi comperando qualcosa, erano tutti
attratti dall’acqua.
Ecco, questo per me è un bell’esempio di anima del mondo.
Nel modo più naturale che si possa immaginare, li permeava
tutti.
Forse li possedeva.
Quando l’anima del mondo è così anticamente capillare,
allora possiamo dire che siamo usciti dalla civiltà della legge e siamo entrati
in quella degli usi e costumi.
Si fa tutti la stessa cosa, semplicemente perché è naturale
farla.
E’ come deve essere, tutto qua.
E’ l’anima del mondo che ci ha socializzati, ci ha reso
gruppo coeso, e non le leggi.
Casi come questo penso si possano usare come esempio.
A me viene in mente, appunto, come esempio di identità
geosociale.
L’anima di Barcellona è davvero autoctona, e non nazionale.
Io ho avuto questa impressione.
38 Viaggio in Corsica
La Corsica: che spettacolo!
Se non ci fosse bisognerebbe inventarla.
Arriviamo in traghetto a Calvì .
Sulla destra del golfo, alla fine di una lunga spiaggia
bianca in acqua turchese, c’è un piccolo promontorio sulla cui cima sta
appollaiata la cittadella antica.
Subito mi evoca il suo opposto, seppur sempre corso.
La città di Bonifacio , che è opposta perché sta
all’altro estremo sud dell’isola.
Ma anche perché invece di dominare distese di placida acqua
cristallina sta abbarbicata a decine di metri dal mare su un bianca ruvida
scogliera che fa tanto Dover, nella quale una profonda ferita di fiordo di
Norvegia offre portuale riparo dalle sue famigerate “bocche”.
Le “bocche” sono già tutto un programma. E’ il solito
fascino dell’etimo. Del principio attivo di base, della dinamica dominante dei
nomi.
Bonifacio “ti fa bene” , è una città dove rifugiarsi se il
mare non ti inghiotte prima, ma per capirlo le bocche bisogna averle navigate.
Ed è anche un bell’esempio di diversi e opposti che sono
lontani e differenti solo prima di arrivare.
Quando riscontri tanta uguagliante diversità nello stesso
posto, ecco che quello è uno degli ombelichi del mondo.
E infatti Bonifacio era abitata già 6.500 anni fa.
Si, ci sono alcuni posti che sono Ombelichi del Mondo. Sono
centrali in tanti modi e rispetto a tante cose. Non so perché ma mi viene in
mente Leonardo da Vinci, quando parlava di “Iddi terreni”.
Credo che sia questione di riconoscere i corsi e i ricorsi
storici, come diceva Giambattista
Vico. Che mi pare dicesse anche qualcosa come “imparo
facendo”, che trovo mi calzi a pennello.
Corsi e ricorsi storici, certo.
Ma anche geografici.
E forse ancora , geostorici. Storia e geografia sono
strettamente congiunte.
Se non ci credete, chiedetevi perché Pangea abbia tanto derivato,
viaggiando finanche a produrre l’Italia nella sua forma di stivale perfetto e
la sua gemella Nuova Zelanda proprio ai suoi antipodi.
Flussi di rotazioni geomagnetiche direbbe qualcuno. Forse.
Ma certamente tanta evidenza testimonia un’ occorrenza, o
forse meglio una ricorrenza, per l’appunto.
Non certo una coincidenza.
Che Africa e Brasile fossero attaccate si vede ben bene. E
osservandole, si distingue bene il viaggio che hanno fatto. Ma tra Italia e
Nuova Zelanda nessun movimento di superficie può avere operato in tal modo.
Deve quindi esserci un altro motivo, per così dire più
endocrino.
Chissà tra milioni di anni la terra come sarà, se ancora
sarà.
Ecco quanto appena scritto mi pare un buon esempio: non
soltanto viaggiando si impara, ma anche “Imparando, si viaggia”. O no?
Ma torniamo a Calvì.
Già approdandovi si respira profumo di fierezza.
Un non so che tipico di quelle terre orgogliose, come certe
anime che le popolano.
A Calvì ci sono due importanti sorgenti di anime fiere.
La prima è la guarnigione di paracadutisti della leggendaria
Legione straniera .
Non legionari e basta, ma addirittura i parà.
Tu non li vedi, ma appena ti avvicini li senti nell’aria.
Sono anime parà, quindi per definizione volano ovunque.
La seconda, che ci riguarda più da vicino, è il Fronte
di liberazione nazionale corso : FLNC.
Affascinante. E inquietante.
Qua tra legionari e nazionalisti non si scherza un cazzo, mi
dico.
Dopo qualche giorno conosco dei ragazzi che mi fanno capire
di essere simpatizzanti del Fronte.
Nessuna ammissione, per carità.
Ma una costante surrettizia apologia della ideologia
nazionalista non lascia spazio a molti dubbi.
Mi spiegano, tra l’altro, la loro teoria di difesa del
valore del territorio dalla speculazione edilizia.
Affascinante: se sei straniero e vuoi costruirti la villa di
vacanza, il permesso di costruire del Comune te lo puoi anche scordare.
O meglio: ti servirà, ma non vale niente.
Devi pagare, certo. Ma non basta. .
Devi anche costruire bene.
Ci vuole il famoso “Permesso Giusto”.
Mi portano a fare un giro. Mi mostrano una prima elegante
villa con un bel buco in centro al tetto.
“Vedi ? quello è parigino. Non ha chiesto e comperato il Permesso
Giusto.”
Passiamo ad una seconda villa col buco. “Vedi? Quello è di
Marsiglia Ha chiesto il Permesso Giusto, ma alla fine a pensato bene di non pagarlo”.
Andiamo avanti così per un po’ finché capita l’antifona io,
in tutto il mio italico candore urbanistico, chiedo: “ma scusate, cosa è il
Permesso Giusto ?”
Quelli scoppiano a ridere, mi guardano e mi fanno :
“Claudio, ma è il nostro !”.
“Se non te lo diamo, prima ti facciamo finire di costruire e
quando hai finito ti mettiamo una bomba sul tetto, così non solo ti sfasciamo
la casa, ma in più la stessa viene per forza di cose sequestrata per indagini
dalle forze dell’ordine ufficiali.”
“Le quali finalmente così (ci) serviranno a qualcosa.”
“E tu in Corsica ci potrai venire, si. Ma solo in albergo,
così fai pure girare la nostra economia.”
Geniale. O no ?
Ecco da cosa si riconosce un’anima antica di 6.500 anni: è
radicata in un tutt’uno con il suo substrato territoriale.
Mi viene spontaneo un raffronto nazional-italiano e penso al
massacro edilizio delle belle coste di Calabria.
La ‘ndrangheta è evidentemente diventata cosa diversa da un
moto di autonoma ribellione indipendentista.
Per concludere, in tema di fierezza e controllo del
territorio, una sera tardi mi cimento sulle tortuose strade corse senza
traffico in un mio personale rallie di Corsica.
Ho una macchina sportiva all’epoca vincitrice di tante gare
di rallie: una Lancia Delta integrale evoluzione, l’ultima specie Delta mai
evolutasi. Un gioiello di tecnologia e prestazioni.
Mentre sfreccio, piuttosto come un pazzo, ad un tratto mi
appare un’altra macchina nello specchietto.
Impossibile, mi dico. Ma quella non lo sa e mi tallona.
Ci do sempre più dentro, guidando all’estremo delle mie
capacità. Inizio a prendere sbandate, la Delta a volte si imbarca
pericolosamente. Alla mia sinistra c’è un alto dirupo a picco sul mare.
Ad un tratto, non so bene come, quello dietro scala la
marcia e mi supera come se niente fosse.
Facciamo un pezzo di strada in cui lui mette un po’di
distanza fra di noi.
Ad un tratto inchioda, con stridio e fumo di gomme. Io
inchiodo a mia volta e mi fermo.
Quello scende dalla macchina e mi viene incontro.
Non è un poliziotto e io non capisco bene cosa succede.
Arrivato al mio finestrino mi punta una pistola automatica
dritta in fronte e mi fa : “Alors, petit con. Tu a terminé? Tu n’est pas en Italie, ici. Si tu veut faire l’idiot, rentre
chez toi”. ”Compris?”.
Io rispondo un sottomesso «Naturalmente».
Quello se ne va, lasciandomi libero di tornare a casa lemme
lemme mentre penso alla solita frase: “certe volte per difendere la tolleranza
bisogna impugnare una 44 magnum”.
Io ho avuto un privilegio: ho potuto imparare sulla mia
pelle che funziona benissimo anche una automatica.
39 Viaggio in autosole
“Papà, facciamo un’avventura?”
Così diceva il figlio piccolo di un mio amico.
E così sia.
Facciamola, questa avventura.
All’inizio è una avventura delle idee.
Partire per un lungo viaggio da sempre una certa emozione.
Si pensa a come sarà il posto, chi si incontrerà, come si
mangerà.
La nostra avventura è un viaggio in macchina.
Sono quelli che preferisco, forse perché permettono una
lenta progressiva penetrazione nell’idea di arrivo finale al contrario della
ferita che un aereo lascia nel cielo, e nel tempo.
Il nostro è un viaggio in autostrada. In autosole
all’inizio, e in Salerno-Reggio Calabria alla fine. Che è cosa diversa
dall’autosole.
Si passa dalla piatta padania a 3 corsie, alla frontiera
degli Appennini, primo baluardo a difesa della frammentazione nazionale.
Si atterra a un centinaio di chilometri da Roma di nuovo in
piano.
Da Orte in giù c’è gente che non resiste più, cantava Pino
Daniele. Perché si inizia a respirare odore di Sud.
Si arriva a Roma.
In principio era il grande raccordo anulare.
Adesso c’è il bretellone a tre corsie sulle quali vorresti
sfrecciare a 300 all’ora, ma hai ancora qualche remora che ti impone di
rispettare il codice della strada.
Dopo circa duecento chilometri di sali e scendi arrivi a
Napoli.
Si riconosce lo sterminator
Vesevo da lontano.
Si taglia l’autostrada antica, lungo mare e lungo paesi, e
si prende il bretellone nel casertano.
Ti ritrovi d’incanto come in Germania.
Auto sportive ti sfrecciano intorno a 300 all’ora.
E’ il circuito prova per i camorristi, che ci portano le
loro Ferrari et similia.
Con una incredibile inversione socio-storica, i latitanti
qui sono i poliziotti.
Come sia sia, arrivi al tuo El dorado.
Terra di tesori e di esperienze che sai già che ti
capiteranno, arrivi allo svincolo da decenni incompiuto che ti immette sulla
mitica Salerno-Reggio Calabria.
Già dovresti avere capito tutto: lo svincolo consta di una
rampa di immissione della classica forma “a spirale” che sembra girare per 720
gradi o più.
E’ un tentativo, unico nel suo genere, di classica “rampa a
chiocciola”.
Appena scendi comincia l’avventura vera.
Ti ritrovi in un altro mondo.
Antiche macchine cariche di gente di ogni colore.
Monolocali interi legati sui tetti.
Camionette cariche di pomodori che a 50 km all’ora intasano
le loro corsie.
Ammortizzatori compressi impongono ad improbabili macchine
di camminare in impennata, con le ruote anteriori quasi sospese nell’aria.
Clacson come gragnuole di cimbali in un orchestra di paese.
Fumo nero dovunque,
memoria di antiche campagne di marketing a favore del diesel che costava meno e
che dopo decenni di sollecitazione guarnizionisitca ti fa bruciare qualsiasi semifluido
ci sia dentro il motore.
E chi più ne ha più ne metta.
Qualche chilometro dopo l’innesto a spirale, la situazione
migliora un po’.
Si è diluita la concentrazione di veicoli.
Puoi quindi metterti sui 120 km orari del limite dei
cartelli.
Ma presto capisci che non solo è un errore, ma addirittura potenzialmente
letale.
Il problema non sono le macchine antiche a 50 all’ora.
O le curve.
O i camorristi a 200 all’ora.
Nossignore il problema che davvero uno non potrebbe mai aspettarsi
sono gli oleandri.
Ecco un esempio di opposto traditore.
Sembrano belle piante dai bei fiori.
E invece sono guerriglieri armati di katana, che brandiscono
a casaccio contro le auto in corsa.
Si, avete capito bene.
Tra venti atmosferici e spostamenti d’aria da traffico,
ondeggiano in moti imprevedibili omnidiretti dalla mescolanza di masse di
vento.
Il problema è che nessuno li taglia da tempo immemorabile, e
quelli testimoniano chiaramente la forza della natura che si riappropria di
quello che le hanno tolto.
Nello specifico, si riappropriano di quelle decine di metri
di larghezza di terra rubate dall’asfalto.
Inizi a schivarli, perché ancora non hai reimpostato il tuo
paradigma di comportamento.
Ancora non hai capito che possono ucciderti, perché nessuno
te lo ha insegnato.
Lo devi imparare sulla tua pelle.
L’unica cosa che puoi fare è rallentare.
Ma ancora non lo hai capito.
Ne schivi alcuni in una pericolosa altalena tra corsie, e ne
prendi altri in faccia coma schiaffoni.
La guida non è più gentile, senza strappi al motore.
Adesso l’auto è nervosa, quasi nevrotica, per l’innaturale
esercizio di flessibilità a cui è sottoposta.
D’un tratto giri un curva e davanti a te c’è la più classica
fila di macchine ferme.
Scordatevi i lampeggianti accesi.
Questa è terra dove anche le lampadine vengono risparmiate
dall’usura e dalla fatica.
Sono fermi e basta.
E voi vi riuscite a fermate dietro.
Il che è già un buon risultato.
Il mio guidatore lascia un discreto margine davanti a noi e
si piazza a centro delle due corsie, bloccando altre teoriche incolonnazioni
veicolari.
Passa qualche minuto e d’un tratto, di scatto, il guidatore
mette la prima, ricopre lo spazio che aveva lasciato davanti e si sposta
velocissimo tutto a sinistra.
Tempo qualche secondo e alla mia destra arriva in corsa un
camioncino che “bang” !
Si schianta dritto dritto contro la macchina che avevamo
prima davanti a noi.
Ecco perché ci eravamo lasciati lo spazio davanti.
Ecco perché il guidatore saettava continuamente occhiate nervose
allo specchietto.
L’autosole : se la conosci la eviti.
Ma se invece vuoi fare un’avventura, è il posto ideale.
Altro che far west.
Noi ci abbiamo il far sud.
40 Viaggio a Maratea
Maratea è
una località di mare in Basilicata.
Ne parlo perché ci sono cresciuto, avendoci passato tante
estati in “villeggiatura”.
E’ piuttosto rinomata perché è bella, e cosa ancora più rara
in tanto sud, relativamente incontaminata.
La speculazione edilizia, in questo posto, non si è spinta
all’estremo e potrei dire che non è eccessivamente fastidiosa.
Ha una storia antica, come la gran parte dei Comuni italiani.
Ho sempre pensato che il nome derivasse da Tea Maris.
La dea del mare.
Era affascinante l’idea di andare in vacanza da una Dea.
Faceva tanto Ulisse dalla maga Circe.
Invece, guarda un po’ cosa combina il cervello.
Pare che venga da marathus.
Il finocchietto, in origine selvatico www.comune.maratea.pz.it/pagina1544_storia.html
Insomma, invece di una divinità, potremmo scherzosamente
definirla come località di ricchioncello allo stato brado.
E in effetti ; Fiumicello,
Castrocucco. Alcune frazioni portano nomi indicativi.
Ma io voglio raccontare due aneddoti di Marateota fierezza,
che tanto me la fanno assomigliare ad altri luoghi visitati. La Corsica e
l’Andalucia ad esempio.
Un giorno, tantissimi anni fa, quando il posto era davvero
ancora “vergine” ci troviamo a mangiare in uno dei pochissimi ristoranti di
allora.
Il proprietario è un burbero signore, in nulla sottomesso
alla servizievole immagine del ristoratore che siamo comunemente abituati ad
avere.
Gli avventori erano regolarmente sottoposti a screening
“tossicologico” prima di essere ammessi al ristorante.
Se ritenuti “tossici”, in ogni lato senso vogliate intendere
la parola, di mangiare non se ne parlava nemmeno.
Noi eravamo nella ristretta cerchia di quelli ammessi
regolarmente. Il burbero andava d’accordo con mio padre.
Un giorno si presentarono tre “cristiani” che si sedettero
ad un tavolo vicino a noi.
Io non so bene cosa avessero fatto di male.
Mi piace pensare che il ristoratore avesse una sorta di
antenne, per cui percepiva distonie cellulari intrinseche, ragion per cui
sentiva a naso, o a occhio, se il cliente fosse buono oppure no.
Quelli li erano stati bollati.
In apparenza, ma solo in apparenza, senza motivo ne conseguenze.
Ad un tratto lo chiamano per ordinare.
Lui si avvicina e i clienti gli chiedono un piatto.
Lui risponde “è finito”.
Allora gli chiedono un’altra cosa.
E lui imperterrito: “è finito”.
Terza prova .
“E’ finito”.
Finalmente il cliente si accorge che il ristoratore ha in
mano dei succulenti spaghetti al pomodoro per un altro cliente.
Crede di averlo fregato, e tutto tronfio gli fa : “molto
bene, allora spaghetti al pomodoro per tutti”.
Il ristoratore lo guarda torvo e gli fa : “qui non facciamo
spaghetti”.
Non ho mai saputo cosa avesse fatto il cliente di tanto
grave, ma il ristoratore fu geniale.
Su di una simile falsariga caratteriale era l’unico
negoziante di articoli da barca e da mare del paese.
Aveva un negozio che dominava il porticciolo del paese.
Controllava tutto dall’alto.
Conosceva ogni barca, ogni turista, ogni persona.
Veniva regolarmente aggiornato sui movimenti di tutti.
Lo conoscevo fina da piccolo, e lui conosceva me.
Quando andavo a comperare qualsiasi cosa, gli chiedevo il
prezzo.
E lui mi faceva, con aria divertita : “Claudio, proprio
perché sei tu, sono 10.000 lire”.
Ogni cosa mi sembrava carissima, ma era l’unico fornitore
del posto.
Era il nano-monopolista.
Andammo avanti così per anni.
Finché un giorno incrociai nel negozio un turista di
evidente origine nordica.
Comprò qualcosa e il negoziante gli disse : “proprio perché
è lei, fanno 15.000 lire”.
Il turista se ne andò e arrivò il mio turno.
Presi qualcosa. E chiesi quanto costava.
Il negoziante mi disse : “proprio perché sei tu, fanno 10.000 lire”.
Finalmente mi arrivò il flash, e chiesi : “Scusa, ma se
invece non ero io” ?
Scoppiò a ridere e mi disse : “beh, se non eri tu erano
5.000”.
“Ma voi siete turisti”.
“E’ giusto che paghiate di più”.
“E voi lo dovete capiscere”.
“Perché noi qua campiamo tutto l’anno con quello che
guadagnamo nei tre mesi estivi”.
“Anzi mi dovresti già ringraziare se una cosa che costa
5.000 lire non te la faccio pagare 15.000”.
“10.000 lire è un prezzo di favore, proprio perché sei tu”.
Ecco, questo è un esempio di teoria economica applicata.
Ci si potrebbe disquisire per ore.
Ed è uno dei motivi per cui dico che l’economia non è un
scienza, quanto piuttosto un esercizio di analisi comportamentale molto più
semplice di quanto si creda.
Ma quelli raccontati sono anche esempi di “nigro southern culture”,
come quella descritta nel viaggio a Blackheath, Londra.
Ma non cadiate in errore.
Questa non è arte dell’arrangiarsi.
Questi racconti sono esempi di difesa del territorio.
E di valorizzazione di quello che si ha a disposizione.
Mi viene anche in mente la questione meridionale.
Chissà quante volte avrebbe potuto essere risolta, se si
fosse voluto comprendere come funziona il Sud.
Ah, a proposito di valorizzare quello che si ha.
Chissà quanti ricordano il Carlo Martello di Fabrizio de
Andrè :
De’, proprio perché voi siete il
Sire,
fan cinquemila lire.
E’ un prezzo di favor.
41 Viaggio in Rolls
Questo è un tipico caso di viaggio statico. Nonostante ci
sia di mezzo la regina delle automobili.
Ma non è nulla di astrofisico, niente paura.
Ne’ è un viaggio nel tempo stando fermi nello stesso posto.
O forse si, ma non nel senso che immaginate.
Questo è un viaggio nella poesia.
Quando ero molto giovane, a 12 o 13 anni, andavo a Londra
per studiare l’inglese.
Mi ci mandavano, costringendomi, due mesi ogni estate.
In realtà mi mandavano a Wimbledon. Dove si fa il famoso
torneo di tennis.
All’epoca io ero un discreto giocatore amatoriale di tennis.
Nonostante fossi solo discreto, e quindi senza nessuna
velleità primatistica, mi piaceva molto. Mi affascinava l’intelligenza
geometrica necessaria a spiazzare l’avversario. Ovvero, erano un accanito
cercatore del “contropiede”.
In altri termini mi piaceva la fantasia che si poteva mettere
in ogni colpo, disegnando trame che potessero infine essere numerate in base sessanta.
0,15,30,45 (approssimato a 40 non ricordo perché) e infine il 60.
60 in inglese corrisponde a “Love”, che non vuole
rappresentare un empito di fratellanza ed amore globale, ma che nasce
dall’uovo.
Da “l’oeuf” in francese, inglesizzato appunto in “love”,
simbolo di chiusura di un ellittico cerchio della vita.
Io a Wimbledon scappavo piuttosto regolarmente dalle lezioni
di inglese e andavo a vedere il torneo di tennis.
Oggi mi rendo conto che quella che sembrava una follia
genitoriale, perché era evidente che un ragazzino appassionato di tennis lo
avrebbe fatto, in realtà doveva essere una qualche forma di educazione mediante
esposizione alla tentazione. Ma questo è un altro discorso.
Wimnledon è uno dei simboli di civiltà britannica su cui spesso
si sofferma il ricordo di impero.
E’ simbolo di correttezza. Di eleganza. E di educazione.
Al Center Court non vola una mosca, nessuno si muove.
Erano addirittura proibiti non solo i flash delle macchine
fotografiche, ma addirittura i loro click.
E tutto ciò fa parte dell’anima di uno degli Ombelichi del
mondo.
Addirittura gli stessi giocatori sono spesso molto più
corretti che altrove.
Vengono intrisi delle vibrazioni di quell’anima e ci si
adeguano naturalmente.
L’ambiente ci condiziona, si. Questa è un certezza assoluta.
Tutto ciò è talmente vero, che può capitare di essere un
ragazzino che non ha i biglietti per il campo Centrale. Sia perché costano
tanto e sia perché vanno prenotati mesi prima.
Ma se quel ragazzino entra nel circolo col biglietto cheap (povero)
e si mette vicino alle uscite del Centrale, capita regolarmente una cosa
impressionante.
I biglietti del Centrale sono spesso giornalieri. Chi li
compra è normalmente una persona nota o importante che non passa tutta la
giornata a guardare geometrie sessantadecimalizzanti.
Così, quando deve andare via, appena scese le piccole scale
che portano fuori dal campo, inizia a guardarsi intorno.
Fino a che non individua un determinato soggetto e gli si
avvicina chiedendo se per caso volesse i biglietti.
E’ lui che si avvicina, non il contrario.
Ma la cosa straordinaria è che non glieli vuole vendere.
Glieli vuole regalare.
E’ una tradizione, grande simbolo di civiltà.
Le tradizioni, l‘educazione e la storia assorbita nel Dna,
spesso sono importanti come le leggi.
Leggi, norme, usi e abitudini sono tutte gradazioni di
quanto un popolo si sia evoluto.
Più si va in profondità e ci si allontana dal bisogno di
prescrittività per ordine naturale delle cose, più un popolo è maturo.
Quando in auto ci si ferma alla sola vista delle strisce
pedonali prima ancora che un pedone arrivi a un metro dalla fine del
marciapiede, e non inchiodando all’ultimo, un popolo è grande abbastanza da
sopportare anche la fine del suo sogno imperiale. Entro certi limiti,
naturalmente.
Perché è importante riconoscere chi sa frenare prima di
arrivare all’ultimo momento? Perché vuol
dire che egli ha una oramai genetica, nidificata, subconscia, consapevolezza
del grande flusso di energia che tutto pervade.
L’energia non si crea e non si distrugge. Si trasforma,
certo. Ma soprattutto, si trasferisce. E si disperde.
Se io freno all’ultimo, obbligo il pedone a fermarsi per
cercare di capire. E se lo fermo, egli perderà energie per valutare la
situazione, energie che si disperderanno fuori da lui stesso.
Vale anche per la macchina. Se freno all’ultimo, devo
mettere più energia per contrastare l’accelerazione data dalla spinta di massa,
con la conseguenza che poi dovrò impiegare molta energia in più per rimettere
in moto la stessa massa.
“Si, frenare. Dolcemente senza strappi al motore” direbbe
Battisti.
E’ questa la regola per non disperdere preziose energie. Riconoscerne
le potenziali fonti di evaporazioni.
E questa è l’essenza per incanalarsi nel grande flusso del
principio di sincronia cosmica.
Comunque tornando agli inglesi, il concetto è che si può
anche diventare “decaduti”, ma l’eleganza con la quale si decade è
testimonianza direttamente proporzionale alla grandezza con cui si è vissuti.
Io ho avuto il privilegio di conoscere una piccola parte di
questa decadenza di impero e nobiltà britanniche.
Dimenticate Buckingham Palace, il cambio della guardia, la
city, Lady Diana et cetera.
Io sono affascinato dalle frange dei margini, non dal
tentativo di mantenere una immagine
imperiale che non solo non serve a niente ma anche testimonia profonda povertà
d’animo.
Se si vuole conservare una parte di tradizione, lo si
dovrebbe fare senza gravare sulle spalle di un popolo intero come pulci sul
groppone di un cane.
Il mio aristocratico modello britannico, dunque, si chiamava
Mr. Previte. Famiglia decaduta abbastanza da dovere affittare camere agli
studenti. Fortunatamente per loro, avevano ancora la lingua inglese da vendere.
La casa era tutt’altro che un castello. Una piccola casetta
a schiera bianca. Su due piani, con un fazzoletto di giardino fronte strada e
un giardino più grandicello sul retro.
Bello, il retro-giardino. Incasinato “all’inglese decaduto”
ma con tante belle piante, anche ad alto fusto.
In fondo, semicoperto dagli alberi, c’era un capanno.
Uno dei primi giorni, mentre sono a letto a sera inoltrata
con il classico sole di “quasi
mezzanotte” del nord Europa, sento armeggiare nel capanno.
Dopo un po’ esce Mr. Previte che si richiude dietro la porta
del capanno.
Nei giorni seguenti mi capitò di vederlo entrare e uscire
dal capanno stesso con una certa regolare ritualità.
Io lo guardavo curioso, lui mi guardava dubbioso.
Arrivò finalmente un sabato in cui Mr. Previte sciolse i
residui dubbi, e mentre andava verso il capanno mi fece segno con la mano di
seguirlo.
Aprì la porta e a me apparve, davvero in tutto il suo
splendore, una vecchia Rolls Royce in un classico bicolore grigioblu. Era perfetta.
Ed era un cimelio di famiglia, testimone di perduti fasti.
Mi spiegò che non aveva abbastanza soldi per metterla in
strada.
Ma la curava proprio come se fosse l’anima della sua nobiltà
perduta.
Me la mostrò come grande segno di empatia, lo capìi anni
dopo. Nessuno altro la poteva vedere e men che meno toccare. Un giorno mi fa : “vieni,
oggi facciamo un giro sulla nostra Rolls”.
E mi fa salire. E sale anche lui. E restiamo fermi nel
capanno tutti e tre insieme: The Rolls, Mister Previte and little Claudio.
Come già mi avrebbe dovuto evocare l’adeguata eleganza sintattica
britannica, il giro lo stavamo facendo.
“Sulla” Rolls, appunto
Che non vuol dire in movimento.
42 Viaggio nel lusso
Questo invece è un viaggio nell’assuefazione comportamentale.
Posso dire con una punta di orgoglio che oggi a me del lusso
non frega niente.
Anzi, spesso mi infastidisce.
L’unica cosa che ci vedo, è spesso l’ordine di grandezza
dell’espropriato plusvalore che si porta dentro.
Vendere a 2 euro una cosa che ne costa uno è un conto.
Venderla a 100, è un’altra faccenda.
L’ordine di grandezza, come in tutte le cose, fa tutta la
differenza del mondo.
Ma non ci sono arrivato mica per caso.
E’ stato un lungo, pluridecennale, viaggio di re imprinting
comportamentale.
Di disintossicazione dal sistema di valori imposto
normalmente come modello.
Ci hanno lavorato dal principio.
Ricordo mio padre.
Era uno che parlava poco. Quando lo faceva era a proposito.
Ogni cosa che diceva era una causa che avrebbe generato un
effetto, a volte contrario a volte no.
Questo è il senso del termine “imprinting”. Treccani
- Universo del Corpo -Imprinting
A cui possiamo aggiungere quello del significato di
“attivazione” di circuiti di Rete
neurale.
Quello spiegato così bene dalle semplici immagini del
complesso film A.I. -
Intelligenza artificiale.
Uno dei miei comandi di attivazione fu il seguente.
In quella occasione credo si riferisse al benessere
materiale, ma potrebbero esserci altre interpretazioni.
Un giorno mio padre mi disse : “Tu disprezzi tutto quello
per cui noi abbiamo combattuto tanto”.
No. Non è vero. Non lo disprezzo.
E’solo che non ne vedo l’utilità. E anzi, spesso ne vedo la
“disutilità” a livello complessivo di sistema.
Fin da piccolo sono stato educato a vivere nel lusso, e così
facendo ne sono stato vaccinato. Come da un vizio.
Ricordo quando andavo a Londra a studiare inglese.
Veniva organizzato un viaggio in jet privato.
Da ragazzini è uno degli status symbol di ultima
generazione, o gradazione.
Quando puoi girare in aereo privato vuol dire che sei uno
strafigo.
Così a dodici anni io venivo scarrozzato nei cieli d’Europa
da strafigo.
All’andata verso Londra era tutto ok.
Al ritorno dovevo atterrare a Lamezia, in Calabria, e già li
la cosa era più fastidiosa : all’atterraggio subito mi trovavo una discreta folla
di persone che mi scrutava.
E io pensavo al famoso “insulto alla miseria”. Se qualcuno
mi spara, come fare a dargli torto ?
Ecco perché oggi mi sento vaccinato.
Ed ecco il motivo per cui se racconto qualcosa, come in
questi viaggi, si noterà che le “visioni comuni” dei posti che ho visitato in
vita mia non mi interessano.
Fanno parte di un”lusso turistico”, sempre condizionato a
cercare il bello come se il bello fosse dappertutto e come se ce ne si potesse,
o dovesse, appropriare.
A me piace dire, che vaccinato dalla vanagloria del lusso e
forse anche del benessere, io preferisco cercare il vero.
E so per certo che non sta in quelle poche manifestazioni
apicali che ci hanno insegnato a idolatrare come belle.
E così è negli scritti di questa raccolta.
Perché ho ben radicato nei miei geni quello che cantava Pino
Daniele, da dentro i suoi.
“Credimi la cultura è fragile, e la torre Eiffel è ruggine”.
43 Viaggio dal cardellino
E’ anche questo un viaggio nella poesia. Siamo nelle
campagne del Viterbese, poco lontane da Roma.
Siamo andati a visitare un’azienda agricola che produce
vino. Volevo capire se si fosse potuta comperare. Il mio sogno è sempre stato
quello di vivere in campagna. Non dello stesso avviso era la di allora mia
moglie.
Ogni volta che la portavo in un posto simile, mentre io mi
ci perdevo in una estasi addirittura pre-alcolica, percepivo il terrore che la
pervadeva.
Lei era urbana, intossicata fino alla fine dal presunto
fascino della società dei consumi di stampo borghese.
Il cosiddetto “ fascino discreto della borghesia ” lo
aveva chiamato Bunuel.
Nonostante le mie reiterate tentate spiegazioni sula
evanescenza di quel fascino, lei non fece in tempo a liberarsene.
Morì borghese. Speriamo
che il Signore nella sua infinita bontà, abbia pensato ad un “perdono di
classe”.
Tornando alla storia, ci trovavamo nella zona di produzione
di un antico vino dei Papi : l’Est!, Est!!, Est!!!.
E’ un vino spesso di poca autorevolezza, ma dalla bellissima
storia di ecclesiastica autorità.
Est! Est!! Est!!! Si chiama così perché
veniva promosso a vino papale al suono di “c’è, c’è, c’è”. In latino, 3 volte
Est, che in questo caso non ha dunque nulla a che fare con i punti cardinali.
Arriviamo alla nostra destinazione. Una bellissima serie di
terrazzamenti rivolti verso il lago di Bolsena.
Alcuni terrazzamenti erano coltivati a vitigni antichi,
erano vigne riconosciute come di interesse storico.
Mentre guardo il panorama mozzafiato, spero in una
conversione alla vera bellezza da parte di mia moglie, che invece emana fremiti
di feromonico orrore periferico.
La cascina è bellissima. Antica, molto articolata, di tufo.
Di fianco c’è anche una zona di piante rare, altra
attrattiva per le mie passioni botaniche.
Il padrone è un nobile parecchio decaduto, ma non decadente,
il quale si diletta a fare il vino da
solo.
E lo fa nella cantina di fianco alla abitazione in cui vive sempre
da solo.
Prima di introdurci al suo paradiso, la cantina, ci illustra
la storia sia dei suoi successi enologici che della sua famiglia di antiche
tradizioni.
Ascoltiamo pazienti. Ha una delicata gentilezza
assolutamente priva di qualsivoglia contaminazione melliflua.
Mi da proprio l’idea di essere un poeta della vita. Uno che
fa poesia della sua vita, vissuta in una profonda solitudine alleviata solo
dall’amore per la sua terra, le sue viti, e la sua passione per il vino.
Finalmente ci introduce alla sua segreta : la cantina.
Struttura antica, volte di tufo, e tecnologia moderna. Botti
di acciaio, attrezzature, etichette . Insomma, tutto come deve essere.
Inizia a farci assaggiare i suoi vini, con dovizia di
spiegazioni tecniche e organolettiche. Dopo un po’ io mi metto a gironzolare
incuriosito sbirciando qua e la.
Ad un tratto lo sento che parla, e d’istinto mi volto verso
di lui. Non c’è nessuno, e quindi torno a curiosare.
Passa qualche secondo e lo sento di nuovo: “allora, come è?
Ti piace? E’ venuto bene ? Che dici lo mettiamo in vendita ?”
Mi rigiro e di nuovo non vedo nessuno. Sto per ritornare
alla mia curiosità, quando sento “Cip, Cip”.
Un cinguettìo.
Allora mi soffermo a curiosare meglio con lo sguardo, e d’un
tratto sul beccuccio a rubinetto di una botte d’acciaio vedo un cardellino.
Guardo meglio, e vedo il vignaiolo davanti al cardellino. Ha
in mano un bicchiere di vino. E ci sta parlando, con il cardellino.
Al’improvviso glielo porge vicino, chiedendo al cardellino
stesso: “allora, che ne pensi?”
Con mio sommo stupore, o meglio ammirazione, il cardellino
assaggia il vino intingendo il becco nel bicchiere. Subito dopo vola via
cinguettando allegro.
Il vignaio mi guarda timido, e quasi scusandosi, mi mostra
il bicchiere e mi fa : “questo è buono”
.
L’anima del mondo : che spettacolo in quanti modi si
manifesta.
44 Viaggio dal carrozziere
E l'uomo incontrò il cane scriveva Konrad Lorenz.
Grandissimo libro, a cui fui iniziato da uno dei miei
mentori giovanili. La mia superiore quando lavoravo in Montedison.
Mi viene in mente anche Axel Munte. Mi pare fosse La storia di San Michele. Quelli che
conosco che lo hanno letto fanno sempre riferimento alla bellissima
letterarietà delle esperienze e sensibilità del medico a Capri. Perché sono per
lo più affascinati dalla proprietà immobiliare e, forse meno, dall’aura comune
dell’isola.
Io trovo una certa affinità quando penso che Munthe fu
talmente colpito dalla bellezza dell'isola da percepirne addirittura lo
spirito, rappresentato allegoricamente da una figura "avvolta in un ricco
manto".
E trovo di grande fascino il solo fatto di concepire di
stringere un "patto spirituale" con l’anima del posto , secondo il
cui patto egli sarebbe divenuto il legittimo proprietario della terra su cui
erigere la villa solo a condizione di rinunciare "all'ambizione di farsi
un nome nella sua professione".
Oltre a tutto ciò io ricordo di avere letto che sempre di
fianco a lui c’era il suo cane. E questa è l’analogia con Lorenz.
Ma che c’entra tutto ciò con il carrozziere? Tempo al tempo.
Ad un certo punto della mia vita io sento l’impellente
bisogno di avere di fianco a me un cane.
In vita mia sono stato educato alla cultura dell’abbandono e
a quella conseguente della solitudine, in una maniera in qualche modo geniale
che ho riconosciuto solo in età recente.
Non solo venivo spostato di città in città ogni due anni, ma
ad ogni nuova location mi veniva portato in dono come un tributo consolatorio,
un cane che mi facesse compagnia.
La mia affettività si concentrava su quel cane, con il quale
diventavamo simbiotici. E quando eravamo una cosa sola, ecco che il cane
scompariva come d’incanto, lasciandomi da solo nel dolore che soprattutto da
piccolo era anche piuttosto forte.
Le spiegazioni ufficiali erano le più varie. Una volta il
cane mi fu rubato, un’altra volta fu esiliato perché troppo impegnativo,
un’altra ancora fu ripudiato perché dispettoso.
Ma non voglio rompere i coglioni con troppe seghe mentali
sui traumi infantili: ci sono al mondo traumi ben peggiori dei miei.
In ogni caso il condizionamento dell’imprinting ha
funzionato talmente bene, che in età maggiorenne feci per due volte la stessa
cosa anche io stesso, e mi liberai dei cani che mi ero donato da solo. E ciò
senza parlare degli auto abbandoni con le persone.
Per i cani c’erano dei motivi oggettivi, certo. Ma quelli si
trovano sempre.
Una volta la labrador Cleopatra (da piccolo mi sentivo già
imperiale, perciò la chiamai così) era divenuta ingestibile dopo che mi ero
laureato e avevo iniziato a lavorare: ogni volta che uscivo di casa lei
manifestava la sua crisi di abbandono distruggendomi letteralmente tutta casa.
Un’altra volta una coppia di pastori tedeschi fu esiliata presso
conoscenti in campagna per vendetta contro mia moglie, che mi aveva indotto a
restare a vivere a Milano dove avevo anche dovuto comperare una casa con un
costosissimo giardino per tenere i due cani.
La questione economica sembrava pure ragionevole, ma io so
che la vera ragione era punirla per il torto urbano che mi aveva imposto.
In ogni caso solo chi ha una sensibilità animale, può
rendersi conto della simbiosi che si crea con l’”animale”.
Io poi sono della scuola di pensiero che si debbano creare
coppie di genere opposto. Ho sempre voluto cani femmine, anche se ne ho avuti pure
maschi, perché si crea una relazione matrimoniale molto più forte.
Voglio raccontare un episodio.
Quando decisi che ero costretto a ripudiare la mia Cleopatra,
la portai da certi signori in un paese vicino Piacenza. Erano brave persone,
con un figlio piccolo pestifero quanto la mia imperatrice.
Vivevano in periferia in una villetta a schiera con il
giardino. Insomma era tutto perfetto, pur nella sua tragicità.
Un giorno, ben due anni dopo, mi telefonarono per dirmi che
Cleo aveva fatto i cuccioli. Molto gentilmente mi invitarono, e io volli andare
a vederli.
Errore da non fare, ne ripetere, mai.
Una volta chiusa una porta, con un cane, e forse non solo, non
si deve mai riaprire. Sia per il cane che per l’uomo.
Quando arrivai, Cleo stava allattando. I cuccioli avevano
una ventina di giorni. Mi accompagnarono verso la stanza di Cleo, commoventemente
arredata come se se fosse quella di una bambina.
Nello stesso istante in cui Cleo mi vide, balzò in piedi
incurante dei cuccioli che vennero scaraventati in giro per tutta la stanza, e
mi corse addosso leccandomi dappertutto in una sinfonia di guaiti strazianti.
Erano due anni che non ci vedevamo, ma si dice che i cani
non abbiano il senso del tempo.
Di sicuro non lo hanno neppure alcune vere emozioni umane.
Giusto per farci un po’ più male, andammo in strada a giocare
al suo gioco preferito: inseguire la pallina da tennis.
I cuccioli erano ormai l’ultima preoccupazione di mamma
Cleo, che era tornata lei bambina e correva felice dietro alla pallina.
Ad un tratto la pallina, sempre forsennatamente inseguita da
Cleo, passò vicino alla mia macchina.
Cleo senza neanche fermarsi la “sentì” e ci si buttò contro
iniziando a ravanare sulla porta con le unghie per farsi riportare a casa.
Fu una delle cose più strazianti che ho mai avuto occasione
di provare.
Riportai Cleo dentro casa, ringraziai, salutai e
letteralmente scappai via.
Non portai mai la macchina dal carrozziere e conservai i
segni dei graffi per ricordo della memoria di Cleo e della colpa di Claudio.
Parecchi anni dopo anche a seguito di parecchie mie vicissitudini,
pure drammatiche come l’internamento psichiatrico, la morte di mia moglie e
altre, sento che è giunta l’ora: mi voglio risposare.
E inizio a pensare a chi possa essere la mia promessa sposa
quadrupede.
Il primo istinto naturalmente è quello di andare in un
canile, a cercare una sposa trovatella.
Ma poi mi parlano di una certa razza francese, antica e
rinomata per intelligenza, forza e obbedienza. Sono cani da pastore, e vengono
usati per compiti di polizia, soccorso e simili. Addirittura mi raccontarono
che vennero usati nelle guerre mondiali come staffette nelle trincee, e perfino
per portare bombe. Non hanno paura di niente.
Sono i pastori della Beauce, anche noti come Beauceron. Li
chiamano anche Bas-Rouges
, “calze rosse”, per la focatura sulle zampe.
Mi viene in mente subito il lupo “Tre calzini” di quel capolavoro che è Balla coi lupi .
Mai sentiti prima, io mi inizio a documentare in internet e
subito scopro che ci sono pochissimi allevamenti in Italia. Tanto per dare
un’idea, nel 2012 sono stati iscritti solo 127 cuccioli ai libri genealogici
dell’ENCI.
Mi innamoro di loro a prima vista.
Sono fieri, potenti, bellissimi.
Ma c’è un problema: sono cani aristocratici. E girando in
internet mi rendo conto che tutti i pochi allevamenti italiani hanno un tono
davvero pretenzioso. Gare, premi e “puzzonerie” varie sono tutte incluse.
Fino a che trovo un link che per qualche motivo mi
incuriosisce.
Ci clicco sopra e vengo instradato sul sito di una
carrozzeria per automobili in un piccolissimo paese sopra Pinerolo.
Penso ad un errore e riprovo. Stesso sito.
Guardando meglio le foto vedo delle costruzioni basse in
fondo al piccolo piazzale per le auto.
Spunta un naso di un cane.
Allora cerco meglio in internet e trovo il link “allevamento
pastori della Beauce” con lo stesso nome della carrozzeria. Ci clicco e mi si
apre un mondo.
Un piccolo carrozziere di professione, che li alleva per
passione tra macchine da riparare e mucchi di gomme.
Nessuna puzzoneria, nessuna snobberia.
Non ho dubbi, è di sicuro il mio promesso suocero.
Quando arrivo dopo alcune ore di viaggio in macchina sono
ben deciso a tornare a casa con la mia cucciola.
Quando il carrozziere apre le gabbie per farmi vedere i suoi
gioielli, succede una cosa inaspettata ma inequivocabile.
L’anima del mondo mi parlò.
In mezzo a tutti quei bestioni neri che correvano giocando
da tutte le parti, spuntò timidamente da una gabbia un muso più titubante.
Mentre il carrozziere mi magnificava le sue creature, io e
il muso ci annusavamo da lontano con quello sguardo che da subito iniziò a
veicolarci reciproci quanti di emozione.
Senza troppe pippe psichoquantiche, seppur reali, ci eravamo
riconosciuti. A prima vista.
Due anime sole in mezzo alla girandola della giostra delle
anime normali.
Lei uscì dalla gabbia trotterellando timidamente in mezzo al
vortice degli altri e mi venne vicino.
Allungò un po’ il muso per una usmatina confirmatoria.
Decise che non si era sbagliata, e si sedette di fianco a
me.
Io interruppi il carrozziere e indicandola chiesi lumi.
Lei è Tina, mi disse lui.
Ha vinto vari premi.
E’ una delle fattrici, perché è molto bella sia di fisico che
di carattere.
E ciò, anche secondo Lorenz, è un rarità sia tra i cani che
tra gli umani.
La teniamo per fare i cuccioli, continuò il carrozziere, ma
quando è incinta e quando poi fa i cuccioli diventa molto aggressiva e litiga
con tutti gli altri per 4 o 5 mesi su 6.
Per questo è stata abituata a stare chiusa in gabbia per
tutto quel tempo.
In effetti si notavano vari graffi e cicatrici.
“Caspita che mamma!”, pensai io.
Io e il carrozziere discutemmo un po’ e alla fine lo
convinsi con la vile pecunia.
Pagai Tina il doppio degli altri cani e ce ne andammo
insieme.
Siamo sempre insieme ancora oggi.
…..
E l’uomo incontrò il cane.
Dal carrozziere, per l’appunto.
45 Viaggio con mia figlia
Il viaggio che avrei voluto fare con mia figlia parte da quello
che ho fatto io che ho descritto nel paragrafo “viaggio in Africa”.
Se è vero che ci vuole la meraviglia di bambino per rendere
giustizia alle mirabilie del mondo, trovo che l’Africa sia incontestabilmente
una, o “la”, mirabilia, e credo che nessun bambino possa non restarne meravigliato.
Quindi, avrei voluto portarla in Africa. Si, questo è il viaggio che avrei fatto con
lei.
Avrei voluto farle vedere la brulicante vita africana.
Ma avrei anche voluto farle toccare con mano la morte
africana.
I bambini.
I profughi.
La fame.
Le malattie.
Oggi sono cose note a tutti noi. Bambini inclusi.
Ma le cose non sono sempre uguali.
A seconda di quanto da vicino le guardi cambiano la loro
“misura”, per tornare al 2° paragrafo.
E a volte una singola “computazione”, un singolo calcolo, di
quanto grande sia la misura di tutta quella sofferenza, può imprimersi in testa
per sempre indelebilmente.
E forse determinare un imprinting perenne in quel bambino
condizionato, che non solo gli faccia annidare nel subconscio un “per fortuna
che non sono io”, ma anche la ricerca di un modo di vivere che sia rispettoso
della sua fortuna e della altrui sfortuna.
Questo è quello che avrei voluto fare.
Invece prima era troppo piccola, poi mi hanno chiuso in
manicomio, poi è morta mia moglie, e oggi mia figlia vive a Milano con la zia,
ha 11 anni, è spocchiosetta, viziata, urbana e hi tech.
Il suo passatempo preferito sono i videogames, e anche se
qualcuno forse è a sfondo africano, evidentemente non è la stessa cosa.
Messa così sembra una tragedia, ma prima di tutto ciò devo
dire che almeno è buona e intelligente.
E bella, anche se la bellezza non è propriamente una
qualità.
Comunque a seguito di tutto ciò mi sono dovuto inventare La mia Africa ,
qua a Milano.
Non avendo la macchina, ho iniziato ad andarla a prendere in
bici.
Imbottivo la canna di cuscini e ce la portavo sopra.
Il tragitto passava per quella zona descritta in “Viaggio nella
Qasba”.
Lei canticchiava spesso “guardate come vado veloce, guardate
come vado veloce. Sono io che pedalo, quello dietro non fa un accidente”.
E’ in queste occasioni che a volte la salutavano, anche
sorridendo.
Col tempo siamo diventati troppo pesanti e un certo giorno
abbiamo deciso di passare all’autobus.
La prima volta che siamo saliti, lei ha avuto un attimo di
titubanza.
Dopo le nostre quattro fermate siamo scesi.
Lei mi ha preso il braccio e mi ha detto : “Ma quante
persone ci sono sull’autobus!”
“E quanti stranieri.”
“Un sacco di africani !”
Oggi una delle sue migliori amichette è eritrea.
Vive nei palazzi popolari della qasba.
La mamma a volte fa le treccine a tutte e due: Racheb e
Vittoria.
E io mi dico : “vabbè, la mia Africa tutto sommato ha
funzionato lo stesso”
Speriamo che duri.
46 Viaggio nell’intestino
Questo è il primo di alcuni viaggi nella malattia e fino
alla morte.
Non voglio parlare di esperienze extracorporee o tunnel di
luce.
Voglio parlare della dimensione fisica della morte.
In fondo si dice che la vita è un viaggio.
Poi quando si deve parlare della morte la liquidiamo in un
secondo e diciamo solo che “uno è morto”.
Come ci si è arrivati e anche come si è morti, passa in secondo piano.
Possiamo tranquillamente dire che ne facciamo oggetto di
rimozione psicologica.
Eppure, se ci pensassimo di più ne avremmo meno paura.
Però non lo facciamo.
Credo che ci si debba sforzare in senso opposto.
Il viaggio nell’intestino è in quello di mio padre.
Non ricordo nemmeno bene come lo scoprimmo, e questo fa
parte della mia rimozione, ma ad un tratto gli diagnosticarono un tumore al
colon già in metastasi al fegato.
Ricordo distintamente che nessuno fu chiaro al riguardo.
Nessuno ci disse che non era curabile, almeno per un bel
po’.
Passò così qualche settimana.
E in quelle settimane tutti stavamo impazzendo per cercare
di capire se, e cosa, si potesse fare.
Non sapevamo dove andare a parare, esattamente come in un
viaggio “alla cieca”.
Finalmente un medico mi prese da parte e mi disse : “di
questa cosa suo padre morirà. Noi possiamo solo cercare di fare una differenza
sul come”.
Aveva in mente cure palliative e controllo di altre
metastasi. Per evitare “danni collaterali”.
Ricordo bene la radioterapia per bloccare metastasi che
potessero fratturare le gambe costringendolo in un letto definitivamente.
Sembrava davvero di essere in viaggio su di una auto
impazzita in corsa.
I medici cercavano di controllarla, pur sapendo che alla
fine saremmo andati a sbattere contro un muro.
Cercavano solo di trovare il miglio muro possibile.
Il che sembra evidentemente un nonsenso.
E invece non lo è.
Sbattere frontali contro un muro di cemento armato è cosa
diversa da appoggiarsi in lieve strisciata contro un friabile muro di mattoni.
Durante il viaggio, ad un certo punto successe una cosa
incredibile.
Mio padre che era alla guida da sempre, mi passò il volante
e ci scambiammo di posto.
Fino a quel punto aveva gestito tutto lui.
Ad un tratto mi passò il volante e mi disse implicito “da
adesso guidi tu”.
Aggiungendo esplicito: “basta che mi aiuti”.
Intendeva che mi aiuti a morire.
In quell’istante capii che avevo sempre saputo che sarebbe
successo.
Ma non ci avevo mai voluto pensare.
Diventai grande tutto d’un botto, e non senza rotture.
E’ uno dei momenti che ho vissuto per cui ripeto che è bene
prepararsi.
Se ti coglie alla sprovvista ti travolge.
Io feci una cosa di cui vado fiero, nonostante non mi senta
di consigliarla a nessuno.
Mi opposi a qualsiasi ricovero e pretesi che morisse in casa
sua, nella casa a cui aveva tenuto tanto.
Per farlo, bisognò predisporre il supporto logistico.
Infermiere, visite dei dottori, farmaci, morfina e così via.
Se anche avessi voluto ignorare il fatto che stava morendo,
così diventò impossibile.
In casa si è costretti a una full-immersion di mortalità.
Rimasi sbalordito quando l’iper razionale Ingegner Aroldi
iniziò a dare segni di rimozione.
Con un melone in pancia me lo faceva toccare e mi diceva
“oggi è più piccolo, vero ?”
La bugia più pesante che abbia detto in vita mia era quella
che gli ripetevo dicendo: “Si”.
Non ci credeva nessuno dei due, ovviamente, ma diventò un
rituale degli ultimi giorni.
Oggi, in questa mia vita che a tratti ha dell’incredibile, ancora mi dico che forse
non è morto davvero.
Che tutto era una messa in scena per mettermi alla prova.
A volte mi pare anche plausibile e spero, nonostante tutto,
di incontrarlo per strada.
E a volte spero in uno di quei lampi con cui l’anima del
mondo me lo restituisca anche solo un secondo.
Fortunatamente, per una rara se non unica volta, riuscimmo
anche a scambiarci un “ti voglio bene”.
Credo che fosse sincero.
Io lo ero.
Mi disse un giorno che un tempo aveva anche cercato di
spararsi dopo alcune vicende di vita per così dire lavorativa.
Ma non era riuscito a farlo perché non poteva lasciarmi
solo.
Non credo che fosse soltanto così, credo che in cuor suo,
come per tutti, anche se a volte vogliamo morire l’istinto per la vita sia
incontrovertibilmente più forte.
Non avrebbe misurato ogni giorno il suo tumore, altrimenti.
Certo che se me lo dovessi davvero ritrovare vivo, quattro
calci nel sedere per il dolore che ho sentito glieli darei volentieri.
Anche se al tempo stesso non posso non riconoscere che quel
dolore mi ha reso più forte.
E che è stato esso stesso una tappa del mio viaggio di
camminatore nella vita.
Insomma, riportandoci al tema di questa raccolta, altri e
opposti sono diversi e lontani solo prima di arrivare.
E ricordatevi di quei satanassi di antichi greci, che tutto
devono contrapporre
Forse la morte non va
tanto considerata come l’opposto della vita.
Anzi, è molto probabile.
E forse la morte è solo un posto “altro” che è diverso e
lontano solo prima di arrivarci.
47 Viaggio nel fegato
Il viaggio nel fegato, è in quello di mia moglie.
Ammalatasi di una fulminante forma di tumore neuroendocrino,
glielo diagnosticarono quando era già dappertutto.
Aveva mal di pancia. Un giorno andò a fare l’ecografia, e
tornò a casa con i crampi e con la consapevolezza di avere 3 noci nel fegato.
Io ricordo perfettamente che guardai l’ecografia e le chiesi
: “quanto tempo ti hanno dato ?”
Evidentemente lei non era abbastanza vigile per realizzare
quello che avevo detto, e non fece in tempo a mandarmi affanculo prima del
crampo seguente.
Quando il crampo passò, rividi mio padre.
“Magari lo curiamo”, lei mi disse.
Iniziò così il nostro viaggio tra tentate cure, speranze e
tragedia.
Il viaggio non è uguale. Cambia a seconda di quanto tempo
hai per farlo.
Con un tumore al colon hai 6 mesi di tempo.
Con uno neuroendocrino due o tre settimane.
Cambia tutto.
Le morti non sono tutte uguali.
Ricordiamo quelle che sono le cinque fasi di elaborazione
psicologica del fatto che si sta morendo.
Del lutto.
- Negazione,
- Rabbia,
- Contrattazione o patteggiamento,
- Rassegnazione o depressione,
- Accettazione .
Le individuò negli anni 70, Elisabeth Kubler
Ross , nota come fondatrice della psicotanatologia.
E vengono magnificamente descritte in
quel film cult del 1979 che si chiama All
That Jazz , dove c’è una dolce, seducente e irremovibile Jessica Lange, che
impersona proprio la morte.
Talmente bella che ti viene voglia di morire solo per
conoscerla.
Elencare qui le 5 fasi risponde un po’ all’esigenza di “studiare da
ingegnere” del secondo capitoletto.
Serve a capire come funziona la psiche quando si sta
morendo.
E quindi anche a misurarla, in qualche modo.
In più, si consideri che se hai poco tempo a disposizione
facilmente salti dalla negazione alla depressione.
Difficilmente arrivi all’accettazione.
E a me personalmente, questa mancanza di accettazione turba
parecchio.
Ho come la paura che se non accetto di morire, poi mi lascio
qualcosa indietro. Come ne Il sesto senso
Non so come dire altrimenti, ma vorrei avere il tempo per
preparami.
Mia moglie oggettivamente non lo ha avuto.
Ed io porto questa mancanza di tempo a giustificazione di
come è morta.
Ma allo stesso tempo, faccio l’osservazione che feci con mio
padre.
Gli esseri umani grandi, intendendo di spirito, muoiono con
grandezza.
Chi è meschino o piccolo in vita, non potrà non esserlo
nella morte.
In primo luogo, dimenticandosi di fare il bene di chi rimane
e restando incentrati sul torto che si crede di stare subendo.
Mio padre già mi si era sciolto un po’ come neve al sole.
Mia moglie è morta come aveva vissuto.
Peccato, sia per la vita che per la morte.
Anche se, come per mio padre, spero ancora oggi che non sia
morta davvero e di incontrarla per strada.
48 Viaggio nei polmoni
Di mia madre invece voglio parlare per il ricordo di
perseveranza.
Iniziò a morire parecchi anni prima che la morte arrivasse,
a seguito della morte del nipotino di cui parlo più avanti.
Iniziò a trascinarsi nelle settimane, nei mesi e negli anni,
in un progressivo ma rigoroso processo di deperimento depressivo.
Con una costanza incredibile, inanellava successi su
successi.
Prima smise gradatamente di frequentare le poche persone che
già frequentava poco.
Poi smise gradatamente di uscire.
Poi smise gradatamente di mangiare .
Tutto in maniera talmente impercettibile, ma costante, di
giorno in giorno. Cosicché, dopo anni, ci trovammo uno scricciolo di pelle e
ossa che pesava poche decine di chili.
Non dico che non ce ne accorgessimo già nel mentre, ma ogni
giorno era giustificato con un “domani andrà meglio”. Domani mangerò un po’ di
più. Questa era la manifestazione depressiva maggiore: non nutrirsi.
Mio padre passò gli
ultimi anni della sua vita a cercare di farla mangiare.
Con risultati altalenanti.
Ricordo che un giorno si sfogò con me dicendomi: “compravo
navi di petrolio e ora devo comprare etti di prosciutto”. Io gli dissi: “lei ti ha permesso di fare la vita che hai
fatto, adesso tocca a te”.
E incredibilmente, lui lo fece.
Quando morì mio padre non ci fu nulla da fare.
Nonostante io mi fossi licenziato, e cercassi di prendermi
cura di mia mamma, non riuscii ad arginare il crollo.
Era davvero frustrante. Passare la giornata a prendersi cura
di lei e vedere che ogni attenzione era un fastidio, perché la teneva lontana
dalla morte.
Capii la grandezza di mio padre.
Un giorno eravamo a tavola e lei smise di mangiare, senza
avere praticamente nemmeno iniziato.
Mi disse qualcosa del tipo: “io non ho più nessuno; che cosa
vivo a fare ?”
Fu quella una delle occasioni in cui capii che non dovevano
essere davvero i miei genitori.
Le dissi: “come non hai nessuno? Ci sono io”
Lei mi guardò e mi disse solo : “Ah già!”
Che soddisfazione, eh ?
Morì una notte quando quasi non respirava più.
Fece un ultimo alito, e smise di muoversi.
Morì vigile, soffocando, ma senza particolare paura. Da qui
il titolo. Morì di insufficienza respiratoria.
Direi con folle grandezza e buona dignità, lei si.
Anche se appariva come la liberazione, io fui preso dal
panico e cercai di farle la respirazione bocca a bocca.
L’ambulanza arrivò un sacco di tempo dopo, e lei era già morta.
Ciononostante cercarono di rianimarla per quella che a me
sembrò una eternità.
Ma senza successo, almeno in apparenza.
Si perché se mio padre e mia moglie sono nei miei pensieri e
spero anche di reincontrali, con mia madre mi è già capitato.
Ed è stato davvero un trip. Un viaggio.
Passeggiavo con il cane e d’un tratto da lontano vidi una
vecchietta pelle e ossa su un panchina, con la badante. D’istinto, senza
pensarci, le andai incontro e le dissi “Mamma”. Era la perfetta immagine di
come la immaginavo da più vecchia.
Lei mi guardò e non negò.
Il Fenotipo
esiste davvero, e quindi in quel caso doveva essere molto simile. Ma a volte
ancora ci spero.
49 Viaggio in cielo
Il titolo si riferisce ad un viaggio iniziato dal
Policlinico Gemelli di Roma.
Il reparto in cui inizia è quello di neurochirurgia
infantile.
Il viaggio non è il mio.
E’ quello dei bambini.
Ci sono tanti bambini con tumori al cervello.
E’ un posto dove bisogna farsi davvero coraggio per entrare.
Ricordo i giochi e le pareti colorate.
Ma soprattutto ricordo i bambini che giocano, in un modo
così naturale.
Sono puri, non hanno paura della morte.
E’ solo un idea, per loro. Come altre.
Per lo meno a me danno questa impressione.
Siamo noi che crescendo ci contaminiamo e perdiamo quella
naturalezza.
Ma loro no.
Loro ci insegnano.
Avevo pensato di concludere la raccolta con questo racconto,
che parla di una delle cose più atrocemente strazianti che abbia vissuto in
vita mia.
Ma poi mi sono detto che la morte non è la fine, quindi ne
avrei snaturato l’essenza se ne avessi parlato alla fine di questo libro.
In quel reparto ci arrivo perché mio nipote, figlio di mia
sorella, è uno di quei bambini.
Sono passati tanti anni, ma lo vedo ancora come se fossimo
vicini.
Ulrico è un bambino biondo, bellissimo e buonissimo.
E’ davvero una angioletto.
Non ricordo nemmeno più quanti anni avesse esattamente a
quel tempo.
Il tempo Ulrico lo ha fermato per tutti noi.
Non solo Ulrico, in realtà, ma tutto il reparto.
E’ una fabbrica di angeli.
Così me la sono spiegata io.
Ma dirò di più, non me la sono spiegata con la ragione.
Lo so.
E anche se ho pure la prova empirica, quando ci vedo insieme
fisicamente seppur in un'altra dimensione, la prova empirica non la voglio.
Mi rovina la compagnia di Ulrico.
Mi rovina il ricordo di lui che chiede il suo piatto
preferito: i cannolicchi al pomodoro.
E mi rovina il ricordo degli ultimi suoi giorni di vita
piena di forza, nonostante la consunzione del suo corpicino.
Mi rovina il ricordo delle macchine che confermano il suo
ultimo battito di cuore.
Mi rovina il ricordo di me che guardo la stanza con una
sorta di lucido gelido distacco, senza lacrime.
Forse ero gelido di rabbia, penso oggi.
Oggi io non credo di sentire propriamente la paura di
morire.
Semmai solo quella della morte. Che raramente arriva indolore,
silenziosa e istantanea.
E questo me lo ha insegnato anche Ulrico.
Ciao Ulrico, proteggici tutti.
E soprattutto proteggi la tua cuginetta piccola, Vittoria.
Ci rivedremo di la.
Preparaci i cannolicchi.
50 Viaggio nella mia morte
Non posso dire di avere paura della morte.
Spesso me la immagino.
Dato per scontato che è solo un momento di passaggio, direi
che quasi non vedo l’ora di vedere cosa c’è dall’altra parte.
In un qualche modo io lo intendo sempre come un tonare a
casa.
Allo stesso tempo mi fa una gran paura la modalità di
passaggio.
Non solo perché le ho viste e osservate da vicino, quando
toccò ai miei cari.
Ma anche a me è capitato alcune volte di sentirmi “sul
baratro del grande risucchio”.
Si, lo descriverei proprio così.
Una idrovora che ti aspira verso l’imbocco del tunnel.
Un raggio traente di fantascientifica memoria.
Non posso dire di essere mai arrivato alla luce bianca in
fondo al tunnel.
Quella la immagino proprio come la grande anima a cui
riunirsi in una infinita perfezione di unità.
Di pensiero, di percezioni, di sensazioni, di tutto.
Ma in compenso mi è capitato di sentire che ci stavo andando
e ci ero molto vicino.
Ecco.
“L’intertempo di switch” quindi mi fa paura.
Il Grande Mancamento, lo potremmo chiamare.
Quello è “tanta roba”.
Mi sono anche dato una spiegazione matematica.
Che è quella per cui non condivido l’eutanasia, mentre sono ovviamente
d’accordo con le terapie del dolore.
La spiegazione matematica secondo me è molto bella, e
funziona come segue.
Appena nato, ho tutta la vita davanti a me e quella diventa
assomigliante ad un limite di esperienza che tende all’infinito.
Ovviamente essendo una esperienza del limite, sarà
asintotica e non diventerà mai infinita, ma il punto è che ci sembra molto
lunga. Diciamo quasi infinita.
In tale proiezione, risulterà ovvio che ogni secondo avrà un
peso relativo molto piccolo, perché sarà rappresentabile come 1/∞.
Questo
è il motivo per cui ci è sempre così difficile cogliere l’attimo fuggente.
Perché
non gli diamo rilevanza quantitativa.
Lo
consideriamo infinitesimale.
In
effetti lo è.
Quando arriviamo
all’ultimo secondo, però, quello lo possiamo rappresentare come 1/1 che sarà =
a 1.
Ovvero
tutto, se vogliamo.
Io lo
chiamo “assolutismo relativistico dell’ultimo secondo del tuo tempo”.
A me
sembra che renda bene l’idea.
E’ per
quello secondo me che si dice che ti passa tutta la vita davanti agli occhi.
Perché
sei nella dimensione del tutto, dove in quello spazio dove sei c’è tutto il
tempo del tuo mondo.
Comunque
tutto questo è per dire che ho avuto una vita che ha dell’incredibile.
Se
dovessi morire adesso sarei contento di rientrare nell’grande anima.
Ma al
tempo stesso ci vorrei andare in modo dolce, senza dolore.
E senza
quella sensazione di resistenza che automaticamente si oppone al Grande
Risucchio.
Quella
è brutta, perché sai già che non puoi vincere.
E così
è una enorme generatrice di frustrazione, e quindi di ansia, che diventa
infinita seppur istantanea.
Io lo
so perché l’ho provata, e sono rimasto di qua anche per circostanze fortuite.
Quindi per
morire direi che non va bene un tumore. Il risucchio dura tanto.
Non va
bene un infarto, perché non dura mai un istante.
Non va
bene nessuna malattia. Il risucchio non solo dura tanto ma è anche
fastidiosamente intermittente. Hai sempre una speranza che ogni tanto si
accende per romperti i coglioni.
Non va
bene un incidente d’auto, perché comunque ti accorgi che stai morendo.
Non va
bene suicidarsi; io non lo ho mai fatto perché è uno spreco di energia. L’unica
certezza che abbiamo è quella di morire. Perché mai dovremmo privarcene?
Eppoi
secondo la mia ex moglie non ce l’ho nei geni.
Forse
non sarebbe male “essere sparato a tradimento”, però anche li c’è un intervallo
temporale.
Andrebbe
bene se servisse a fare da scudo a mia figlia.
L’intervallo
temporale lascerebbe il tempo di pensare che la hai salvata e che sei morto per
una buona ragione.
Ma un
modo che mi intriga, invece c’è.
E’
l’assideramento naturalistico capitato per caso, vale a dire senza essere
chiuso in una cella frigorifera forzatamente.
La
dolce morte, la chiamano.
Per il
freddo di mare, di monti o di qualsiasi altra morfologia.
Ecco,
quella non mi dispiacerebbe.
Mi sono
anche immaginato come un elefante di montagna alpina.
Che
quindi, probabilmente, sarebbe un mammuth.
Mi sono
visto partire a piedi per andare a morire senza dir niente a nessuno.
Mi sono
visto non tornare indietro.
Camminare
ad oltranza, cercando di non pensare al punto di non ritorno, in modo da
superarlo e non potere più tornare indietro per la paura.
E mi
sono immaginato stremato dalla fatica, senza più un briciolo di energia, ma comodamente
sdraiato nella neve con l’ultima sigaretta che si sarebbe spenta insieme a me.
E mi
sono immaginato, sorridendo, le facce di quelli che mi cercavano.
Ho
anche provato un certo compiacimento all’idea che non mi trovassero mai.
E
invece sono ancora qua.
E già
mi vedo che muoio in un letto di ospedale, come tutti.
Dio
mammuth.
51 Viaggio nella musica
La musica, dalla terra arriva al cuore e ti scalda l’anima.
Così canta Pino Daniele.
La musica fa parte della mia vita.
Non sono un musicista.
Non sono un cantante.
Non sono nemmeno un conoscitore.
Semmai un ascoltatore.
La prima volta che la musica entrò nella mia vita ero un
ragazzino.
Fui scelto come voce solista del coro delle voci bianche di
una nota scuola di preti di Roma.
Era un scuola particolare.
Aveva un grande parco con tanto di laghetto delle papere e
conigli allo stato brado. Gli animali non se la passavano esattamente bene con
tanti ragazzini assatanati in giro per il parco.
Ma il punto è che nel grande parco c’era anche l’anfiteatro
in stile greco.
In questo si faceva la recita di fine anno dove io, appunto,
ero il pirla che doveva cantare davanti a centinaia di persone, con dietro il
coro dei miei compagni biancovociati.
Oggi credo che fosse anche un modo per assuefarmi alla
pubblica piazza, che devo dire però che non ha funzionato.
La gente farebbe carte false per apparire.
Invece a me non piace esibirmi.
Mi da sempre l’idea della scimmietta sull’organetto.
O del Burattin Gesù, come dico spesso con un punticina di
sarcasmo.
Come sia sia , la seconda tappa fondamentale del mio viaggio
nella, e colla, musica, è il disperato tentativo di farmi imparare a suonare il
pianoforte.
Devo dire che siamo stati tutti perseveranti.
Mio padre, mia madre e io.
Ci abbiamo provato per dieci anni di tormenti, fino a che un
giorno io ebbi l’illuminazione.
Se dopo dieci anni non riuscivo ancora a suonare a orecchio
nemmeno “Fra martino campanaro”, anche se con gli spartiti me la cavicchiavo,
era l’ora di smettere.
Chiesi quindi a mio padre di farmi un regalo, e di regalare
il pianoforte Schimmel all’istituto per bambini ciechi di Milano.
Lo fece.
A me rimase qualcosa di importante.
L’idea di struttura che c’è dentro ogni musica.
Il come è fatta; il come funziona dell’ingegnere.
Arrivò la fase in cui la musica la dovevo consumare.
Ero adolescente, e come adolescente dovevo averne sempre di
più.
Il periodo durò fino ai 30 anni circa.
Ero sempre alla ricerca della novità.
Ma al tempo stesso più ne assumevo, più mi rendevo conto che
solo poche musiche restavano nel mio cuore e nella mia testa.
Arrivò quindi la fase di selezionatore.
Di tutta la musica che comperavo, perché a quel punto
lavoravo e avevo più disponibilità , cercavo di capire cosa distillare.
Cosa trattenere.
Non mi chiedevo perché trattenere una certa canzone o pezzo.
Non mi chiedevo cosa aveva di diverso dal resto.
Lo cercavo e basta, forse lo aspettavo, come consapevole che
cercare di capire lo avrebbe fatto svanire.
Arrivò la fase della malattia mentale e dei ricoveri.
Fortunatamente avevano inventato i lettori mp3.
E io ascoltavo musica continuamente.
Mi puliva l’anima dalle paure e dall’ansia.
Percepivo che era una questione fisica.
Di onde e di psicoquanti, ma non mi interessava più di
tanto.
Bastava che funzionasse, che mi togliesse l’ansia.
Imparai che faceva anche di più
Imparai che mi svegliava, che spazzava via il sonno dalla
mia testa.
Con il tempo imparai che faceva la stessa funzione con la
stanchezza.
Le vibrazioni giuste ti tenevano in movimento quanto volevi.
Arriviamo così ai giorni nostri.
Ho ricevuto un dono raro.
Oggi riesco ad ascoltar musica e scrivere o lavorare allo
stesso tempo.
Quando da giovane vedevo chi ci riusciva, li invidiavo un
casino.
E oggi invece ci riesco io.
Ragione per cui passo gran parte del tempo con le cuffie
nelle orecchie.
Se devo camminare, ascolto musica.
Se devo lavorare, ascolto musica.
Se devo scrivere, ascolto musica.
Ma a parte tutto questo, la fase terminale di questo viaggio
è stata un’altra.
Oggi non solo ascolto musica continuamente.
Ma ho anche iniziato, qualche anno fa, a cantarla.
In casa.
Nella doccia.
In cucina.
Ma anche quando cammino per strada, spesso mi rendo conto
che canticchio tra me e me.
A volte nemmeno troppo discretamente.
Non me ne accorgo quasi più.
Invece se ne accorgono quelli intorno a me. Li vedo che mi
guardano.
Ma io me ne fotto.
Ho anche il dono di essere intonato, quindi non mi sento
fattore di disturbo.
In fondo gli sto facendo un favore.
Mi rimane solo un retrogusto amaro
Se io canto da solo è perché sono solo, e per quanto mi
senta libero sono comunque in catene.
Quindi mi guardo ogni tanto, e con rispetto per gli schiavi
che stavano oggettivamente male davvero,
mi chiedo:
“che differenza c’è tra me e uno schiavo in un campo di
cotone o con uno che rema su una galera?”
“Non sarà che io credo di cantare per diletto, e invece
canto per dispetto?”
In ogni caso devo osservare che ho iniziato a cantare da solista per il
pubblico di scuola, e mi ritrovo oggi a cantare da solitario per un pubblico
immaginario.
Se non è un ciclo di eterno
ritorno degli opposti questo qua, non so proprio cosa lo sia.
52 Viaggio in bici
I viaggi, ovviamente, non sono tutti uguali.
Una cosa che li differenzia parecchio è il mezzo su cui si
fanno.
Ogni mezzo, infatti, ha dentro di se una diversa visione del
mondo che attraversa.
Ma ha anche diverse conoscenze che lo rendono quello che è.
Che lo fanno funzionare.
E sono più o meno zen. Per me si può definire una graduatoria
a seconda di quanto armonici si sia con lo spazio in cui si viaggia.
A piedi, per me, è “il top dell’armonico”.
Forse c’è anche la barca, è vero. E’ assolutamente armonica,
ma ha una mancanza. Non si fa fatica.
Subito dopo c’è la bici, perché si viaggia nello spazio in
compagnia delle dinamiche di fisica e meccanica.
Poi la moto, che viene dopo perché la produzione di energia
necessaria non è più generata dai muscoli e dalla fatica, ma è delegata ad un
motore. Però si rimane dentro lo spazio da attraversare.
Poi la macchina, che rispetto alla moto chiude fuori il
mondo esterno e ci fa diventare un corpo estraneo.
Poi il treno che oltre a quello che fa la macchina, ci priva
già in partenza di ogni idea di libertà, non solo perché non lo guido, ma anche
perché va dritto da un punto ad un altro senza possibili altre opzioni, nemmeno
ideative.
Infine l’aereo, che non solo fa come il treno, ma ci rende
completamente avulsi dallo spazio e da tutto, proiettandoci in una dimensione
fantastica: quella delle sardine inscatolate volanti.
Ricordate Lo
Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta ? L’autore viene
definito ideatore della metafisica della qualità. Bel termine.
In ogni caso scrisse anche un secondo libro, secondo me
folgorante. Lila ,
che in sanscrito vuol dire “il gioco del mondo”. Anche questo si svolgeva in un
viaggio. Ma del resto la “letteratura del viaggiare” è piena di capolavori.
Ma torniamo a noi.
Subito dopo i viaggi a piedi, per coerenza epistemologica
dell’empiristica meccanica, ho detto che io ci metto la bicicletta.
La coerenza epistemologica dell’empiristica, meccanica o no,
in realtà non esiste.
Me la sono inventata sul momento.
Anche se a posteriori, mi rendo conto che se non esiste
forse la si dovrebbe inventare.
Quello che mi affascina della bicicletta, è innanzitutto il
fatto che usa la ruota.
E se ci vai sopra, senza fette di salame tutto intorno al
cervello, il portento della ruota lo riesci a sentire.
Sempre impegnata a girare, spinta da un volano e mantenuta diritta da un esercizio di
leve e di forze.
Qua c’è una bella fetta di episteme di meccanica e di
fisica.
Ma oggi noi diamo tutto per scontato.
Cosicché perdiamo il significato valoriale delle cose.
Ecco a cosa serve la Metafisica
della qualità .
Ecco perché quando lessi Pirsig ne restai folgorato.
Tornando alla invenzione della ruota, dobbiamo dire che inventare
lo stuzzicadenti non è la stessa cosa di inventare la ruota.
Oggi ci insegnano che ad un certo punto qualche umano la
inventò.
Bravi. Bene. Ma chi fu, esattamente ?
Quale fu il giorno esatto che Mr. Wheel la riuscì a
concepire ?
E come fece ?
E la brevettò ?
E se non lo fece, perché non lo fece ?
Pensate sia una domanda stupida ?
Se lo pensate è solo perché conoscete già la risposta :
perché non esisteva il diritto di brevetto.
Riguardo al quale possiamo però fare ripartire il ciclo,
capendo come funziona l’interconnessione conoscitiva spazio-temporale.
Il diritto di brevetto, quando si inventò ?
Ma chi lo fece, esattamente ?
Quale fu il giorno esatto che fu concepito ?
E come fecero ?
E così potremmo inseguire la conoscenza indietro nel tempo
in infiniti sentieri, o linee cognitive temporali, chiedendoci ad ogni
passaggio come sarebbe il mondo che oggi è se quel passaggio non fosse stato.
Tornando alla ruota, meno male che chi la inventò lo fece troppo
presto perché qualcuno o lui stesso si appropriasse dell’idea per sempre.
Meno male che non esisteva ancora il brevetto
internazionale.
Ma in ogni caso credete sia facile ?
Fu un evento che dovette avere dell’ incredibile.
Mi immagino tutta la collettività che lo prendeva per pazzo.
O che lo scherniva, dicendo “dobbiamo andare a caccia. Non
ci rompere i coglioni. Tu gioca pure con il tuo cerchio ruzzolante”.
Ma lui sapeva, e non poteva fare a meno di cercare di
convertire tutti al nuovo.
La ruota era roba troppo grossa!
Dovevano capire !
Ma non capirono.
E lui morì incompreso, mentre le ruote iniziavano a
prepararsi a girare per sempre.
Ho visto di recente un film sulla storia di Ipazia, filosofa, matematica e
astrologa in Alessandria d’Egitto.
Prima del film non sapevo nemmeno della sua esistenza.
E invece le dobbiamo attribuire una scoperta incredibile e
rivoluzionaria, ancora oggi fondamentale.
Ebbe una vita incredibile, sempre alla ricerca delle idee
assolute, della verità.
E finì male. Cito wikipedia.
Rappresentante della filosofia neo-platonica pagana, la sua
uccisione da parte di una folla di cristiani in tumulto, per alcuni autori
composta di monaci detti parabolani, l'ha resa una «Martire del paganesimo» e
della libertà di pensiero.
La scoperta che fece fu che la terra orbitava attorno al
sole in orbite ellittiche e non rotonde.
Se vi sembra poco, pensate alla moderna astronomia.
Ma non è questo il punto che volevo centrare.
Il punto è che la scoperta le richiese 30 anni di
speculazioni, tentativi, battaglie e tormenti.
Lei sapeva.
L’idea la pervadeva, lei era neoplatonica, e lei la sentiva.
Ma non la riusciva a vedere.
Finchè un giorno l’idea si rivelò, come spesso accade per
caso, mentre armeggiava con un astrolabio
di sabbia, palle, paletti e funicelle.
Ecco. Tutto questo è quello che penso quando vado in
bicicletta.
E se vi sembra poco, fatevi un giro anche voi.
Se riuscirete a fondervi in armonia con il mezzo, con la sua
storia, con il suo “come funziona”, con lo spazio che vi fa attraversare, e con
quant’altro vi pare, vedrete tutto quanto con altri occhi.
Se sarete fortunati, con i soliti agognati rinverginiti
occhi di bambino.
53 Viaggio a piedi
Il viaggio a piedi ha un suo fascino zen.
Al ritmo di tarso metatarso il respiro si sincronizza e si
diventa armonici con il contesto.
Ovviamente il grado di armonia dipende anche dal contesto.
A volte può anche capitare che si diventi si tutt’uno con il
contesto, ma poi ci si renda conto che è
un contesto diverso da quello che volevamo.
A volte è cattivo, seppur non per cattiveria maligna.
E’ che è proprio così. Duro.
E allora ci si può rendere conto che con quel posto siamo
tutt’uno. Si.
Ma quello “fa” paura.
Nel senso letterale: ci trasmette paura.
Ce la crea.
Si dice che la paura sia una nostra scelta interiore.
E che sia una nostra esternazione esteriore.
E che in qualche modo, quindi, non esista al di fuori di
noi.
Si, ‘sto cazzo.
Io conosco almeno un posto che di paura me ne ha fatta
proprio una bella iniezione.
E non c’è stato nulla da fare.
Nonostante tutti gli esercizi e gli sforzi, non la ho
cacciata e devo essere contento di essere tornato indietro.
Il posto è un sentiero di montagna di Crans-Montana che si
chiama Bisse
du Ro
Le Bisse, bisce, sono antiche canalizzazioni che servivano a
portare acqua ai pascoli e alle mucche.
Questa è scavata nella roccia, lungo un costone a strapiombo
di parecchie centinaia di metri.
E’ lunga. Quasi 4 chilometri.
E quando la inizi non vedi l’ora che finisca.
Ma sai già che quell’ora è lontana.
E più ci pensi più si allontana.
Ci sono tanti ponticelli fatti di una o due assi di legno e
sospesi nel nulla.
In alcuni punti c’è spazio per una persona sola, per cui si
deve indietreggiare se incontri qualcuno. E non è un bell’esercizio.
Più vai avanti più peggiora. In più, non arrivi mai ad un
punto in cui dire “finalmente il brutto è passato”.
E più strada fai in salita, più ti continua a rimbalzare in
mente che la dovrai fare anche al ritorno.
Stessi ponticelli, stessi dirupi, stesse rocce a strapiombo.
Un inferno. Almeno per me.
Fu in quel posto che mi resi conto di soffrire di vertigini.
La vertigine è voglia di volare e non paura di cadere, si
dice.
Per me diventò voglia di volare per smettere di avere paura
di cadere.
Un po’ perverso, mi
rendo conto.
Ma rende bene l’idea.
Comunque in qualche modo, riuscii a frenare i miei istinti
di appropriazione dell’elemento aria, e continuai a camminare accontentandomi
della terra.
Arriviamo al nocciolo.
Quando parti, sai che è dura perché te ne hanno parlato.
Ma tu sei saldo nei tuoi principi e ti dici che saprai
controllare la paura.
Con una cosa non hai fatto il conto.
La paura di un ponte sospeso sul vuoto, cambia rilevanza o
misura a seconda di quante volte la provi.
Vale a dire che la paura del primo ponte si manifesta quando
ci arrivi,
Ma dopo che lo hai passato, inizia la paura del secondo
ponte corroborata dal ricordo di quella del primo.
La paura del terzo ponte, si aggiunge al ricordo della paura
dei primi due. E così via.
In tal modo, accumuli una costante vibrazione che si fa sempre
più pesante.
Si dice che si arrivi ad un certo punto in cui ci si è
assuefatti e la si controlla.
Io non ci sono mai arrivato.
Anzi ad un certo punto, mi trovo davanti all’ennesimo ponte
e mi scatta qualcosa in testa.
Un pensiero semplice, del tipo di “ma chi cazzo te lo fa
fare? Torna indietro”.
Mi resisto un po’, dandomi del pusillanime.
Finalmente, all’ennesimo sguardo al dirupo dritto a
strapiombo sotto i miei piedi, decido : “Ma vaffanculo! Certo che torno
indietro”.
Mi volto guardingo e ho un’orrida visione.
Eì il ponte di prima, facciamo finta il ponte 10. Quindi, diciamo
carico di paura 10 alla 10 volte.
Lo avevo attraversato per miracolo, quasi a quattro zampe.
Mi riaffiora non solo la paura di quando l’ho attraversato,
ma anche ogni singolo pensiero che mi era passato per la testa.
E mi dico che non ce la farò mai. Il fragile equilibrio è
rotto. La paura mi possiede d’incanto.
Riguardo avanti : impossibile.
Riguardo indietro : impossibile.
Riguardo in alto : un muro.
Riguardo in basso : lo stesso muro.
Sono inchiodato su 30 centimetri di roccia, senza nessuna
speranza se non quella di provare a volare.
Passano i minuti e io non riesco ne a muovermi ne a pensare,
ne ancora peggio a controllare la paura.
Ho il respiro affannato.
Mi girano pure i coglioni, sia per essermi cacciato in
quella situazione, sia per non riuscire a controllarmi.
Finché ad un certo punto l’anima del mondo mi viene in
soccorso.
Ho la schiena appoggiata appiattita alla roccia.
La sento.
Piano piano mi giro.
Allargo le braccia e le appoggio alla roccia.
Resto li come se fossi crocifisso alla parete.
E inizio a sussurrare alla montagna : “per favore aiutami
tu”.
La montagna mi ascolta.
Mi vibra dentro.
Finalmente inizio a sentire del solido.
La sensazione di solido prende piano piano il posto di
quella del vuoto.
Il respiro si regolarizza.
Dopo un quarto d’ora decido di controllare, e mi accorgo che
la montagna mi ha solidificato abbastanza.
Ringrazio la montagna e le dico: “adesso mi giro. Non mi
abbandonare”.
Lei non mi abbandona.
Il respiro è quasi normale.
Penso di potercela fare.
Faccio una carezza alla montagna.
Le porgo un bacio sul palmo della mia mano.
Lei mi sorride silenziosa e mi dice : “vai a casa, Claudio”.
54 Viaggio in auto
Viaggiando in auto si muore.
Ma non come pensate.
Non necessariamente nel traffico o in un incidente classico.
In auto si può morire nel tempo.
E tornare indietro.
Stiamo viaggiando in autostrada.
D’un tratto davanti a noi si vede qualcosa di strano.
E’ una grossa massa grigiastra che ci viene incontro in
apparenza “leggiadra”.
Ha uno strano moto, infatti.
Sembra leggera, ma non vola. Rimbalza.
Sarà grande come un cubo da due metri per ognuno dei tre
lati.
E rimbalza, rimbalza, rimbalza.
La scena è gorttesca.
Ogni volta che tocca terra si rimette in volo con una
traiettoria a parabola irregolare.
Una volta rimbalza un po’ più a destra, una un po’ più a
sinistra.
E intanto si avvicina.
O forse ci avviciniamo noi.
O forse tutti e due.
Lei rimbalza indietro, noi corriamo avanti.
Lo spazio tra noi si riduce mano a mano.
Fino a che: “Bang”.
La “cosa” rimbalza giusto sul cofano della nostra macchina
che si impenna e si inclina tutta su di un lato.
Sembriamo una macchina di stunters.
Non so come non ci cappottiamo in avanti.
Non ci ribaltiamo sul tetto.
Nessuno ci tampona.
Noi non sbattiamo contro nessuno.
Per miracolo riusciamo addirittura a fermarci in corsia di
emergenza.
E’ impossibile.
Quindi è impossibile che noi siamo ancora vivi.
Dura tutto pochi secondi.
Ma in quei pochi secondi il tempo si ferma.
La paura sgorga solo dopo che ci siamo fermati anche noi.
Durante l’esperienza di premorte tu ti accorgi di tutto, ma
è come se lo facessi già dall’esterno di te stesso, in un dimensione di spazio-tempo
desueta.
La “cosa” si è fermata dietro di noi. Provi a toccarla per
vedere se si muove. Ma è impossibile
Il cofano della macchina è una sottiletta.
E tu capisci che è perché la “cosa” è pesantissima.
E’ una balla di caucciù. Un camion la ha persa per strada.
Un’altra volta sto guidando sul passo del Sempione.
Sono su un auto 4 per 4.
Ho le gomme da neve.
Ad un tratto non so come la macchina parte per una
immaginaria tangente.
Faccio un testacoda completo.
360 gradi.
E senza che la macchina si fermi, si rimette in direzione di
marcia perfettamente allineata alla corsia in cui camminavamo.
A sinistra, a 3 metri da noi, c’è la montagna.
A destra, ancora più vicino, lo strapiombo.
E’ statisticamente impossibile che siamo rimasti in
carreggiata.
Anzi, lascerò stare la statistica.
E’ impossibile e basta.
Quindi, non è possibile che io sia ancora vivo.
A conferma, passa qualche secondo e mi accorgo che il
respiro si era fermato.
E mi accorgo che tutta la scena mi si è era scolpita in
mente in una dimensione temporale statica.
Racconto di questi due casi per quanto segue.
In entrambi i casi il tempo ha cessato di esistere.
Non è vero che ti passa davanti tutta la vita in un secondo.
E’ proprio che quel secondo non c’è.
Il tempo è fermo.
E lo hai fermato tu.
Non è che la vita ti passa davanti in un secondo, è che tu
ci sei completamente dentro.
I tuoi sensi, e la tua percezione, si sono talmente dilatati
che tu assorbi istantaneamente tutto quello che succede.
Sei un tutt’uno con il tempo e con lo spazio.
Credo che c’entri il famoso continuum.
Credo che in qualche modo il tuo cervello lo fermi.
Lo incapsuli.
E che restiamo sospesi in una specie di bolla.
In entrambi i casi, secondo me sono morto davvero.
E’ stata una specie di premorte corredata da postmorte, non
so bene come spiegarla.
Ma poi sono tornato indietro di un pezzetto, sempre dentro
alla bolla, e ho imboccato una linea temporale diversa.
Infine, se pensiamo alla probabilità di eventi del genere,
come può non venirci in mente la lunga mano dell’anima del mondo che ci voleva
dire qualcosa ?
Blaise Pascal scommetteva sull’esistenza di Dio in base al
calcolo di probabilità.
Lo cito sempre.
Ho sempre pensato che fosse riduttivo.
Ma se circostanzio l’affermazione ad eventi impossibili come
quelli che ho appena raccontato, come si fa a dargli torto ?
55 Viaggio nel monolocale dell’eden
Io del contatto con la natura ho bisogno.
Quando non ce l’ho mi sento vuoto, mi manca l’aria,
l’energia.
Quel che è peggio è che mi sento umano.
Non sono più aria, non sono acqua, non sono piante, non sono
animali.
Non posso più volare.
Non sono più creato.
Solo creatura.
Così quando dopo vari tentativi di trasferirmi in campagna
sono stato costretto a tornare a Milano, mi sono sentito morire.
Fortunatamente ci ha pensato il Signore, che mosso a
compassione ha fatto in modo di mettermi a vivere nella casa dove vivo adesso.
C’è un piccolo giardinetto. Una cinquantina di metri quadri.
Un monolocale dell’eden.
Che io guardo come se fosse tutto il mondo.
In realtà, siccome io so guardare, c’è davvero tutto il
mondo dentro.
Piante di ogni sorta, o almeno di tanta sorta, che a me
piacciono tanto anche per la loro perfetta efficienza biologica.
Sono loro i veri alchimisti.
Trasformano l’aria e la terra in legno.
L’acqua e la luce in foglie.
E mentre lo fanno, si configurano in infinite varietà.
Ci sono le rose rampicanti con le quali siamo sempre in
guerra contro gli afidi.
C’è la magnolia che mi chiede costantemente zolfo contro i
suoi funghi.
C’è l’ulivo che un giorno sarà secolare, anche se oggi non
lo sa.
C’è un grande ibisco viola, di una specie che resiste al
freddo che c’era un tempo a Milano, e che mi ricorda l’Africa o i tropici.
C’è un origano transgenico che striscia ovunque.
Ci sono le piante di erica e azalea che ho salvato dai
cassonetti dei cimiteri, dove la gente le butta via ancora vive per comperarne
di nuove, vive, in omaggio ai loro morti. Per poi ucciderle a loro volta in un
cassonetto.
C’è la zona in ombra dove in primavera vanno in
villeggiatura le orchidee e l’albero-casa bonsai.
Ci sono rincospermum ovunque tutto intorno, quelli che
chiamano comunemente falsi gelsomini e che io consolo sempre dicendogli di non
restarci male quando li chiamano falsi. Loro sono sempreverdi, resistono al
freddo e profumano un sacco. Altro che veri gelsomini, questi si che sono
sfigati.
C’è una anaconda di mattoni di tufo ricoperta di muschi.
C’è una micro collinetta di terra di riporto, a forma di
testa di rana.
Ci sono licheni tappezzanti che sostituiscono il prato.
Ci sono erbette mai viste che tappezzano porzioni di terra
in una partita a scacchi con i licheni.
A volte viene a trovarci una capinera. Si fa il bagno in un
piatto che lascio pieno di acqua per fare bere gli uccellini. Lei non si
accontenta, e ci si fa tutto il bagno.
C’è la coppia di merli che viene a mangiare la gran quantità
di lombrichi che produco inconsapevolmente.
Ci sono lumache a fottere.
E formiche a strafottere.
Insomma per uno che sa guardare, ce ne è in abbondanza. O
forse meglio: c’è abbondanza.
Il microcosmo del mio giardino è pieno di vita.
Così tanta roba, in così poco spazio.
La potremmo chiamare biodiversità.
Ma a me piace chiamarla miodiversità.
56 Viaggio nella mia testa
Dicono che io sia malato di testa, e così mi imbottiscono di
psicofarmaci. Le medicine, bella merda.
Li chiamino come vogliono, la realtà è che sono sedativi.
Rallentano trasmissioni nervose e metabolismo.
A parte il rimbambimento generale, mi hanno regalato pure un
pancia planetaria.
Vorrei fargliela vedere da dentro, la mia testa.
Nella mia testa mi ci potrei perdere.
Viaggiando di opposto in opposto. E in opposto di opposto.
O di altro in altro. Riconoscendomi altro.
Posso viaggiarci dentro. Ma anche fuori.
Posso viaggiarci nello spazio.
E posso viaggiarci anche nel tempo.
Poi ci sono gli ibridi.
Posso viaggiarci dentro e nello spazio.
Posso viaggiarci nel tempo, ma fuori. E così via.
Ma posso anche viaggiare di tema in tema, capitolo in
capitolo.
E connettere così un fatto di Secondigliano con un ricordo
di Guatemala City.
E nella mia testa, questo continuo svolazzare di
svolazzamento in svolazzamento, deve produrre omogeneizzazione di conoscenza.
E’ un continuo sistema di vasi comunicanti, che comunicano
psicoquanti.
Tanti quanti sono i quanti.
Un borghese potrà imparare che Secondigliano non è
peligrosa.
Un barriota imparerà che a Secondigliano si pagano le tombe.
Un milanese imparerà la dieta dei margini di Puerto Barrios.
Un romano imparerà elementi di Magna Grecia.
Un inglese gli insegnerà a decadere con classe, senza essere
decadente.
Un corso insegnerà l’orgoglio a un vassallo italiano.
Un sardo annuirà compiaciuto.
Un imperato di Martinica, insegnerà ad un colono schiavista
di Zanzibar.
Un negro di double decker londinese, insegnerà ad un
appropriatore monferrino. E così via.
Messa così, si va addirittura oltre la scrittura algoritmica.
Quella con tanti a capo e una chiosa finale.
Si, la chiamo così perché credo di avere capito la modalità
di scrittura che uso.
Un algoritmo
è un procedimento che risolve un determinato problema in un certo numero di
passaggi.
Nella mia idea, ogni scritto è fatto da una serie di
passaggi ognuno dei quali è traducibile in una espressione.
Alla fine, la somma delle espressioni restituisce un
risultato, che è la chiosa o altra figura di sintesi.
Ma qui andiamo oltre. Se ogni paragrafo è un algoritmo, la
somma di tutti i paragrafi è un sistema.
Qua mi fermo. Non ho abbastanza conoscenze matematiche.
Ma vorrei dire che il sistema di algoritmi mi da l’idea di
rispondere alle proprietà dei vasi comunicanti.
Un giorno sarà tutto riconnesso e interconnesso.
Tutto sarà giunto, perché ricongiunto.
Fatelo tutti.
E infine quando tutto sarà ricongiunto, saremmo nella
civiltà dell’intelletto.
E ripensando alla Grande Riconnessione, potremmo dire: “io
c’ero”.
57 Viaggio in questo libro
Sono finiti gli opposti e anche gli altri.
Il viaggio nella mia testa e il viaggio in questo libro sono
la stessa cosa.
E ora il viaggio è durato abbastanza.
Il viaggio che
veramente si rispetti è quello che ci rapisce l’anima.
Ma poi arriva un momento in cui viene voglia di tornare a
casa.
Credo di avere dato abbastanza spunti.
Adesso mi piacerebbe che qualcuno continuasse su questo
sentiero.
Cercando con lo sguardo del rapace ogni minimo segno di
pace.
Imparando come funziona quello che si sta guardando, in modo
da cogliere ogni bagliore di anima del mondo.
Si coglierà, perché sarà diverso dal come dovrebbe
funzionare il contesto in cui si manifesta.
E allora ripeto quanto già detto.
Quando coglierete i bagliori divini, saprete che non siete
soli.
Voglio aggiungere che in questo libro non c’è un ordine
“cronologico” preciso e nemmeno “logico”.
Ho scritto i singoli paragrafi nell’ordine in cui mi si
presentavano.
E questo mi sembrava casuale
In realtà se li scorro, mi accorgo che un ordine c’è.
E ci sono alcuni blocchi concettuali.
Ma il bello credo che sia proprio crearsi il proprio ordine
a piacimento.
Ogni paragrafetto “nasce, cresce e muore” esattamente come
fa la nostra biologia.
In tal senso, vedete, sono vivi anche essi.
Insomma, per concludere davvero, mi piacerebbe che chi legge
impari a riconoscere quali altri siano uguali e quali opposti non siano
lontani.
E li ricongiunga.
58 Viaggio nella mia vita
Un giorno sto parlando con uno psicologo.
Cerco di spiegare la mia visione del mondo, o almeno parte
di essa.
Sono particolarmente concentrato su due punti.
- Unitarietà del tutto, che in termini di scienza della complessità possiamo anche chiamare interconnessione spazio-temporale globale.
- Tutto è vivo indipendentemente dalla vita delle sue singole componenti.
Sono due miei cavalli di battaglia.
Se uno li percepisce, ecco che ogni frattura che esiste a
questo mondo cessa di avere senso.
“Ho capito”, mi fa lui.
“Troppe occorrenze per essere coincidenze.”
“Vediamo se il ragionamento fila.”
“Tu dici che anche questa maniglia è viva nella misura in
cui è fatta per farmi fare qualcosa.”
“Essendo io vivo, allora lo è anche lei.”
Lo guardo sbalordito: mi sa che ha capito.
Ma va anche oltre e mi fa “quindi se io voglio che questa
maniglia mi voglia bene e che si prepari a ricevermi diffondendo vibrazioni
positive quando la userò, dovrei accarezzarla spesso anche nei giorni in cui
non la uso.”
Messa così sembrava un delirio, ma poi lo psicologo
aggiunge: “insomma, se io le voglio bene e glielo dimostro lei me ne rivorrà
indietro quando la userò”.
“E quel nostro gesto sarà sintonizzato sulla frequenza
armonica dell’amore e così facendo ne aumenterà la risonanza.”
Perfetto.
Era il mio primo discepolo, almeno del quale io fossi
consapevole.
Mi viene in mente una mia cugina quasi coetanea di Napoli.
Quando eravamo piccoli, qualsiasi cosa facessimo, lei mi
diceva : “l’amore Clau, ci devi mettere l’amore”.
Comunque, d’un tratto allo psicologo dico che quel mio modo
di vedere il mondo è qualcosa che vorrei spiegare a tutti.
E forse che dovrei spiegare.
Forse è “quello che devo fare.”
Gli dico, che mi è già capitato in vita mia.
Ci sono dei momenti in cui sono in preda ad un irrefrenabile
bisogno di spiegare, di cercare di fare capire.
E’ come se io sapessi che c’è qualcosa che gli altri devono
sapere, per forza.
E mi è capitato anche di trovarmi a predicare.
In alcune circostanze anche in veste messianica, intendendo
proprio veste, senza metafore.
Ci sono state occasioni in cui andavo a parlare alla gente
tutto di bianco vestito.
Anche a gente al margine della società. Puttane,
spacciatori.
Ma non ci andavo per fare la morale.
Ci andavo “da ingegnere” volevo capire come funzionava il
loro mondo, e intanto nella mia testa davo loro un contatto umano diverso da
quelli meccanici dei loro clienti.
Immaginatevi di notte uno vestito tutto di bianco, con uno
zainetto arancione da cui tirava fuori bicchieri colorati e una bottiglia di
vino bianco, si sedeva per terra offrendo vino a tutti e diceva : “adesso
parliamo”.
Eppure in alcuni casi secondo me ha funzionato, sia per me
che per loro. In alcuni casi un contatto lo abbiamo creato davvero.
Comunque, guardo lo psicologo e dico “sai, certe volte penso
proprio che dovrei predicare. Mi viene bene”.
E lui mi fa : “ma è
ovvio. Certo che devi predicare”.
Ecco, quando scrivo e poi posto in internet quello che
scrivo lo faccio per questo.
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