venerdì 7 marzo 2014

Estate 2013 - Clofrenì (Claufrenie). L'obligatoire. Memorie Bipolari di Claudio Aroldi



CLOFRENÌ
(CLAUFRENÌE)
L’OBLIGATOIRE
COPYLEFT : MM
MEMOIRES BIPOLAIRES
POUR TOUS AMÉLIORER

ESTATE 2013
Titoli
1 Premessa
2 Frenosofia. Il cervello che non si ferma
3 Ho viaggiato nel vento bipolare
4 Psikescalation - Prescrizioni Restrizioni Costrizioni
5 Proesia in rima – TSO
6 Manico Mio
7 Paranoia
8 Parabola iperbolica
9 Cibo per la mente Nada
10 Cocaina. Sembra che non faccia niente
11 Fantasia blu
12 Comunità
13 L’energia del mondo
14 Terremoto
15 Arcobaleno
16 Rivelazioni in quota
17 Inquisizione
18 Sacro fuoco
19 Er feticcetto rustico e la Scrofa pescatora
20 Ecchilo !
21 O ciucciariello 'e fichella
22 Si chiudano i cerchi !
23 Buropazzia
24 Epilogo Generale

PREMESSA 
Struttura
Più che una premessa, quella che segue è una specie di carrello della spesa, riempito di quello che
mi pare possa servire a chi legge per inquadrare ogni racconto dentro lo schema generale che
cercherò di esplicitare qui di seguito.
Schematizzare quello di cui vorrei parlare non è cosa semplice.
Si spazia da modalità di pensiero che ritengo peculiari, ad uso di stupefacenti, a comportamenti
specifici come ad esempio il continuo bisogno di cambiare lavoro, a crisi maniacali, a deliri, a
creazioni, a contenzioni.
Il tutto apparentemente scollegato. Sembrano tutti singoli episodi.
Ma in realtà sono tutti generati da una cosa specifica : da me, che nelle mie specificità sono però
uguale ad altre persone che forse non hanno avuto la fortuna di elaborare, come ho potuto fare io, il
loro modo di essere, di accettarlo, e addirittura di esserne grato in quanto dono di Dio .
Anche questo è un privilegio, tale per cui ritengo di essere in dovere di “spiegare” cosa è mi è
successo con la speranza che quello che scrivo possa servire a qualcuno.
E’ importante capire che i momenti apicali, quelli che fanno più paura o compassione, sono quelli
legati alle fasi maniacali del disturbo bipolare. L’ospedale psichiatrico, le contenzioni.
Ma questo “disturbo” ha anche una connotazione genetica, e questa connotazione determina anche
gli altri eventi o esperienze descritti.
Il bipolare, nella sua accezione comune, quindi è solo uno degli aspetti.
Solo nella visione di insieme si può capire questo tipo di personalità.

Letterarietà
Sto per cercare un verso esatto di una canzone di V.Capossela da copiare perché molto più efficace
di qualsiasi cosa finora escogitata. Un big, ovviamente. E penso con invidia al fatto che nei versi di
ogni sua canzone, un po’ come per altri grandi tipo Conte o Daniele old style, non una parola è
sprecata, tutte hanno il loro ruolo. Ma non tanto per una questione di metrica, che pure aiuta, quanto
per una questione, credo, di estrema lucidità di percezione circa ciò che si vuole dire; così che le
parole sono quasi superflue o comunque ne bastano poche.
Mi ripeto che è chiaro, che sono canzoni, che per altre forme espressive è diverso (il romanzo, ad
esempio). Poi di colpo mi emergono in testa i film di Kubrick: non una parola, non una nota, non
un’immagine sono sprecate ed ecco che la mia teoria va a farsi sfottere.
Probabilmente era strumentale. La teoria. Strumentale al fatto che sento spesso un uccellino che
svolazzando nel mio cervello mi dice che sto scrivendo porcherie.
Ma anche qui mi viene in soccorso la classica immagine dello scrittore o del pittore o del musicista
mai soddisfatti della propria opera.
Solo che poi mi chiedo: “ma sarà davvero così, o piuttosto questa è l’immagine che si da l’autore ?
Quindi con queste riflessioni in mano, indeciso se metterle nel carrello della spesa o meno, mi
accingo a proseguire nella mia attività.
Si perché questo è il bello: che siano porcherie o meno lo potrò sapere solo alla fine.
Quindi tanto vale continuare.
L’impresa letteraria: consolante e rassicurante.

Autobiograficità
Ammettendo che qualcuno legga questi scritti, la domanda che si porrà è se si tratti davvero di una
autobiografia, celata o meno.
Come spesso si legge nelle prefazioni in genere, dove stuoli di commentatori, critici e autori stessi
disquisiscono sull’autobiograficità dell’opera in esame.
Senza mai arrivare al punto di riconoscere l’unica verità e cioè che qualsiasi opera è autobiografica
se non altro nel senso che il pensiero, il tono, l’impostazione nascono dall’esperienza e dalla
struttura di pensiero di chi scrive.
Per quanto ci riguarda più da vicino, si osserva dunque che esistono vari livelli di autobiograficità e
le pagine che seguono sono evidentemente in cima a questa scala di valori.
Vale a dire che oltre ad essere influenzate dall’esperienza e dalla struttura di pensiero di me che
scrivo, trattano di precisi periodi o episodi della mia esistenza.
Chiaramente l’autobiograficità in genere facilita il compito di chi scrive.
Ma il succo è che si, è tutto vero.

Linearità
Cerco di impormi un modo di scrittura il più semplice e lineare possibile. Senza fronzoli. Perché
mal sopporto quegli autori che godono a sbrodolarmi in faccia la loro capacità di scrivere. Insomma
odio il tecnicismo, che d’altra parte non potrei neppure dire di possedere.
Ma so già che è una battaglia persa in partenza. Perché non mi è proprio, perché non è proprio della
scrittura in sé e perché non è proprio degli argomenti e temi trattati.
Se si parte dal presupposto che secondo me la scrittura non è una forma espressiva di per sé, ma
piuttosto una formalizzazione di forme di pensiero, ecco che l’efficacia sta nel seguire le stesse
forme di pensiero il più fedelmente possibile.
Ma mi è molto difficile linearizzare il pensiero frattale circolare.
Se non altro per una questione di velocità relativa.
In parole povere se l’essere umano ha la capacità di percepire e raziocinare, già la parola è uno
strumento di trasmissione di percezioni e raziocinio poco efficiente, figuriamoci la scrittura che si
affida ad un inefficientissimo mezzo meccanico fatto di dita e strumenti vari.
E figuriamoci poi se questo mezzo meccanico deve confrontarsi con la velocità della luce di certi
momenti di questo pensiero frattale circolare.

Memorie
Ricevo un libro. Da una cugina del settore. Un romanzo metropolitano di tale Genna. Leggo la
controcopertina e la struttura mi pare familiare. Il retro spiega tutto: è un ex Blisset, quelli di Q.
Straordinari anche a prescindere da Q.
Casualmente ancora lo ricordo, Q, e mi metto a svolazzare con il pensiero su riforma e
controriforma, su Mattei e Kissinger, su tutto ciò che ho letto in vita mia. Poi capisco ciò che mi ha
strabiliato di Q, oltre alla fantastica ricostruzione.
Due personaggi che si fronteggiano lungo i decenni. Opposti ma uguali, dediti ma distaccati. Due
facce della stessa medaglia. Come credo sia sempre. Forse come credo che debba essere sempre.
La storia quindi, altro non è mi è sembrata che una personificazione cinquecentesca dell’unità di
Ying e Yang. Il Tao della riforma. Il presunto cinismo citato in controcopertina altro non è che la
presa di coscienza di due parti che scoprono lentamente la propria equipollenza in relazione ad una
loro sottomissione ad un disegno più grande.
Il problema è un altro. Che queste riflessioni, giuste o sbagliate che siano credo che abbiano lo
stesso valore proprio in quanto riflessioni, si basano su una serie di conoscenze di cui non vi è più in
me alcuna traccia cosciente.

Vale a dire che Q sta scomparendo dalle mie reminiscenze, appunto, il tao te ching ce lo siamo
giocato, Pirsig è un’ombra lontana, cos’altro….. Non so, non ricordo.
Il succo è che in quasi 50 anni per diletto o per obblighi, ho letto abbastanza salvo il fatto che
sembra tutto scomparso. E invidio molto non solo chi riesce a ricordare in assoluto, ma anche solo
a ricordare dove cercare.
Io confido sempre di avere sviluppato una sorta di memoria molecolare o cellulare, tale per cui
l’essenza di quello che ho cercato di imparare si sia annidata dentro qualche mia cellula.
In realtà non confido nemmeno. Lo so.
Ma nel dubbio opto per un forte complesso di inferiorità verso chi riesce ad articolare pensieri
anamnesticamente complessi”.
A me piace molto usare riferimenti di musica leggera, che per qualche ragione mi restano più vivi.
E alcune altre cognizioni, quelle poche che ricordo nella memoria e non solo nelle cellule.

FRENOSOFIA – IL CERVELLO CHE NON SI FERMA
Nota introduttiva
Il cervello, o il pensiero, che non si ferma o come mi piace definirlo, il “pensiero frattale circolare”, è a mio modo di vedere, uno dei sintomi di quella che nelle fasi maniacali del disturbo bipolare, diventa la cosiddetta “insalata di parole”.
Ma più in generale di concatenazioni ideative che possono diventare “estreme” e possono degenerare nel delirio.
Sempre ammettendo che il delirio sia una degenerazione. Sul quale tema si potrebbe disquisire.
Oggi, a posteriori, penso di identificare in esso, i germi di un cervello che funzione diversamente. Sempre in continuo movimento e sempre all’esercizio di ricerca del limite.
La sua raffigurazione come frattale significa che è in costante attività di rimbalzo o “testing” dei limiti che lo circondano, in un processo di costante ipotesi, sperimentazione, confutazione.
Questo è il processo che secondo Karl Popper pervade il meccanismo di progresso e apprendimento della scienza.
In qualche modo ritengo quindi che in questo continuo movimento risieda una qualche sorta di capacità di apprendimento costantemente “attivata” che fa si che si apprenda continuamente da qualsiasi cosa o situazione.
E’ naturalmente anche generatore di fantasia. Che si cerca di descrivere con alcuni scritti seguenti.
Ma tenendo bene presente che, come diceva Guccini : “la fantasia può portare male se non si conosce bene come domarla.”

Racconto
Notte.
Nessuna luce, nessun rumore.
Dove sono? Addirittura chi sono?
Passa qualche istante, il buio rimane, per fortuna solo attorno a me.
Nella mia testa inizia a sorgere un’alba nebbiosa, ovattata, irreale, sempre senza rumori. Potrei
essere un naufrago su di un’isola deserta, un pellegrino addormentatosi in un bosco, un cavaliere
errante che sulla via del ritorno al suo castello ha perso la strada.
Idee seducenti, intriganti.
Invece: un movimento. Mille possibilità. Si avvicina, mi sfiora, è un animale.
Un gatto?
Con una velocità degna di un acceleratore di particelle tutto si riorganizza, la nebbia svanisce, il
bosco diventa la mia stanza, io ritorno ad essere Caronte.
Nessun bosco, nessun cavallo, nessun’isola o avventura : sono a letto, è solo un altro attacco
d’insonnia.
Dovrei saperlo, oramai. Se l’apprendimento passasse per il condizionamento come per un cane
addestrato, dovrei riconoscere il comando “sveglia” senza opporre resistenza. Ed invece è la
coscienza che pretende di avere il controllo e non accetta la sconfitta senza controprove tangibili.
San Tommaso fatto neurone.
Occhi sbarrati, mille pensieri, e nessuno che in apparenza valga la pena di essere pensato. Cosa
faccio?
Lei dorme imperturbabile, assolutamente ignara del turbinio di energia cerebrale che si è scatenato
sopra e attorno a lei.
Nel buio le rivolgo un pensiero tra rabbia, invidia e dolce senso di protezione.
Abbastanza ridicolo che possa essere io a pensare di proteggere lei, direbbe chiunque conoscesse la
nostra storia.
Comunque tanto basta a stimolare il mio orgoglio di maschio ed a costringermi ad alzarmi per
portare altrove quel turbinio di energia cerebrale che rischia perlomeno di farle prendere un
raffreddore.
In realtà non sono del tutto onesto.
Devo alzarmi per impedire al turbinio di rientrare nel mio cervello a farmi impazzire.
Se non faccio qualcosa il pensiero rischia di frullarmi quello straccio di struttura che a fatica
cerchiamo di mantenere in piedi.
Per fortuna in casa c’è una tana, contraltare di qui rifugi che una volta cercavo all’esterno, nei
luoghi tempi e modi deviati o devianti il cui ricordo ancora mi colpisce allo stomaco quando ci
penso.
Il mio studio.
Ci vado, accendo la luce. Fin qui, gesti meccanici. Guardo l’orologio aprendo a fatica gli occhi
nell’alba elettrica appena creata.
Questo non è più un gesto meccanico è una sfida che, come ogni mattina da mesi a questa parte,
perdo io: sono le 3.10. Sveglia prima del solito.
C’è qualcosa che devo fare, io lo so, lo sento, ma cosa?
Provo con le notizie finanziarie, le suppongo sempre interessanti, poi quando le leggo mi accorgo
che una sorta di frenesia si impossessa di me: devo finirle al più presto per potere passare ad altro.
Non sono così interessanti come supponevo o meglio, sono sempre quello che ti aspetti. Peccato che
non si possa scommettere sulle notizie del giorno dopo, si vincerebbe sempre. So già che quando le
avrò finite lo stesso senso di vuoto si ripresenterà. Nessun appagamento da raggiungimento di un
fine.
Cerco allora conforto nel canone: forse ho qualcosa da fare per qualche cliente delle mie presunte
capacità consulenziali. In realtà sono capacità piuttosto reali. E’ solo che il canone, inteso come la
via precostituita che l’insieme delle tue esperienze e del tuo essere stato socializzato ti offre, non è
più sufficiente ad arrestare il turbinio. Comunque anche lì, niente. Cerco, guardo, controllo, ma è
già tutto a posto.
La posta elettronica, ecco! Ma chi vuoi che ti scriva alle 3 della notte? Il massimo in cui puoi
sperare è la pubblicità di qualche sito porno. Ma oggi pare che siano a riposo anche quelle.
Cincischio, perdo tempo, giro a vuoto, poi, all’improvviso, un’idea.
Ho deciso, ci provo. Non per ottenere qualcosa, non per la fama, ma solo perché forse è quello che
devo fare.
Provare a imbrigliare nei vincoli della scrittura questo pensiero che non si ferma.
So che c’è un nocciolo, che tutto ruota intorno a qualcosa a cui sembra di avvicinarsi sempre di più
senza però mai vederlo completamente.
E più lasci libero il fluire, più l’accelerazione delle concatenazioni di nessi, più o meno logici , ti ci
porta vicino.
Appena cerchi di imbrigliarlo svanisce. Anche adesso poche righe bastano a renderlo diffidente e
farlo nascondere di nuovo.
Il problema è che è lì, esiste, ma non devi capirlo, puoi solo sentirlo.
Questo è il punto: è possibile scrivere qualcosa che va sentito, o essendo la scrittura un estremo
tentativo dell’uomo di imbrigliare ciò che lo circonda, è un tentativo destinato a fallire ?
Che poi a chi può servire, a chi può interessare, e soprattutto di cosa stiamo parlando?
“Quello che devo fare”, dicono Luther Blisset nel loro capolavoro “Q”. Io lo chiamo senso del
dovere. Da quando così mi definì Antonio: “ tu sei il tuo senso del dovere”, mi disse in una delle
tante occasioni in cui eravamo ubriachi. O forse non lo eravamo ed era una delle poche occasioni di
sobrietà.
Il tema è proprio quello: il pensiero che non si ferma. Perché no? Dove vuole arrivare, cosa vuole
dirmi, e perché?
Forse non ho storie da raccontare, ma è poi così necessario avere delle storie, qualcosa, possedere?
Magari potrebbe bastare raccontare le sensazioni, in fondo sono anch’esse delle storie e forse sono
le più vere, quelle del futuro stadio evolutivo.
Perché ancora non è maturo il tempo in cui riusciremo ad abbandonare, a superare il primordiale
istinto di sopravvivenza trasformatosi in quello del possesso e canonicizzato nel diritto di proprietà.
Questa è la ragione per la quale tutti vogliamo ascoltare delle storie, per appropriarci di una parte di
qualcosa.
Nel profondo della nostra coscienza desideriamo sempre di più per paura di non averne più in
granaio nei tempi di carestia. La paura del vuoto. Anch’essa primordiale, sempre la stessa storia,
sempre la stessa domanda: perché siamo qui?
La civiltà dell’intelletto. Di certo ancora non ci siamo.
Una volta volevo scrivere un libro, esisteva , lo sentivo, sapevo di che si trattava, ma appena
cercavo di focalizzarlo si nascondeva.
Lo stadio della civiltà dell’intelletto: anch’io, come tutti, non sono pronto.
Solo il titolo restava lì, immobile come un cane da guardia che mi puntava, a ricordarmi la mia
pochezza dinnanzi all’immensità del tutto. Era il tempo in cui esercitavo la mia funzione di utilità
sociale nel ruolo di Direttore Finanziario di una multinazionale, il tempo in cui il senso del dovere
aveva la sua risposta.
Il titolo era : “Aspettando la rivoluzione, cambio lavoro”.
Quale rivoluzione? Cosa non funzionava? E chi ero io per decidere che non funzionava?
Ancora, come sempre, solo domande. Mai una risposta.
Non è la prima volta. Sono parecchie settimane che questa farsa si ripete. Allora come ora.
Sono passati mesi dall’ultima volta e questa chimera di cui scrivere, questa civiltà dell’intelletto,
stenta a manifestarsi. E’ come se si prendesse gioco di me, tira fuori la testa e poi torna a
nascondersi immediatamente. Oggi, come da un po’ di tempo, è iniziato alle tre di mattina, prima
del solito.
Quel solito pensiero che non si ferma. Dopo un periodo durante il quale l’ho trascurato ha
cominciato a scalpitare, a premere, a cercare di uscire.
“Quello che devo fare”: anche se cerco di dimenticarlo è lui a ricordarmelo. Ma rimane sempre la
stessa domanda: cosa vuole dirmi, cosa vuole che racconti?
“Devi darti metodo” oppure “devi impostare un’ossatura” oppure ancora “devi lasciar perdere, non
è produttivo”.
Tutti sanno benissimo come sarebbe meglio fare, ma nessuno sa “Quello che devo fare”.
Eppure lui, il pensiero, mi da fiducia. E’ un fatto.
Appena ci provo, a imbrigliarlo, ecco che l’ansia cessa e il pensiero rallenta, rallenta, rallenta.
Troppo!
Non ti devi fermare, maledetto, devi solo darmi il tempo di afferrarti ! Ho capito che sei contento di
vedermi all’opera, ma non esserne troppo appagato, devi continuare a girare un po’, altrimenti di
cosa sei fatto? Ricordati che vogliamo parlare solo di te che non ti fermi. Null’altro, nessun fatto,
nessuna storia, nessun assassino, o colpevole, o catastrofe.
Il protagonista sei solo tu, pensiero. Almeno così credo.
Ad un un passo dalla follia.
Insomma se vuoi che lo faccia, che ti faccia venire al mondo, devi darmene il modo.
Proviamo con il metodo allora. Tre ore al giorno. Sono determinato, a partire da oggi imbrigliarti
sarà come una medicina: amara e da prendere regolarmente.
Certo che ci vorrebbe anche un’ossatura. Intorno a cosa si costruisce la possibilità di scrivere del
nulla? In fondo il vero divertimento è proprio quello. Ma ci vorrebbe una storia. Una storia
servirebbe ad essere farcita di altri pensieri senza alcuna importanza concreta, ma pieni di una loro
intrinseca bellezza.
Vogliamo trascendere o no?
Anche perché le storie in fondo si assomigliano tutte. Una lunga serie di fatti concatenati che
arrivano ad un punto chiamato fine. Ma fine di cosa? Come se in un giallo, dopo la cattura
dell’assassino, la vita dei protagonisti non continuasse.
E se provassi a mettere insieme tutte queste cose?
Ecco allora l’idea: ” Perché non provi a scrivere qualcosa che assomigli a una raccolta di racconti
?”. Magari con una specie di struttura fatta di contenuti in vario modo correlati. Una serie di storie
che sorreggano una buona quantità di pensieri.
Dubbi di vita quotidiana e intrecci da romanzo.
Alcuni anni di vita, episodi. Tra il surreale, il noir, a volte il pulp, il dramma e, a tratti, la commedia.
Ecco la ricetta : Biografia di un viaggio nella pazzia. E ritorno.
Con la pretesa che quanto scritto possa servire a fare capire, oltre che divertire chi ha già capito.
Con certe cose non si scherza.
E non per una questione di morale. Ma solo ed esclusivamente per la paura di deriva nella pazzia.
Si, potrebbe avere senso.
Fatti che come sacchetti di sabbia arginano un torrente di turbinìo.
Aneddoti che, come caramelle ad un bambino, vengono elargiti a chi sopporta il vuoto del turbinìo.
Una morale che si diffonde surrettizia, senza voler moralizzare. Frutto spontaneo delle cose, a
disposizione di chi la vuole cogliere.
Tutto sembra quadrare.
Sono le 8.00.
L’ansia ha avuto soddisfazione. Il turbinio è tornato a riposo.
Ansia e turbinìo come bestie feroci in gabbia, hanno ricevuto il loro pasto.
E’ ora di tornare al mondo reale.
Domani sarà un’altra mattina.
Un’altra scommessa che già sai non potere vincere.
Sarà un’altra mattina d’insonnia.

HO VIAGGIATO NEL VENTO
Estate. 8 di mattina.
Milano galleggia nella sua aria ferma. Forse è l'unico posto al mondo, almeno che conosca io, dove
in quei momenti si potrebbe accendere una candela per la strada e lasciarla li a bruciare .
Resterebbe solo da capire chi mai potrebbe farsi venire in mente di accendere una candela per
strada. E soprattutto a cosa servirebbe.
Il punto è che non si sa mai che Dio se ne accorga e si ricordi di mandare il vento
“spazzapolverisottili”. E se anche così si spegnesse la candela, di certo ne sarebbe valsa la pena.
Gli alberi per strada sono immobili.
La scena è surreale, almeno per chi sia disposto e voglia accorgersi del nulla o del vuoto.
Sembra proprio di essere sottovuoto, come il prosciutto del supermercato.
E' estate, appunto. L'aria ferma è anche tiepida.
Meno male che non sono nato prosciutto se no ero già rancido.
Anche se in effetti un po' rancidi lo siamo tutti, il fatto di essere ancora abbastanza freschi e
addirittura ancora vivi è una buona notizia .
Sono 4 giorni che non dormo.
Niente sonno.
Ma nemmeno stanchezza.
Merito della dopamina, credo. Dotti medici e sapienti mi hanno spiegato che è lei che certi fisici, tra
cui pare anche il mio, secernono più del normalmente dovuto.
Forse non era la dopamina, ma la serotonina o la noradrenalina, o qualche altra “ina”. Di certo però
non una di quelle “ine” di umana sintesi chimica.
Insomma non era questione di cocaina o anfetamina o efedrina o salamadonnina. Non ero drogato.
Una delle tecniche di tortura che si dicono terribili è quella di impedire alle vittime di dormire
utilizzando musica, suoni, voci o altro. Fosse capitato a me avrei fatto saltare il nervo al carnefice.
Capace che mi sparavano direttamente invece di torturarmi.
In quei giorni l’accelerazione biochimiconeuronale era già alta : ero fermamente convinto, con
buona dose di prove a supporto, di essere la reincarnazione di un Gesù Cristo evoluzionisticamente
e geneticamente modificato assommante qualsiasi energia e conoscenza aleggiante nel mondo e
nell’universo. Non solo li e allora, ma ovunque e sempre.
Il che mi aveva messo in viaggio su di un cammino imperscrutabile che descrivere non saprei se
non con l’aiuto di Bandabardò : “attenzione questo è un duello, devo salvare la testa perché dentro
ci ho il cervello. E non so dove sto andando ma so che ci sto andando.
Comunque sia, in quella mattina malandrina, nell’immobilità assoluta del tutto, l’unica cosa che
decise di muoversi fu qualche mia sinapsi.
Certo, fosse rimasta al suo posto forse avrei passato meno guai, ma in fondo sono della generazione
della vita spericolata di Vasco Rossi. Forse la vita piena di guai era il mio destino. O forse il mio
arbitrio, libero ma non troppo. Come in musica : allegro ma non troppo, tanto per capirci.
Come sia sia, il flash che decise di impossessarsi di me fu del seguente tenore.
Calma piatta, non si muove non dico una foglia, ma nemmeno un granello di polvere.
Equilibrio stabile. Da quelle 4 nozioni di fisica di base che ricordavo ne spuntò una dominante su
tutte le altre. Basta una piccola variazione di uno qualsiasi dei componenti di questo equilibrio e
posso scatenare qualche fenomeno straordinario.
Il vento sarebbe perfetto.
Che poi tutto il ragionamento altro non è che la famosa storia del battito d’ali della farfalla cinese.
Abito in un appartamento al 3° piano che ha a mio modo di vedere una strana particolarità. E’
esposto su 4 lati. O meglio su 3 punti cardinali, est, sud e ovest e per il 4 lato, è esposto verso il
cielo. L’appartamento infatti gira attorno a un cavedio interno che fa l’effetto di una specie di canna
fumaria. Tira l’aria calda verso l’alto.
Ecco allora il flash : se muovo l’aria riscaldandola questa andrà verso l’alto e incanalandosi dentro
il cavedio risucchierà dietro di se l’aria circostante.
Aiutato dal sole ancora basso che avrebbe riscaldato il resto, inizio ad accendere quei marchingegni
che sono capaci di fare sia aria calda che fredda. Li imposto su 40 gradi con il ventilatore al
massimo. Fuori di gradi ce ne erano 27.
Ora ovviamente chiunque è libero di non crederci, ma dopo qualche minuto iniziai a sentire un
fremito tutto attorno a me.
Mi girai, osservai, ascoltai e capii : stava funzionando davvero ! Stavo facendo il vento !
Nell’irrefrenabile euforia dei momenti straordinari mi affacciai alla finestra e iniziai a urlare ai
passanti e alla gente seduta ai tavolini del bar sottocasa : “ehi gente, ehi tutti, preparatevi ! : tra 10
minuti “meltemi a fottere”.
Il meltemi http://it.wikipedia.org/wiki/Meltemi è il vento greco estivo, quello degli antichi Dei
greci, amato e odiato da navigatori e velisti perché può decidere di soffiare veramente forte senza
che sia prevedibile.
“A fottere” è un’ espressione napoletana che vuol dire “davvero tanto”.
10 minuti dopo tirava un vento che a Milano non si era mai visto. Mai! Le chiome dei platani di
fronte a casa mia erano curve verso terra come non mai. A me pareva anche di sentire odore di
mare.
Corsi per tutta casa a bloccare porte e finestre affinchè non si chiudessero bloccando l’incantesimo
della circolazione d’aria indotta.
Anche se oramai non serviva più ero io che volevo sentire la forza di quel vento attraversare tutta
casa e tutto me.
Mi affacciai di nuovo al balcone, sporgendomi di schiena e tenendomi con una mano, come i velisti
che bilanciano la barca con il loro peso, urlando di nuovo.
Alzate le vele, cazzate le rande, drizzate le scotte : si naviga !
E iniziai a ridere come un bambino che viaggia in mare per la prima volta.
Casa mia era una barca a vela!
E questa, cari dotti medici e sapienti, è l’essenza,
Ogni delirio è un viaggio reale.
E d’altronde lo dice la parola stessa : delirio = del – ir - io
L’io del ire.
L’io dell’andare.

PS : il vento arrivò davvero

PSIKESCALATION: PRESCRIZIONI, RESTRIZIONI, COSTRIZIONI
Prescrizioni
Me lo doveva dire qualcuno 50 anni fa che mi sarei trovato dove mi trovo. Lo avrei guardato come se il
matto fosse stato lui.
E invece eccomi qua. Anche se in effetti, che prima o poi sarei impazzito, è come se lo avessi sempre
saputo.
Letture, canzoni, arte in genere in qualche modo legate o generate da chissà quali forme di follia. Sempre per qualche strana forma di magnetismo erano loro che mi trovavano. E sempre mi affascinavano. Credo che fosse l’attrazione per il limite in genere, per il confine.
La frontiera del pensiero, della ragione. Una specie di far west, dove tutto diventava libero e possibile.
Ed in effetti la prima diagnosi fu quella di “borderline”, con quel border a cavallo del quale tanto mi piaceva stare.
Si perché in principio fu la psicoterapia.
Qualche chiacchierata, un po’ di riflessioni, il tentativo di rifilarmi dei farmaci.
Le prescrizioni, appunto.
Io ci scherzavo, mi divertiva il tentativo di incasellarmi, inquadrarmi, e quando lo psichiatra si risentiva un po’ per la mia strafottenza o per il mio menefreghismo io gli dicevo :”dottore che ci vuole fare, non se la prenda. D’altronde me lo ha detto lei che sono un bordellino”.
Solo anni dopo alcuni altri psichiatri mi spiegarono che la definizione borderline non vuole dire nulla o giù di li.
Per cui io ne dedussi che più che la mia mente doveva essere il mio portafoglio ad essere interessante.
E così andammo avanti per anni. Fino a che si ruppe qualcosa.
In effetti la vita non è proprio fluida e lineare come un fiume. Mi insegnò un mio cugino che qualche
personaggio famoso diceva che in effetti più che un fiume è una serie di pozzanghere, e noi dobbiamo
trovare il modo di saltare da una all’altra.
E’ discontinua, come l’evoluzione. Si va a gradini e i momenti determinanti veramente sono pochi.

Restrizioni
Il momento determinante che mi proiettò alla seconda fase, o pozzanghera, quella delle restrizioni, fu la
conoscenza con la mia signorina, la cocaina.
Come cantava qualcuno, anche se pare parlasse di eroina, “io e la mia signorina stiamo bene insieme”. Per molto tempo in effetti avemmo un rapporto ludico e sostenibile.
Finchè non morirono i miei genitori e io letteralmente impazzii dal dolore. E la mia signorina fece quello
che sapeva fare meglio. Si impossessò di me completamente per un periodo relativamente lungo di circa una anno.
Dal quale uscii appunto con le restrizioni.
Prima con un tentativo di comunità miseramente fallito proprio per eccesso di restrizioni, il che era
prevedibile per uno a cui piaceva cavalcare libero sulla frontiera, e poi con l’aiuto della mia allora moglie, con la quale ci trasferimmo al mare per quasi un anno dove io applicai rigidamente quello che avevo appreso dall’esperienza comunitaria.
La psicologia o filosofia comportamentale : non frequentare tossici, non andare in luoghi associati in
qualsiasi modo alla droga, non attivare processi che possano portarti alla droga, (tra cui il bere in primo
luogo) e altre cose di questo tipo.
Tutte restrizioni ma diventate accettabili perché le avevo scelte io.
Quando tornai alcuni anni dopo dal responsabile della comunità da cui ero fuggito per fargli vedere mia
figlia appena nata lui mi guardò e mi disse : ”eccolo qua quello che è guarito per dispetto”.
La diagnosi più geniale che mi abbiano mai fatto.

Costrizioni
Fino a qui però tutto scorreva nel pieno delle mie facoltà mentali.
Mai un delirio, mai una allucinazione, solo nei momenti di abuso di cocaina qualche paranoia o
“preallucinazione”.
Io le chiamo così, nel senso che erano piccoli flash non ben definiti ma circoscritti a quel momento.
Non erano realtà immaginaria.
In ordine crescente di importanza (perché secondo me si articolano lungo una specie di scala gerarchica dei sensi) si trattava di odori, suoni o ombre appena accennati.
In effetti più di qualcuno mi disse che se vedevo le ombre ero fortunato perché vedevo le anime dei morti.
Per me questa è la prima porta che si socchiuse sui successivi eventi a connotazione mistica.
In ogni caso e come sia sia, veleggiai relativamente tranquillo in questa terza pozzanghera per parecchi anni.
Non toccando alcuna droga. Lavorando, occupandomi di mia figlia e facendo tutto quanto fanno le persone normali.
Il che è importante per comprendere sia la potenza della mia “malattia” (tra virgolette perché io veramente non la riesco a considerare tale. Io sono profondamente convinto che sia un dono) sia il fatto che non mi ero “bruciato il cervello” con la cocaina.
Finchè un giorno iniziai a fare un lavoro importante, in cui credevo fortemente. Si trattava di studiare
bilanci, dati, informazioni e operazioni del principale gruppo di aziende italiano, una realtà storica che dava lavoro a 500.000 persone ma che negli ultimi anni ne aveva licenziate a centinaia di migliaia.
Iniziai a studiare e più andavo avanti più trovavo informazioni e collegamenti che delineavano un quadro
agghiacciante: la specifica volontà da parte di poche persone di appropriarsi di tutto quanto il gruppo faceva pagare. Essendo questioni di telecomunicazioni voleva dire che ogni “bolletta” che paghiamo noi tutti veniva incassata, più di 30 miliardi di euro all’anno, e i soldi venivano fatti sparire.
Io iniziai a volere cercare di capire e saperne sempre di più. E proprio la dimensione e la portata di quello che osservavo ebbe in qualche modo influsso su quello che successe in seguito.
Molto velocemente entrai in pochissimi giorni in una fase di accelerazione biochimiconeuronale fortissima.
Era la dopamina, credo o la serotonina o qualcosa di simile. Mi hanno spiegato che certi fisici, tra cui pare anche il mio, in alcuni momenti la secernono più del normalmente dovuto.
Non dormivo, non mangiavo, lavoravo 24 ore su 24, per giorni. Quando tornavo a casa correvo a guardarmi allo specchio e mi vedevo le pupille dilatate all’inverosimile. Dicevo a mia moglie che mi stavano drogando di nascosto mettendomi cocaina nel caffè.
In breve diventai una specie di “eletto” che aveva il compito di fermare il male. Un messia, o un profeta, forse la reincarnazione di un Gesù Cristo. In ogni caso io ero il bene e in quanto tale in lotta contro il male.
In ogni momento e ovunque io fossi.
E tutto sempre in una condizione psicofisica che definire euforica è dire niente. Come si usa dire: “stavo da Dio”. O forse “con Dio”. E in cotanta compagnia riuscivo a pensare e fare cose incredibili.
Mesi dopo quando mi spiegarono che avevo avuto una “crisi maniacale” andai a studiarmi il greco antico e scoprii che manìa vuole dire proprio “furore profetico”. In effetti avevo la nettissima percezione di essere “guidato” facendo così anche cose in apparenza assurde. Ad esempio predicando per la città vestito di bianco. O spostando mobili e oggetti in casa per seguire o tracciare linee, diagonali e cerchi ovunque in modo da assimilarmi o allinearmi ai flussi di energia dell’universo.
Iniziai ad avere allucinazioni olfattive. Iniziai a sentire odori di una cosa chiamata biodiesel, inventato dalla società per la quale iniziai a lavorare a 20 anni, cioè 20 anni prima, e che io avevo in larga parte contribuito a diffondere in tutta Europa. Anche questa era una qualche raffigurazione del bene perché il biodiesel inquinava meno del gasolio tradizionale. Ma l’odore era solo nella mia testa e nei miei ricordi.
Oggi di tutto questo periodo temporalmente molto breve, ma inverosimilmente denso di eventi, percezioni e significati, io ho maturato la ferma convinzione che si tratti di una folgorazione alla “San Paolo sulla via di Damasco”. Ero uso dire che la fede è un dono e io non l’avevo ricevuta. Fino ad allora. Oggi posso dire che è uno strano dono : molto bello ma per niente gratuito.
Miei familiari e conoscenti mi convinsero ad andare da uno psichiatra proprio per le stravaganze, o almeno così ritenute, che facevo. Il mio psichiatra (quello del bordellino) era all’estero per cui fui indirizzato dal gestore della comunità da cui ero scappato anni prima. Facemmo un colloquio. Gli esposi alcune delle mie teorie generate nella e dalla predetta euforia e lui mi disse : “probabilmente è tutto vero, ma se lo dice così non le crede nessuno. Venga a trovarmi in clinica domani mattina che ne parliamo”.
Era una trappola. Anche se a fin di bene pur sempre una trappola.
Arrivai in clinica, mi presero soldi e documenti e mi accompagnarono in una stanza dicendomi di restare li ad aspettare un dottore. Rimasi li per ore senza che venisse nessuno. Ad un tratto mi alzai dal letto e andai a chiedere informazioni. Mi dissero che dovevo aspettare. Io dissi che me ne volevo andare e che volevo indietro soldi e documenti. Mi risposero che non era possibile.
La costrizione iniziò così.
In un solo brevissimo istante persi tutto quello che avevo e che ero. Casa, famiglia, moglie e figlia, lavoro identità, libertà, ragionevolezza, integrazione sociale. Ma lo realizzai lentamente.
Due settimane dopo il ricovero coatto mia moglie (oggi morta) venne in clinica ad annunciarmi che voleva la separazione (ma a condizione che le lasciassi casa e una montagna di soldi). Io ero sotto pesante effetto di farmaci. Non riuscivo a camminare, nemmeno a parlare. Sbavavo soltanto.
Nel mio ruolo di crocifiggendo non mi opposi e preso tra sgomento e onnipotenza le dissi che andava bene.
Tutto purchè mi facesse uscire da li.
Anni dopo il ricovero lei mi raccontò che i medici non riuscendo a farmi rientrare nella normalità pensavano che io fossi schizofrenico e non bipolare. La mia reazione, silente, fu che la capivo e perdonavo perché mi aveva abbandonato.
Mi raccontò che si era opposta alla volontà dei medici di farmi l’elettrochoc. Di questo, e altro, le sono e le sarò sempre riconoscente. Durante il ricovero mi fecero tutti gli esami possibili e immaginabili, proprio perché non capivano perché i farmaci non facessero nessun effetto. Dalla risonanza magnetica risultò una attività cerebrale di varie grandezze più alta della norma.
Ebbene si, io credo di essere “a beautiful mind”. Se avessero fatto l’elettrochoc su un cervello così articolato e complesso, proprio come un sistema adattivo complesso, chissà che reazioni a catena avrebbe prodotto e chissà cosa sarei oggi.

L’essere umano si abitua a qualsiasi cosa
Vorrei cercare di esprimere lo sgomento della privazione totale, ma non so come fare. Mi vengono solo in mente le parole di Viktor Frankl nel suo “Uno psicologo nei lager” : “cancello con un solo tratto la vita vissuta finora”. E mi permetto di fare paragoni con quella tragedia solo perché nel suo ruolo di psicologo lo fa egli stesso.
Tralascio la descrizione di 5 mesi di costrizione, perché non c’è niente da dire. Giornate interminabili, ogni minuto sembra eterno, soltanto sigarette che sembrano porti in cui attraccare in quell’immobile viaggiare verso l’ora successiva.
Non sai se finirà mai.
Nessuno ti dice che uscirai ne tantomeno quando lo farai.
E un disperato attaccarsi a qualsiasi cosa abbia almeno una parvenza di vitalità. Una parola di un altro matto,
un disegno da fare, 10 passi lungo un corridoio, il ritmo delle terapie farmacologiche da assumere a
intervalli regolari. Ma se è vero che “cancello con un solo tratto la vita vissuta finora” e se è pure vero che sono ancora qui a parlarne, allora vuol dire che ho ricevuto la grazia di potere rinascere di nuovo..
Ma prima dovevo ancora vedere il peggio. Al peggio non c’è mai fine, almeno così si dice. E’ un luogo
comune. Ma i luoghi comuni diventano tali perché sono veri.
Dopo 5 mesi mi trasferiscono in un’altra struttura. In Svizzera. Il che sembra un dettaglio irrilevante a chi tralasci di considerare l’aspetto legislativo. In Svizzera possono fare qualsiasi cosa, soprattutto a chi non è cittadino svizzero.
Nel mio caso non è questione di subire soprusi o abusi. Niente di così drammatico, almeno in apparenza.
Soltanto il catapultarmi in un reparto “osservazione” dove riiniziare il processo di adattamento alla pazzia già fatto prima.
Ma con una differenza sostanziale : il reparto osservazione è un “acquario” di vetri blindati di circa 30 metri quadrati, un monolocale.
Da cui non si può uscire se non per andare nel contiguo giardinetto appena poco più grande. Ma solo se non piove. E in Svizzera piove quasi sempre.
Mi dicono che ci dovrò passare una settimana. Ce ne passai 8. Ogni giorno mi dicevano che forse mi
avrebbero “liberato” il giorno dopo. Il resto della clinica, con il suo giardino e le sale varie divenne un
miraggio. Ebbi modo così di constatare l’assoluta verità della relatività spazio-temporale. 55 giorni in 30
metri quadri e senza sapere in partenza che i giorni saranno 55, diventano un’eternità.
Ebbi anche modo di constatare la verità del bisogno di spazio vitale dell’essere umano : nei 30 metri quadri ci stavamo in una quindicina di persone. Tutti fumatori. Nessuna finestra aperta per non indurre in tentazioni di fuga. Sembrava di essere nella nebbia della val padana tutto il giorno.
Tra i compagni di acquario c’erano dei matti veri. Da chi iniziava a sbattere la testa contro i vetri urlando, a chi si bruciava con le sigarette, a chi si credeva un cane maschio e a 4 zampe si attaccava alla prima gamba femminile che trovava. Quest’ultimo in effetti era il più divertente.
Gli operatori latitavano, o forse “osservavano” dovendo poi decidere solo quando intervenire per sedare
qualcuno.
La notte si dormiva in stanze singole. Il che sembrerebbe una bella cosa se non fosse che si veniva chiusi a chiave dentro, con le sbarre alle finestre. E se si suonava il campanello passavano interminabili ore prima che qualcuno arrivasse.
Ma come si diceva l’essere umano si abitua a tutto. Bisogna solo trovare qualcosa a cui attaccarsi.
Io mi attaccai al giardinetto dell’acquario. E ad alcune cose di base, così apparentemente semplici che nella normalità si danno sempre per scontate . Camminare, respirare, ascoltare, guardare.
Camminavo in continuazione per ore, tracciando percorsi a volte circolari, a volte diagonali, a volte a forma di infinito (quelli che mi piacevano di più) e mentre camminavo respiravo al ritmo dei miei piedi. Tarso, metatarso, tarso, metatarso, tarso, metatarso.
Ascoltavo il cinguettio degli uccelli, i fremiti delle foglie, i rumori in lontananza. Ricordo la campanella di una scuola abbastanza vicina da regalarmi gli schiamazzi dei bambini quando uscivano. Dal tono delle voci dovevano essere alle elementari. Aspettavo le loro uscite e le loro risate e mi sentivo tra loro. Li immaginavo e quasi li vedevo.
E guardavo. I colori, la luce, i movimenti delle foglie.
Piano piano con il passare dei giorni mi diedero il permesso di uscire anche se piovigginava. La pioggerella diventò anch’essa mia amica : mi regalava altri rumori, altri suoni, altri odori che si sommavano a tutti gli altri. Mi pareva di essere il San Francesco de “la pioggia è bella”.
E continuavo a camminare.
Il giardinetto divenne il mio personale giardino zen. Lo chiamavo così, a rischio di sembrare matto davvero.
Ci avevo trovato strade, foreste, fiumi, montagne. Era tutto quello che mi serviva, o meglio che volevo. Mi aveva liberato. Ero libero. C’era soltanto un’ultima cosa.
Continuavo a camminare.
Un giorno me ne resi conto e mi dissi che non era possibile, che non potevo essere schiavo del camminare.
Si vede che ero pronto. E decisi di provare a liberarmi anche da questa catena.
Mi stesi su di una panchina, chiusi gli occhi, e mi concentrai su respiro e udito. Era sempre la questione della “gerarchia sensoriale”. Si deve partire dalla base.
Gli stessi suoni, ma ad un ritmo diverso. Lentamente iniziarono ad attraversarmi.
Aprii gli occhi. Le stesse viste. Ma ad un ritmo diverso.
Lo stesso ritmo del respiro e dei suoni.
In breve tutto iniziò a passarmi attraverso.
Brividi, pelle d’oca.
Il giardino era diventato Zen per davvero. E io con lui.
Mi disse un giorno uno psicologo eccezionalmente matto e quindi bravo, che se vogliamo volere bene ad una maniglia di una porta, dobbiamo iniziare a lucidarla tutti i giorni. E solo dopo un po’ di giorni lei si fiderà e inizierà a farsi volere bene. Così fu con il giardino.
Ancora oggi quando voglio cercare di spiegare cosa è il disturbo bipolare nella sua parte bella, che si badi bene però non può esistere senza quella brutta di dolore e sofferenza, dico che mi attraversano dei fremiti che mi fanno piangere, o che mi fanno ascoltare la musica con i peli, o che mi fanno essere aria.
E’ un po’ come essere un cavo di alta tensione. Freme ad una frequenza così alta che se ci si passa sotto se ne sente anche il rumore, o forse il canto..
Se vogliamo credere, nella configurazione a noi più nota, è un po’ come sentire le carezze di Dio in ogni dove e quando.
Anni dopo la mia ex-moglie mi stupì quando parlando con qualcuno gli disse che doveva fare attenzione a cosa mi diceva o faceva perché a me “passava tutto attraverso”. Non pensavo che l’avesse capito così bene nella sua essenza.
E d’altronde Ivano Fossati cantava nel suo “Matto” che “lui è la che abbraccia il cielo, a stento, abbraccia il mondo, che sente attraversargli la mente”.

PROESIA IN RIMA : TSO
Mi si dice di scrivere in rima.
Ma non è mica sempre come prima.
I versi spuntano da soli se giochi,
ma se li cerchi si rivelano pochi.
Ma la cosa preoccupante, la più preoccupante,
è che mi fan credere di essere interessante.
Provarci però non costa niente,
solo un poquito de la mia mente.
E di potere fare cagare,
mai alguno mi fe’ preoccupare.
Di contenzioni parlare vorrei,
ma in rima banale non mi contenterei.
Cercherò di prenderla a ridere.
Sperando di essere etere.
Tutto cominciò per colpa di qualche gabbiano.
Nonostante mi trovassi a Milano.
Non parlo di gabbiano volatile,
ma di qualche allegoria ben più sòttile.
Doveroso però, è questo premettere.
Di licenze poetiche me ne concederò a fottere.
Non vi stupiate dunque per una ò accentata,
è solo amòr per la rima baciata.
Neppure cerchiate rigida metrica.
Sono matto e terrone, mica l’America.
Vi chiedete tutto ciò cosa sia ?
Potete chiamarla proesia. E’ proesia.
Di gabbiano lombardo,
stavamo parlando.
Non credete che esista ?
Aguzzate i sensi, e non solo la vista!
Quella via che sta sotto ca’ mia,
di fogli scritti tappezzata avìa.
Nomi e cognomi ogni foglio tenìa,
di molti soggetti di dubbia probìa.
A centinaia dal balcon ne menai,
e ad ogni risma che lanciai,
alla mia compagna cantai:
senti, senti: i gabbiani a Milano!
Si, perché cinquecento fogli Aquattro,
se lanciati insieme, suonano senza plettro.
E volano con un fremito,
che di ali, pare proprio un battitto.
Terminata l’opera di stradale imbiancata,
al di sotto corsi per la mia comiziata.
Della classe dirigente nei fogli nominata,
descrissi per lo più l’indole butecata.
Tutti butecai, tutti butecai, dicendo andai.
Della gente che lavora rispetto non troverai.
Pensano solo ai sghéi.
E tutto il resto sono fatti à nnoi.
Una donna mi avvicinò.
Io butecaia da generazioni sarei,
penso con dignità, anzi direi.
Ma di sicuro quanto dici capire vorrei.
Resterò qui se ce lo spiegherai.
E io spiegai, oh si se spiegai.
Due ore dopo il campanello mi sonò.
Barelliere con carabiniere mi si presentò.
Venga con noi con pressanza.
E senza fare rrresistènza.
Accento di meridione,
che avrebbe dovuto avere comprensione.
Invece su carro ambulante mi caricarono.
Con tanto di scorta di sirene all’unisono.
In psichiatria mi menarono.
Dove ad un letto mi legarono.
Gridai e gridai, ma nessun aiuto trovai.
Dopo ore ed ore, pisciai a cagai,
sempre nel letto sul quale legato giacei.
Fu solo allo stremo,
che mi ricordai di non essere scemo.
Se continuo a gridare,
mi ritrovo a ranare.
Calmati, respira,
è solo cuoio, è solo un’idea.
Se di respirar ti ricordi,
potranno anche restare sordi.
Tu sei più forte.
Non bastan le corde.
E così mi addormentai.
E il giorno dopo slegato mi ritrovai.
Quale sia la morale ?
Ma andate a cagare!

MANICO MIO
Puoi chiamarlo ospedale,
puoi chiamarlo reparto.
E’ sempre un posto dove sto male.
E’ sempre un luogo da cui non riparto.
Punto di approdo, punto di arrivo,
mai non ti sembri posto per vivo !
Morti reali o morti apparenti,
pure ci passano situàs divertenti.
Prendi ad esempio un vecchio ossuto,
ha le visioni, non viene creduto.
Tu come ogn’altro,
stenti a cagarlo.
Fino a che un giorno,
ti ritrovi a testarlo.
Faccia al muro,
sulla tastiera sei chino.
E’ luogo sicuro,
non immagini altro destino.
Almeno così tu ti credi,
fino al punto in cui ti ricredi.
In una frazione che è un istante,
il collo ti stringe, lo cogli in flagrante.
Non puoi fare altrimenti,
Non respiri, lo senti.
Con fragili mani,
e dita spossate,
ti avvolge il collo,
ma non paventate !
Talmente flebili,
le dita avìa,
che solo solletici,
io mi sentìa.
Ma ciò realizzai solo giorni più avanti.
Durante l’attacco non c’erano santi.
Ma il punto è un altro.
Quando mi liberai,
in viso lo guardai.
Ed egli mi disse,
Non son stato io è lui che lo disse.
Ma lui chi ? pronto chiedei.
Lui, lui, quel lui, il diabolico. Ehi !
E che volete, reagir non potetti.
Davanti al diabolico, fermo mi stetti.
Strano destino per chi del Cristo Gesù,
reincarnazione è, si fece, o fù.
Sol dai turnisti mi sovvenne di andar .
A riferir il passato accader.
E per l’ossuto legato veder.
Ma se reincarnato davvero mi fui,
C’era bisogno di costringere lui?
Il dubbio sponte mi sorse.
E se io fossi soltanto un forse ?
Fu così che la sostanza carpii.
Della ragion essenza non è cogitar.
Ma bensì dubitar.
Non cogito ergo sum,
bensì dubito ergo sum.
Solo nel dubbio si crea energia.
Non e’ di certezze questione,
bensì di costante oscillazione.
E mentre dubitando dubitavo,
ogni certezza diventò relativa.
Meglio così, da solo mi dissi.
Mai non amaii gli schemi prefissi.
Giammai vorrei viver di dogma.
Ma ciò ti può render lo stigma.
E quindi ?
Quindi, Wendy,
Sono a casa Wendy !

PARANOIA
Sempre meglio.
Parlo del “quadro clinico”.
Definizione del cazzo.
Sto imparando, dicono.
A gestire la mia natura.
Sembra di essere ancora un bambino, sempre sottoposto ad una costante opera di socializzazione.
C’è tutto un mondo che si prodiga per farmi diventare come lui. A fin di bene, certo.
Ma bene di chi ?
Piantala…Lo sai che è per te.
Si, si, certo.
E’ che a volte… Non so. Sembra….Ma senz’altro è una mia impressione…… Ma se non fosse? E se avessi
ragione io? E se sotto ci fosse un disegno?
Piantala….
Principio di paranoia. Questo non se ne va. Forse non se ne andrà mai.
Neppure se si prova a seppellirlo sotto metri di socializzazione.
E’ il prezzo da pagare. Un marchio indelebile impresso a fuoco nei tuoi pensieri.
“Qualcuno mi osserva. Qualcuno mi vuole male. Qualcuno mi farà qualcosa”.
Paranoia.
Insopportabile.
Finché decidi di farti tu qualcosa. Almeno per mantenere il controllo.
O forse per eliminare quest’insopportabile sensazione.
Almeno non ci sono allucinazioni. O forse è peggio: non c’è neppure qualcuno che incarni il nemico.
Solo le tue ansie.
Che non sono abbastanza forti da materializzarsi, ma lo sono abbastanza per roderti dall’interno.
E’ un virus. Peggio. E’un castoro. Che rode per costruire la sua diga. Neurale.
Paranoia.
“Psicosi caratterizzata dallo sviluppo di un delirio cronico (di grandezza, gelosia, persecuzione)
sistematizzato, coerente, che evolve lentamente lasciando integre le restanti funzioni psichiche”.
Però! Gran proprietà di linguaggio, ‘sto vocabolario italiano.
Ma dove cazzo l’hanno presa la definizione?
Andiamo a studiare.
Dal greco π α ρ α ν ο ι α = pazzia. Ma questa è la definizione socializzata.
Non vale.
Il verbo è π α ρ α − ν ο ε ω = comprendo male.
Ma addirittura c’è una seconda definizione: “smetto di pensare cose serie”.
Non più aristotelica, che quell’Aristotile li ci ha inguaiati tutti quanti con quella sua mania di
contrapposizione.
Il grande inganno della cultura occidentale che sempre deve “spezzare”, dividere, opporre, contrapporre.
Fisica e metafisica.
Schizo-frenia, appunto : cervello diviso. O schizo-sofia, se volete. Ma in realtà è solo schizo-filia.
E l’unitarietà del “tutto” ? E i sistemi adattivi complessi ? E il karma ? E la synfisica ?
L’altra definizione “smetto di pensare cose serie” invece è usata da Plotino.
Chi si ricorda chi fosse? Non importa, di certo è più affidabile del padre di tutto il nostro modo di pensare,
malato alla radice, in partenza.
A ben guardare quindi la prima definizione, “comprendo male” è mal formulata.

O meglio, è formulata apposta per costringermi a credere di essere malato. Comprendo male: ma male in che senso?
Ma io ho studiato. Liceo classico.
E π α ρ α , π α ρ α , π α ρ α , . . . . . . . . . . . . . Merda !, era uno di quegli avverbi o preposizioni o chissà cosa, dai mille significati.
Di nuovo vocabolario, ancora greco: accanto, dappresso, da, lungo,….contro, in confronto.
Ehi : qui di “male” non c’è traccia. Al massimo c’è un “contro, in confronto”.
Male lo avete deciso voi !
Ma allora ho ragione io; sotto c’è un disegno, qualcuno vuole qualcosa da me, mi vogliono incastrare,…
Io comprendo! Contro !
Anzi, adesso smetto di pensare cose serie.
E a cosa penso?
Penso che sto meglio.
Certo, sono drogato come un cavallo.
Un cavallo nato favorito, che per esigenze di botteghino deve perdere.
Droghe legali. Sedativi. Neurolettici.
No! non sono sedativi, mi dicono. Sono “equilibratori di umori”.
Ad essere pignoli, dubito proprio che siano legali.
E se lo sono vuol dire che “il legislatore” è fuori come una zucca.
“Equilibratori di umori?”
“Ma che cazzo vuole dire?”.
”Quali umori?”.”Gli unici che mi vengono in mente sono quelli vaginali, ma cosa c’entrano?
”Oddio sono pieno di umori vaginali, devono equilibrali, altrimenti rischio di affogare in me stesso !”
Il che, per altro, è una verità.
”Si, ma come ci sono finiti dentro di me?”. “Sai, tu sei un caso unico al mondo: 70 chili di vagina. Con
un’enorme testa di cazzo”.
Il futuro della specie umana: un’ameba gigante dalla morfologia degna della miglior mitologia greca, capace di autoriprodursi. L’autoclonazione in bagno di umori.
Resta il fatto che mi hanno drogato.
Come un cavallo. O meglio come un cane, da corsa. Molto più impressive, i cani. Mi piacciono di più.
Quelli si che danno l’idea di correre.
Non come i cavalli, sempre impettiti, eleganti, aristocratici. Deve essere una questione di orecchie. Quelle dei cavalli sono sempre diritte, perfette, immobili. Il cane no. Sembra che le orecchie se le stia perdendo per strada tanto corre veloce.
Comunque cavallo o cane che sia, io sono drogato.
Per questo ho la forte premonizione che arriverò ultimo.
Ma in quale corsa corri?
Nella corsa della vita, no?
Insomma, a me equilibrano l’umore a suon di pillole. Che fanno il loro dovere. Senz’altro. Mai stato così equilibrato. Con il solo inconveniente che eliminandomi questi cosiddetti sbalzi di umore, eliminano i miei compagni di viaggio dell’ultimo cinquantennio. Che poi è il solo che ho vissuto. Tutto cancellato come se nulla fosse. Ed io, senza le mie due metà, mi sento un po’ solo. Tutto qui.
Beh, c’è anche il problema di qualche buco di memoria. Un principio di Alzheimer giovanile chimicamente indotto. Ma io sono fortunato. Ero così dotato, prima!
Poi ho qualche disturbo d’insonnia. Ma non è così grave. Dormo 2 ore per volta a notte e mi sveglio di botto teso come un violino. Che se mi passo una mano nei capelli sveglio tutti con qualche sinfonia di cui non sapro’ neppure mai il nome.
Ma è poca roba. Hai sempre dormito poco.
Si, ma sotto l’effetto di coca, pensi.
Dettagli, dettagli.
Poi…. un po’ d’ansia di giorno. A volte. Ma leggera, dicono. Cazzo se solo avessi ancora le pistole di mio padre, dico io. Per usarle su di me, eh!, non per loro. Invece mi hanno consigliato di venderle. Ma non per l’ansia. Quella è leggera.
Poi, poi,… Ah si! Mi tira l’uccello.
E quale sarebbe il problema?
Mi tira dentro, non fuori…. E fuori potrei passare la giornata a guardarlo, accarezzarlo, trastullarlo, senza che desse segni di vita. E’ castrazione chimica o tira verso l’interno traboccante di umori vaginali ? In effetti
ogni tanto sento un certo male di stomaco….
Però sto meglio.
Ah, si !
Sarà per questo che oggi mi sono svegliato di soprassalto.
Alle 3.00. Con il solito turbinio in testa. Il pensiero frattale circolare. Che sbatte sul vetro come un
pipistrello: sempre quello.
E una visione lucida stampata nella penombra dell’alba delle mie facoltà.
Devo fare testamento!
“E’ un buon segno”. “L’adolescenza finisce quando si prende consapevolezza della morte”. Già li senti.
Ok! Ok! In effetti ho letto da qualche parte che è pieno il mondo di gente che si sveglia presto per fare
testamento. Tutti i post-adolescenti del pianeta.
Come in quelle statistiche, quelle da rotocalco da parrucchiere, quelle tipo nasce un bambino ogni 2 secondi, muore un anziano ogni 6 (e già pensi per forza che siamo miliardi), oppure tipo in questo momento 1 miliardo di persone stanno avendo rapporti sessuali (minchia! tutti insieme? Altro che scambio di coppie) e stamattina sono stati fatti all’incirca due miliardi di testamenti….
A me sembrava di fare una cosa importante.
Pensavo unica.
Tramandare ai posteri le tue volontà.
Definire la conclusione della tua vita terrena.
Invece…ci avevano già pensato in un miliardo novecentomilioninovecentonovantanovemilanovecentonovantanove.
Uno scioglilingua.
Certo che ‘sti farmaci funzionano! Due miliardi di malati dall’umore equilibrato che si svegliano tutti
insieme alle 3.00 di mattina per fare testamento..
E io che credevo di cominciare a stare meglio, io da solo, per le mie capacità.
“L’adolescenza finisce quando si prende consapevolezza della morte”
E’allora che uno può dirsi “Però, sto meglio”. Quando non fa che pensare di morire, o che muoia chi ti sta vicino, o in assenza di meglio che muore un sacco di gente in ogni momento.
Sono diventato consapevole.
A dire il vero credevo di esserlo sempre stato, ma mi sbagliavo.
Non stavo male. Nessuna ansia.
Mentre adesso…
Sono talmente indirizzato sulla via della guarigione senza sbalzi di umore, che mentre guardo la mia opera testamentaria mi si scolpisce in mente questo pensiero: “Quasi quasi mi viene voglia di morire davvero.
Farei felici un sacco di persone”.
Ed è un pensiero reale, non una posa di autocompiacimento.
Mi da addirittura serenità.
Mi pare proprio un peccato l’eventualità di restare vivo.
Ma sto meglio.
Gli umori sono equilibrati.
Poco importa se verso il basso.
Tendenti allo zero, come un limite matematico delle tue onde psichiche.
Ma forse è il prezzo da pagare.
Per tutto quanto.
Quello che ancora non è scritto.
Ma che pure è stato o sarà.

DA SEVEN A TEN (1). PARABOLA IPERBOLICA (2).
Nota introduttiva
Il passaggio da 7 a 10 è riferimento al film Seven ed è rappresentativo delle modalità di pensiero proprie delle fasi “maniacali” del cosiddetto “disturbo bipolare dell’umore”.
Alcuni ritengono che in tale fase si produca pensiero sconnesso spesso esplicitato irrefrenabilmente in quella che viene chiamata
in gergo psichiatrico “insalata di parole”.
Questo scritto è il tentativo di dimostrare e spiegare come ,l’”insalata di parole” in realtà contenga un pensiero lineare corredato, o forse meglio “immerso”, in nessi logici “frattali”, neoidiomi altrettanto “frattali” (il franzoso, ad esempio) e altre “frattalità” varie..
Ma il punto focale è che ha un senso.
E che prima di giudicarlo come qualcosa di incomprensibile e di “malato” si dovrebbe pensare piuttosto a qualcosa di “genialmente artistico”. E ciò soprattutto da parte di medici che dovrebbero conoscerne la natura e le modalità.

Intro rimata
Quenaeu o Calvino son certo di reincarnare (3).
Ebbene si, a me mi piace metempsicare.
Che sia proprio diventato cretino ?
O che si debba temere un mio visitino ?
E se di quei due fosse la colpa,
della skizofrenia mia con tutta la polpa?
Se con la loro frenìa dentro mi litigano,
provateci voi a tenerveli a freno. No?
Eccovi dunque l’iperbolica parabola.
Tanto parabola, eppur anche iperbole.
Capriole semantiche e pensiero pensante.
Le trovate son tante, son tante.
Si dia principio ordunque.
E ascoltate voi tutti. Ovunque.
Dieci comandamenti contro sette vizi capitali,
senza comizi o artifizi, si vince ben facili.

Parabola
Che dieci comandamenti vs 7 vizi capitali ci pare politically bastard inside, outside eppure throughout.
Che pure un bambèn rièsc à gagnèr.
Noi sperèm che ghe scomunichin minga.
Oh Santa Chiesa, siamo come i Supergiovani (4) di Tienammen.
Lo digiamo (5) per migliorarVi.
Che con il Padreterno per amico se puede anche giocare 10 contro 10.
Et donc se settimo vizio capitale non è nel famigerato motel (6) che contrariamente alla comune
viniciofrenia (7) nulla di bibblico ha se non alcune pretigne frequentazioni pure digostracked (8), e se saper contare fino a sette non vuole mica dire che lotto (9) non ci sia, alura l’otto fiat!

Se è vero come è vero che lotto plaza est e che ottavo nano Embolo est, est, est (10) allora un dubbio sponte si leva: sarà minga che ottavo vizio capitale sia la libbertà? (11)
Che non sarebbe quindi uno spazio libero e nemmeno un volo moscovio e neppure partecipazione (12), ma solo una illusione di indipendenza che easy (jet) (13) degenera in devianza.
E allora la povera farfalla cinese che continua a fare a produrre energia se poi i mas e i minus si fanno i cazzi di alloro? (14)
In somma (o in soma, somatos – corpo - di quei magna magna di greci we trust, anybody else pay cash) (15) we have a dream : Grace Jones singing “Slave to the freedom” (16) on everybody’s shoulder.
Scioc de monchi (17) eppure de donchi.
Pis, luv rav, suv. Yeah! (18)
Ma poi su questo impervio sentiero nono vizio capitale non potrebbe non diventar la canoscenza.
Istinto di sopravvivenza, configurato in bisogno di possesso, canonicizzato in diritto di proprietà, sublimossi in primato del sapere.
Ma si contorquemadò (19) (hops, mi è scappato; che di inquiryzone se parli no) in qualunquismo della
saccenza.
Mi voeli non voelere ma semper devo sapere.
Del vizioso nono circolo sono quindi socio onorario.

E per concluder il gran finale.
Organza (20) decalogica.
Vuoi vedere che decimo vizio capitale è rompere i cugghiuni (21)?
Che se il fumo puede matar (22), ma mica è una certezza, parria che pure la pazienza di giobbe puedria
scassar la pija. O il pijo (23).
Signor, signore, sono Giobbe. Io ti sono devoto, seguo i comandamenti, faccio la carità, non faccio che pensare a te, ti prego ogni istante. Perché continui ad accanirti su di me ?
Risponde il Signore : perché mi rompi sempre i cugghiuni !
Appunto.

Note
1. Riferimento al film Seven http://it.wikipedia.org/wiki/Seven.
2. Iperbole http://it.wikipedia.org/wiki/Iperbole_%28figura_retorica%29v – L'iperbole (dal grecoὑ περβολή, hyperbolé, «eccesso») è una figura retorica che consiste nell'esagerazione nella descrizione della realtà tramite espressioni che l'amplifichino, per eccesso o per difetto. L'iperbole presuppone la "buona fede" di chi la usa: non si tratta infatti di un'alterazione della realtà al fine di ingannare ma, al contrario, allo scopo di dare credibilità al messaggio, attraverso un eccesso nella frase che imprima nel destinatario il concetto che si vuole esprimere.
3. http://it.wikipedia.org/wiki/Queneau e http://it.wikipedia.org/wiki/Italo_Calvino
4. Doppio senso sulla protesta del 1989 https://it.wikipedia.org/wiki/Protesta_di_piazza_Tienanmen legato alla canzone di Elio e le storie tese contenete la parodia di un Supergiovane in lotta contro le autorità impersonate nei cosiddetti “matusa” .
5. Parodia di un politico italiano
6. Riferimento al “Settimo motel” rinomato (da cui famigerato) luogo storico di frequentazioni lussuriose degli abitanti di Milano e hinterland.
7. Viniciofrenìa : termine di nuovo conio indicante il pensiero espresso da Vinicio Capossela, uno dei maggiori artisti italiani musicali contemporanei. In brani di lettura di suoi scritti nel Dvd “Live in Volvo” dice che quando in tourné si ferma nei motel, li vede avere un nonsocché di biblico, appunto. In particolare le porte scorrevoli automatiche gli ricordano il Mar Rosso che si apre.
8. Riferimento ad un evento riferito da una prostituta rumena, che si sentì profondamente in colpa per avere fornito le sue prestazioni ad un uomo che solo dopo scoprì essere un prete. E lo scoprì perché all’uscita del Settimo Motel trovò due agenti Digos in borghese che stavano seguendo da tempo il prete i quali le chiesero se avesse subito abusi per i quali si potesse denunciare il soggetto.
9. Nonsene o doublesense : gioco di parole tra piazzale lotto di Milano (zona di prostitute e spaccio) e numero 8. Riprende anche la fine della canzone “Temporale” di Lorenzo Cherubini Jovanotti
10. Gioco di parole a riferimento clericale sull’esistenza di un ottavo nano, come di un ottavo vizio capitale, appunto : Est, Est, Est. http://it.wikipedia.org/wiki/Est!_Est!!_Est!!!_di_Montefiascone Un vescovo mandava il suo coppiere Martino in avanscoperta, con l'incarico di precederlo lungo la via per Roma, per assaggiare e scegliere i vini migliori. I due avevano concordato un segnale in codice: qualora Martino avesse trovato del buon vino, avrebbe dovuto scrivere est, ovvero "c'è" vicino alla porta della locanda, e, se il vino era molto buono, avrebbe dovuto scrivere est est. Il servo, una volta giunto a Montefiascone e assaggiato il vino locale, non poté in altro modo comunicarne la qualità eccezionale. Decise quindi di ripetere per tre volte il segnale convenuto e di rafforzare il messaggio con ben sei punti esclamativi: Est! Est!! Est!!!
11. Libbertà con due “b” come simbolo di libbertà di espressione.
12. Citazione da “La libertà” di Giorgio Gaber
13. Easy (jet) sta a rappresentare facilità e velocità insieme. Easyjet infatti è compagnia di aerei (che vanno veloci) low cost (e quindi che si possono prendere facilmente).
14. Riferimento all’unitarietà del tutto e alle teorie sui sistemi adattivi complessi (derivate da quelle del caos) dove tra l’altro si teorizza l’interconnessione di ogni singola particella del tutto, appunto. In sintesì diventa concetto che fortemente limita se non annulla la libertà individuale. I mas e i minus sottintendono gli intellettualmente minus-habens, le persone stupide, che pensano di potere agire “liberamente” senza preoccuparsi di conseguenze e legami delle loro azioni. Di alloro sta per “loro”. E cazzi di alloro fa il verso a corona di alloro come simbolo di primato. In questo caso primato di ignoranza o stupidità.
15. Citazione di gratitudine verso gli antichi greci in genere (soma è il corpo), e in particolare quelli espansisi in Sud d’Italia (da cui provengono le origini di chi scrive), detto allora Magna Grecia che gioca sulla celebre frase delle banconote dei dollari USA : in god we trust, anybody else pay cash.
16. Slave to the rhythm il titolo originale http://www.youtube.com/watch?v=72d5-xP5SnM
17. Tributo a Peter Gabriel, http://www.youtube.com/watch?v=bo9riZYUpTw, con doppiosenso su “shock”, o “scioc” come sciocco, anche l’asino (“donkey-donchi”)
18. Nessun senso. Solo tanta bellezza nel ritmo dei 4 quasituttineo-tri-lettere-logismi.
19. Riferimento al Torquemada http://it.wikipedia.org/wiki/Tom%C3%A1s_de_Torquemada come rappresentante di spicco dell’inquisizione (inquiry zone : zona di inchiesta) che rappresento appunto un momento di devianza e ribaltamento della conoscenza in pratiche e comportamenti di assoluta ignoranza.
20. L'organza è un tessuto sottile e trasparente, ad armatura tela, realizzato con il filato di seta organzino. Simboleggia e rappresenta cose preziose.
21. In siciliano, a rappresentare l’antica cultura di origine greca di cui prima.
22. In Italia il fumo uccide. In Spagna “può” uccidere. Che fa una bella differenza, lasciando aperta la strada al dubbio. Si rinvia ad altri scritti per la disquisizione sulla verità di un “dubito ergo sum” rispetto al “cogito ergo sum”
23. Organo riproduttivo maschile in spagnolo. In italiano : il cazzo.

CIBO PER LA MENTE ? NADA !
Siamo nel 2013. Qua si parla di venti anni fa.
Dal centro sociale nella stecca di Milano, i Casinò Royale avevano già tutto affrescato. Il titolo è una
citazione da un loro pezzo che si chiama “Pronti al peggio”.
La Stecca non c’è più. E se volete provare immaginare che fine abbia fatto, sono sicuro che la risposta vi si presenterà facilmente.
Area urbana centrale occupata. Poco ci vuole a immaginare i bulldozer che la spianano per costruirci sopra l’ennesima torre o roba simile.
Ma qualcuno si è mai chiesto che cazzo continuano a costruire a fare ? E soprattutto chi cazzo se le compra o se le affitta tutte queste costruzioni ?
Siamo un paese, checché ne dicano, oramai in costante recessione. E questo vuol dire che il segmento
business (o affari per gli italofili) si riduce sempre di più.
Popolazione sempre stabile intorno ai 60 milioni, se diamo retta all’Istat. Ma in realtà la “razza italiana” cala e solo l’immigrazione italianamente riconosciuta tiene le statistiche a galla.
E meno male. Che quelli almeno hanno ancora voglia di lavorare. Peccato per i profughi e i clandestini
rispediti indietro. Fosse per me ne nazionalizzerei una ventina di milioni. Oltre a tutti i benefici derivabili
dalla mescolanza, almeno l’Inps avrebbe i soldi per pagare le pensioni tra dieci anni o venti anni.
Ma comunque questi “neoterroni” qui non vanno mica a vivere nei palazzi da cinquemila o più euro al metro quadro.
E quindi ?
Quindi ci prendono per il culo, come al solito.
L’unica spiegazione plausibile a questa costante crescita edilizia è solo la necessità di reimpiegare profitti derivanti da attività illecite o sommerse. Droga, armi, prostituzione, evasione, sommerso in genere e altre.
I soldi quindi ci sono a vagonate, ma stanno nei posti sbagliati dove vengono nascosti, e provengono da
attività sbagliate.
Ne sono talmente certo che sono disposto a scommetterci. Si, mi ci gioco un euro. Tutto intero. Senza
centesimi. E lo faccio dall’alto di una laurea alla rinomata Bocconi, decenni di esperienza in campo
economico-finanziario e alcuni mesi di ricerca tra i dati di Fondo monetario, Ocse e altri.
Comunque a questo punto ci si chiederà cosa c’entra tutto ciò con il cibo per la mente.
C’entra, c’entra eccome.
Se qualcuno ha letto Manuel Vasquez Montalban, dovrebbe ricordarsi del suo informatore delle ramblas di Barcellona “Bromuro”, cosiddetto perché non beveva mai acqua dagli acquedotti pubblici, e quindi era obbligato a bere solo alcolici, perché era sicuro che nell’acqua ci mettessero il bromuro in modo da tenere le masse “tranquille”.
Io sono piuttosto certo che hanno trovato il modo di diffondere eroina o oppio nell’aria. In modo che proprio nessuno possa scappare. E secondo me è una questione di onde. Televisive, di telefonia, dei cellulari.
Solo così si riesce a spiegare come si possano tenere a bada 60 milioni di persone di fronte a un progressivo scempio del mondo creato nel dopoguerra.
Che poi non è nemmeno una questione di rispetto per i nostri nonni. In fondo chi se ne frega.
Ma quello che mi chiedo io è semplice : “possibile che a così tanti questo mondo stia bene ? Possibile che ogni bisogno imposto ce lo beviamo come acqua fresca ? Tra questi quello delle nuove costruzioni, appunto.
50/60 anni fa per comperarsi una casa ci volevano 5/6 anni di mutuo. Dieci anni fa sono diventati 20/30
anni. Praticamente adesso per comperarsi una casa di quelle costruite al posto della stecca, ci vorranno due generazioni della stessa famiglia.
Ma chi lo ha deciso ? E soprattutto perché tutti crediamo che sia una buona cosa ?
Per comprarsi un essere umano basta una coca-cola o un viaggio alle Maldive o una borsetta griffata?
Evidentemente si. È questione di scala dei bisogni, quella di Manslow. Fino a che non soddisfo quelli di
base non mi frega niente di quelli del gradino successivo. E quindi per quella borsetta sono ben disposto a non pensare. Anzi non rompetemi i coglioni con dubbi e pulci nell’orecchio !
Il problema è che i bisogni di ogni gradino difficilmente sono bisogni “autoctoni di quel gradino”, ma molto più spesso sono indotti. Su quel gradino ce li ha messi qualcuno. E perché la scala stia in piedi l’importante è tenere tutti buoni al loro posto senza farsi troppe domande. Per me con l’eroina aerea o l’oppio etereo, appunto.
Il paradosso è che nonostante questa costante attività soporifera, questo mondo è ancora il migliore mai
esistito. E cito Karl Popper, non me stesso. 130 anni fa c’erano al mondo meno di un miliardo di persone, di cui la stragrande maggioranza, ipotizziamo più del 90%, viveva in condizioni di indigenza o di schiavitù.
Oggi di oltre 6 miliardi di persone diciamo che almeno un paio di miliardi se la cavano, certo spesso tra
difficoltà e malattie.
Ciò vuol dire un 30%, che partendo dal 5-10% è un bel salto.
Ma ad andare avanti così come si farà a mantenerci tutti quanti ? Dove andremo a finire ? Quante case
dovremmo comprare?
E qua ritorniamo nel pieno del tema.
Prima del cibo per il fisico ci vorrebbe quello per la mente.
O meglio, dato per assunto (per altro non scontato, almeno nella consapevolezza della relatività spazio
temporale) che il cibo fisico lo abbiamo, allora adesso è indispensabile quello del gradino successivo.
Il cibo per la mente.
Almeno io ne sono convinto. E’ solo il pensiero che potrà salvarci.
Anche se qui entriamo in un altro tema che è quello della definizione di pensiero. La mia è “allargata” a
includere tutti i sensi e tutte le forme di percezione, non soltanto la ragione.
Ma questo è un altro gradino. Che probabilmente posso dire di avere fatto grazie anche alla mia manìa.
Per posizionarsi sul gradino del pensiero comunque bisogna essere consapevoli del sistema che in molti
modi si adopera per farci credere di essere pensanti, mentre il nostro pensiero è condizionato da
socializzazione e stimoli vari costanti, subliminali o no, che ci condizionano più o meno come possiamo fare noi con i cani. Se a un cane insegno che al movimento del mio avambraccio parte un osso da rincorrere e poi rosicchiare, dopo lui partirà ogni volta che muovo l’avambraccio. Anche se la mano è vuota.
Una volta, fino a una decina di anni fa, il modo più funzionale era la televisione. L’immagine entra nel
cervello alla velocità della luce, incanalandosi nei percorsi cerebrali in maniera incontrollabile, ma di sicuro efficace. Diciamo “pervasiva”.
L’unione sovietica crollò anche perchè aprì alle televisioni occidentali. Secondo me, almeno. Come si
controllano le masse se fai vedere a chi non ha niente di materiale “il sogno consumistico” ogni tre per due ?
Facendoti credere che alla festa di quel sogno puoi partecipare anche tu. Anche in questo caso è questione di posizionamento sulla scala dei bisogni, ovviamente.
Per chi non credesse alla storia del URSS, si provi a riflettere su noi stessi. Da quando in Italia alcuni
decenni fa è entrata la televisione commerciale, “all’americana”, e fino ad oggi, sembra che tutti viviamo in un telefilm intervallato dalla pubblicità. I valori, i modelli di comportamento, gli stili di vita, i bisogni, sono omologati a quelli impliciti nel modello consumistico continuamente bombardatoci addosso.
Oggi abbiamo addirittura fatto un salto di scala. Il modo ancor più funzionale è internet e le telecomunicazioni in genere. Si sono pure inventati i social networks. Si comunica costantemente, a tweets o no, e in tempo reale tutto il mondo.
Tutti si omologano e tutti si imitano.
E tutti diventano bersagli per messaggi pubblicitari. Addirittura ad personam. La realtà è che a questo serve internet. A questo serve essere “mobile and always on” come si dice in gergo. Siamo raggiungibili e rintracciabili dovunque e quindi siamo “cooptabili”, assimilabili, omologabili o comunque sfruttabili.
Tutto questo ragionamento dove va a parare, e ancora una volta, cosa c’entra ?
Sempre come prima, c’entra c’entra.
Quel che si vede prodotto da iniziative specifiche come ad esempio quelle di un gruppo che si definisce
RariEventi che si propone per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica ai problemi di salute mentale,
gruppo a cui partecipo come volontario dalla parte dei malati, è frutto di iniziative personali assemblate in gruppo.
Ma queste iniziative sono possibili grazie ad un sistema sanitario nazionale che, nel bene e nel male,
permette l’esistenza di Asl, Cps ed in generale di cure e assistenza a soggetti, tra cui il sottoscritto, che
hanno il principale problema di essere “diversi”.
Questo meccanismo non è nato né da solo e né dal nulla.
E’ stato pensato, o se preferite concepito. Sia in termini metaforici che reali (anche se fortunatamente non ho dovuto assistere all’amplesso primigenio. Immaginatevi Basaglia a letto con la legge nr.xxx).
Tutto ciò grazie a delle menti che avevano avuto il cibo necessario e giusto. E sono state capaci di concepire un modo diverso di vedere questa realtà.
Io lo dico partendo dalla mia esperienza personale.
Se fossi vissuto qualche decennio fa mi avrebbero chiuso tutta la vita in un manicomio da cui non sarei mai uscito.
Sempre citando Bandabardò a me tanto cari “la fortuna è un fatto di geografia” e io aggiungo anche di
“momento”.
Se si continua sul sentiero attuale, anche solo per un banale meccanismo anagrafico, il pensiero di tutte
queste menti andrà progressivamente ad essere sostituito da quello di nuove menti che dei principi e delle idee una volta fondanti ignorano persino l’esistenza.
Finiremo dunque nella bulimia mentale.
Abboffarsi di conoscenza, di cui oramai siamo bombardati e intrisi, ma senza una mente cresciuta in tal
guisa da poterla gestire o digerire.
Soltanto nozioni, trangugiate per poi rigurgitarle.
Niente cuore, niente anima.
Oddio, già lo sento.
Mi vien da vomitare.
Ma tutto questo è noto già a molti.
Resta un tema da affrontare e dirimere : quale è il cibo per la mente nella sua essenza? Dove si trova ? E come ce lo si procura ?
Risponderei : io sono il matto. Non tocca mica a me decidere quale sia.
Ma una cosa la so.
La stragrande maggioranza degli esseri umani ha dentro di se la capacità di discernere tra bene e male.
Si faccia affidamento su quella, allora.
Come disse una scrittrice : “andiamo dove ci porta il cuore”.
Il cibo per la mente sta nell’anima.
O no ?

COCAINA: “SEMBRA” CHE NON FACCIA NIENTE
Una bella festa. Almeno così sembra dalle luci. Non so per quale motivo la prima cosa a saltare
all’occhio sono sempre le luci. Forse perché sono effettivamente la prima cosa che si vede.
Giardino a giorno, fiaccole accese, piscina illuminata, musica in sottofondo. Tutto al proprio posto.
Scendiamo dalla macchina. L’emozione si agita nel mio intestino all’idea di chissà quali
trasgressioni potranno presentarmisi in quel posto. E’ la prima volta che vengo invitato, almeno di
sera, in questo casa che nel mio immaginario collettivo (proprio così, “mio” come la “mia” pubblica
quiete) rappresenta l’apoteosi della trasgressione controllata.
Il mio amico mi parlava spesso dei pomeriggi che passavano in quella piscina, che adesso così
illuminata pareva un palcoscenico. Mi sbalorditiva la differenza di estrazione sociale dei
frequentatori, ma ancora di più la promiscuità che io mi ero figurato.
A nulla valeva il fatto di esserci già stato, in un pomeriggio afoso e assolato dove ero così disagio
che non feci nemmeno il bagno, e di avere verificato che il pomeriggio non si trasformò in un set da
girone dantesco dei lussuriosi.
“Questa è una sera non un ordinario pomeriggio, qualcosa succederà di sicuro” pensai.
Mentre avanziamo verso la casa, assorto nel mio turbinio io, e solida nelle sue certezze lei, ecco che
si presenta innanzi a noi.
“Gran paio di tette”. “Naturali, lo so per certo, eppur hanno qualcosa di asettico. In fondo è una
peccato.” .Tette troppo cariche di aspettative. Probabilmente non reggono il peso della
responsabilità.
“Ciao, come va?” dice (ovviamente).
“Bene, e tu?” rispondo (ovviamente).
“Venite, fate come a casa vostra” conclude (ovviamente).
“Cazzo, tutto qui?” dissi tra me e me. “Nulla di più originale?”.
La festa: tutto normale, come deve essere ad un festa. Gente che beve, che parla, che vaga o che
resta seduta in osservazione. Nessun amplesso collettivo, nessun nano, ballerina o trapezista,
nessuna musica live a ritmare l’amplesso collettivo o quello tra nano e ballerina e trapezista.
Neppure un misero poeta, o pianista, o…
“Ehi, ma qui è tutto normale”, mi dico.
L’unica cosa che mi schiaffeggia la vista è la quantità di trofei di caccia appesi ovunque. Un paio di
gazzelle sono finite addirittura in bagno, condannate per l’eternità a guardare una tazza di cesso. Un
bel salto rispetto alla savana africana. Se un inferno esiste, per la gazzella doveva essere di certo
quello. In un improbabile legge del contrappasso, una condanna così stava a significare che era stata
troppo miope per continuare a vivere non essendo riuscita a guardarsi intorno a sufficienza per
capire di dovere scappare.
“Certo che se proprio non sapevano dove metterle potevano lasciarle a casa loro”, penso, mentre
qualcuno mi spiega che il padrone era un appassionato di caccia grossa, uno dei primi safaristi
italiani in Africa.
Trattengo a stento l’istinto di moralizzare sul consumismo delle emozioni del safari in genere; e
figuriamoci se non è nemmeno accompagnato dalla poesia di Hemingway!
Non mi pare bello concedermi simili pensieri in casa altrui, in fondo sono trofei esposti bene
all’interno della proprietà, nulla che sia esposto in maniera da offendere la morale comune. Quindi
sto zitto. Non voglio neppure rischiare di essere etnocentrico o unimoralistico. “Forse lì si fa così,
forse per lui era normale” mi dico.
D’altronde non posso mica rischiare di mandare tutti a quel paese, perdendomi chissà quali
sorprese. E mentre rifletto sul da farsi, mi siedo.
Di fronte a me, incorniciato, un articolo di giornale ingiallito spicca tra peli, lingue, orecchie e occhi
rassegnatamente spenti.
La cesta di un boia dopo una mattinata di esecuzioni. Manca solo il sangue, al posto del quale un
fiume di bevande scorre tra gli invitati, per lo più indifferenti allo spettacolo.
L’articolo parla ovviamente di uno dei primi safaristi italiani, perlomeno così deduco dal titolo che
è l’unica cosa che riesco a leggere dalla mia postazione. Spicca con orgoglio in mezzo al massacro
come a sancire l’autorevolezza dell’autore (del massacro, intendo). Che mi ricorda un generale che
scende dalla sua postazione di osservazione sul campo di battaglia dopo la precipitosa ritirata del
nemico per contarne orgogliosamente le vittime. “Una buona giornata, oggi ne abbiamo fatti fuori
più di mille” rivolto all’assistente di campo di turno che nella fattispecie dovrei essere io.
Mentre cerco di svincolarmi dall’autorità del generale rivolgendo lo sguardo altrove, ecco che lo
stesso mi cade sul mio basso e scomodo scranno.
“Cazzo, è una zampa d’elefante”, tra sgomento, disgusto e mal celata curiosità.
Il primo pensiero che mi viene è che in giro non ho visto zanne o teste o altre parti del macellato
pachiderma. “Ecco, come sempre a noi italiani lasciano gli scarti e come sempre noi li prendiamo
ringraziando. Gli è già andata bene che non gli hanno lasciato peni, o sfinteri, o chissà cos’altro”.
Ma in un istante vengo riportato alla realtà: “Assistente !”
“Si, generale, agli ordini !”
“Ci vuole un trofeo per il nostro comandante in capo, cosa suggerisce?”
“…Veramente, non saprei Signore. Gli alleati hanno già…”
“Assistente! Non mi interessa cosa hanno fatto gli alleati! Seghi una zampa di questo elefante
immediatamente! Saremo in marcia tra mezz’ora!”
“Ma, generale, io veramente…”
“Assistente! Non discuta gli ordini! Seghi e basta! Venti minuti! Ne ha già persi dieci!”
E ora ? Con cosa cazzo la sego ? E poi le vene saranno ancora piene di sangue. E poi, quanto
peserà? Cazzo, cazzo, cazzo tutto per quello stronzo di comandante safarista in capo!
Meglio darsi da fare, però. Altrimenti quell’altro stronzo di invasato chissà cosa mi farà. Come la
sego?
“Ehi, soldato”
“Si signore”
“Vieni qui con quel mitragliatore”
“Signore , quale mitragliacosa?..Io ho solo il mio fucile.”
“Vieni qui e basta. Non sai che tra vent’anni si userà il mitragliatore? Sarai un precursore, un
innovatore, l’Archimede del massacro all’elefante.”
Prendo un ramo e lo appoggio sul margine della caviglia dell’animale, all’incirca all’altezza del mio
culo quando ci ero seduto sopra.
“Avanti, segui la linea del ramo e spara alla zampa! Dall’alto, a perpendicolo, non in diagonale
altrimenti viene fuori un trapezio! A noi serve una parallelepipedo, deve diventare uno sgabello” gli
dico cercando di imporre alla barbarie uno schema di razionale, geometrica astrazione.
“Si, Signore! ….. Scusi Signore, cos’è un perpendicolo? “
“Avanti! Spara! Idiota”. E lui spara. Una lunga raffica che attraverso mille zampilli sgorga in una
pozza degna della maestosità di una rubizza fontana di Trevi e che alla fine sortisce l’effetto
desiderato. Il soldato safarista, che nell’operazione è divenuto rosso di sangue come un cardinale,
non ha bisogno di schemi di razionale, geometrica astrazione. Lui è abituato a macellare, non ci fa
più caso. Un po’ come i padroni di casa. Non fanno più caso alla platea di occhi rassegnatamente
spenti ma pur pieni di una sorta di compassione che li guardano addirittura nell’intimità
dell’espletamento delle loro funzioni fisiologiche.
“Ehi, Caronte !”. “Ufh, meno male, stavo solo sognando ad occhi aperti”.
“Dimmi”. E’ la padrona di casa, meno male che non può entrare nei miei pensieri.
“Hai visto A?”, “No”, rispondo. “E’ di sopra, ti stava cercando”.
“Adesso vado”. Mentre pensi a dove sarà lei, la tua dolce unità, sei già in moto verso la scala.
Per la scala ti pare di camminare lungo una grottesca inversione di Forche Caudine. Tu, che almeno
per genetica, sei il vincitore e il carnefice, sfili sovrastato dalla solita ala di corna appartenute agli
sconfitti che ti accompagnano verso la luce del trionfo. Non sei tu il carnefice materiale, ma ti senti
colpito da una sorta di nemesi della specie.
In cima lo spettacolo è immutato. Pareti e corridoi tappezzati delle stesse corna. Oramai ci stai
facendo l’abitudine. A tratti ti pare anche caratteristico, quasi ti sembra di sentire il sole africano
bruciarti l’habitat dell’alopecia. In effetti la tipica magione delle umide e nebbiose pianure locali ne
risulta irradiata. Un dubbio ti assale: forse la motivazione del safarista era quella di portare a casa
l’arredamento per le sue pareti. Più economico della solarità dei Girasoli di Van Gogh. Fossi stato
altrove, al Sud, avresti potuto pensare che tale abbondanza di corna fosse scaramantica, ma non qui.
Ancora non riesci a rassegnarti, ancora cerchi una spiegazione.
Da una stanza provengono le voci, quelle che cercavi. La porta è socchiusa, il corridoio e le altre
camere, silenti e deserte, contrastano con quel brusio.
Alla porta la prima cosa che salta all’occhio è che in quella camera da letto non ci sono trofei.
Probabilmente era troppo; averli attorno anche nel sonno. In compenso c’è una piccola folla, tutta di
buon umore, in fila davanti ad uno scrittoio. Se non fosse per il buon umore, parrebbe di essere in
quelle scene che si vedono nei film quando i carcerati stanno in coda per il pasto. Mai nessuna
metafora fu più azzeccata.
Strano mondo, pensi: alle pareti cadaveri anziché quadri, alla festa nessuno ma tutti in una stanza. E
tanto basta. Il fatto che sia strano, intendo. Non è forse quello che cercavi? Certo non ci sono i nani,
le ballerine, i trapezisti tutti allacciati in acrobatici amplessi, ma qualcosa da raccontarti ce l’hai di
sicuro.
E mentre cerchi di capire cosa fare, dove sei, chi sei, dalla fila spunta A visibilmente soddisfatto
che, sollevando il capo, ti riconosce ed in preda al buonumore urla :” Ehi ragazzi, fermi tutti, una
per il mio amico Caronte”. Tutti si voltano, indecisi se accogliermi o sbranarmi. Il branco di leoni
studia il nuovo maschio errante. Poi il buon umore prende il sopravvento e il Mar Rosso si divide
innanzi a me per rivelare alla mia vista la Terra Promessa.
Un piccolo monticello di polvere bianca. La madre di tutte le trasgressioni, feconda genitrice di
tutto quel buon umore, subdola artefice della grandezza della serata.
“Vuoi un tiro, Caronte?” dice A con il tono che non ammette repliche né concede spiegazioni. Una
cosa ti è chiara : si tratta di qualche droga, ma quale? Come se potesse fare qualche differenza.
E mentre ci rifletti ti accorgi che davanti ai tuoi occhi si esibisce, prodigo di personaggi, il circo che
tanto cercavi. In maniera figurata e in miniatura, è fatto di carte di credito, dita operose, strisce e
banconote arrotolate, lo scrittoio si anima di vita propria e, sotto la luce artificiale dei riflettori
accesi per tenere l’aria più calda ed asciutta, cattura l’attenzione assoluta del pubblico astante.
Il quale viene chiamato a turno a scendere nell’arena per essere oggetto del numero più atteso: il
“tiro alla riga”.
Non puoi esimerti, e non perché tu non ti voglia sentire diverso, ma solo ed esclusivamente perché
quel monticello ha qualcosa che non sai definire. Non te lo puoi perdere. Senza rendertene conto,
hai già perso in partenza: è più forte di te.
”Certo”, rispondi ad A, mentre tra le tue dita hai già, non sai come, la banconota arrotolata.
Prendi fiato, ti abbassi sullo scrittoio, un tiro solo e la riga è scomparsa. Per tutti sei subito
“Hoover”, l’aspirapolvere. E’ già una sfida, quindi!
“Un’altra” dice A e tu obbedisci ligio all’ordine non di A ma del monticello che ti chiama come Dio
chiamò Mosè a ricevere le Tavole. Il tuo monte Ararat.
Vuoi forse tirarti indietro al cospetto del tuo nuovo Dio? Impossibile, e la seconda riga è scomparsa.
Mentre cedi il posto allo spettatore seguente, tutti ti osservano con aria di interrogativo scherno e A
ti chiede :” Allora?”
“Non mi fa niente” rispondi. La madre di tutte le risposte, quella che tutti aspettano per esplodere in
una fragorosa risata che nulla ha a che vedere con il contesto. Ma questo è il segreto, appunto.
“Sai, la coca è così. Sembra
Ancora non sa che il meno che ti possa fare è aprire e tenere spalancata una porta, di certo non lo sai
neppure tu.
che non ti faccia nulla” sentenzia A.
Lo spettacolo dura ancora qualche minuto, giusto il tempo di esibirti un altro paio di volte, poi la
conclusione. Tutti fuori dal tendone e di nuovo alle prese con la festa.
Ah, già, la festa. E lei dove sarà? La tua ragazza.
Mentre la cerchi con lo sguardo ti rendi conto che qualcosa è cambiato. Gli sguardi dei trofei non ti
cercano più o almeno così ti pare mentre uno strano formicolio, di cui non ti accorgi nemmeno, ti
pervade il corpo, ma soprattutto quella parte del corpo che era l’unica da evitare. Eh si, perché è
quell’unica parte del corpo maschile forte altrettanto, se non di più, del cervello. Anzi, senz’altro di
più. E’ quell’unica parte che ti può mettere nei guai.
Il monticello ha trovato il suo più fedele alleato: il tuo uccello.
Subito la controprova: ti si avvicina la padrona di casa, quella che un’ora prima ti aveva offerto in
bella mostra le sue tette “asettiche”. Appena le vedi questa volta un’onda ti monta dai piedi alla
punta dei capelli per poi rifluire, come la risacca, fino a concentrarsi tutta nel tuo uccello. Dentro al
quale ti pare di essere stato trascinato completamente anche tu.
Una novella visione new age: il tuo uccello è te, tu sei il tuo uccello.
L’unica cosa che riesci a pensare è che lui o tu o entrambi, vorreste volare tra le sue cosce per
dimostrarle che non trovi in nessun angolo del suo corpo nulla di asettico. Tutto il resto non esiste,
l’unica visione che ti è concessa è la stessa di un mulo con il paraocchi. Diritto fino alla meta.
Il tutto mentre ti osservi dall’esterno, incapace di capire che sei in preda al primo sdoppiamento di
personalità. Di quelli che ti porteranno lontano, così lontano da farti supporre di non chiamarti
Caronte, ma che questo sia il soprannome affibbiatoti da chissachi per la tua doppiezza.
“Allora?”, dice.
“Tutto ok” rispondo.
Pare che sia il genere di conversazione più gradita qui. Quella fatta di brevi domande senza
importanza ed ovvie piccole risposte insignificanti. E mentre ti concedi a questa profonda analisi, ti
accorgi che adesso, contrariamente a prima, ciò è meno importante anzi, va proprio bene così.
“Cos’altro c’è da dirsi?” pensi mentre il tuo uccello, come una bacchetta da rabdomante, vibra alla
volta di lei ignara.
Forse non così ignara, dopotutto, perché alla mia risposta sorride allusiva (almeno così ti piace
credere) e se ne va.
Ti guardi in giro in cerca di lei, la tua ragazza.
adesso neppure uno dei trofei alle pareti si mette ad emanare sul locale e su di te quell’aura di
tristezza. Anzi, tutto pare esotico in abbondanza. Occhi ammiccanti, corna protese in inchini sinceri,
ti riconoscono: sei il principe della savana.
La musica d’improvviso è eccezionale, ti entra dentro, la senti. Addirittura da ballare. Non lo fai da
dieci anni, ma adesso ti senti Barishnikov e come, tutti i grandi ballerini, senti la musica in quanto
idea non avendo dunque bisogno di quella da te preferita.
La gente parla ride e scherza e tu ti ritrovi nel loro stesso stato d’animo. Ti fermi a chiacchierare
con chi capita. Sempre lo stesso genere di conversazione, quella ideale fatta di tre parole per
interlocutore. Le tre parole inutili più pregne di impliciti e strabilianti significati mai pronunciate.
Prendi qualcosa da bere: un whisky e ghiaccio. Davvero eccezionale. A base di whisky dozzinale,
quello delle feste, che per qualche impercettibile alchimia diventa la più fantastica riserva scozzese.
Il whisky della regina, The Crown Blended.
Ti accendi l’immancabile sigaretta, come se con la padrona di casa avessi realmente avuto il
rapporto più rapporto che mente umana abbia mai concepito. La prima boccata ti rimette in circolo
tutto quello che ti è capitato dall’ingresso nella stanza in poi. La sigaretta dell’Olimpo, una miscela
dei migliori tabacchi riservati agli Dei. L’ambrosia delle sigarette.
Insomma stai d’un gran bene, meglio che mai. Tutto è ideale ma ne tu ne il tuo io che ti osserva se
ne rendono conto o comunque non del perché.
Qualcosa è cambiato, rispetto a quando sei arrivato alla festa, ma di certo sarà a causa delle tue
enormi capacità di controllare o almeno influenzare il contesto che ti circonda. Il primo accenno di
delirio di onnipotenza.
Ma tu non te ne accorgi.
Non puoi, l’alleanza monticello-uccello opera subdola, sotterranea. Un’intricata rete di servizi
segreti, capace di dosare con misura la propria presenza.
“Andiamo ?”, ti risveglia lei. ed in meno che non si dica è tempo di andare.
“Cazzo, proprio adesso”, pensi mentre lei ti fa notare che è passato un tempo immemorabile da
quando siete arrivati. Strano, a te sembravano pochi minuti ed invece è quasi mattina, tra meno di
una manciata d’ore devi essere al lavoro e non sei ancora a casa.
“Chi se ne fotte”, è la seconda cosa che ti viene in mente, mentre salutando vi avviate alla
macchina.
“Belle tette, chissà il culo” è il terzo e più impegnativo pensiero, magistralmente elaborato con le
ultime energie mentre saluti la padrona di casa ripensando a quel nano-dialogo pieno di tutti i
sottintesi mai sottintesi.
L’auto si mette in moto perentoria. Un bel rombo, la senti in assetto, aspetta solo il tuo volere.
Simbolo e metafora di istinti sessuali maschili, dicono. Hanno ragione. Ed il tuo volere non può che
essere uno: inserita la prima, piede a mezz’altezza sul gas, sterzo a quarantacinque gradi e ….. via!
Molli la frizione, un metro, leggero sovrasterzo, leggera controcorrezione, allineamento, partenza!
Dietro di te una gragnuola di sassi rischia di fare, in una frazione di secondo, una strage tra gli ospiti
partenti degna di quella esibita in casa, frutto della dedizione di una vita di un safarista
qualunquista.
“Cazzo, c’era la ghiaia. Vai, vai, vai,... Del resto figurati se mi metto a controllare cosa c’è per terra.
La prossima volta mettano l’asfalto se vogliono evitare problemi. Anzi se mi dicono qualcosa
chiedo i danni per la mia carrozzeria” Wow, quanta piacevole sicurezza e consapevolezza di sé!
“Ma che fai? Non hai visto che c’era la ghiaia? Torniamo a vedere se è successo qualcosa” dice
lucidamente lei .
“Ma sei rincoglionita? Che cazzo vuoi che me ne fotta! E poi quei coglioni non hanno preso la
targa, avevo i fari ancora spenti!” Perlomeno un pensiero compiuto oltre al campionario di
sessualità ancora imperante nella mia testa. Certo non dei migliori, ma pur sempre un pensiero.
Lei mi guarda, incredula: l’hanno rapito, forse gli alieni, forse la CIA, e l’hanno sostituito con un
sosia, un attore sconosciuto, di quelli da cinema verità, reclutato sul set di chissà quale film di storie
di strada. “E dire che sembrava una così brava persona”; sembra di sentirla la signora medio
borghese un po’ agée, che ci guarda dall’alto della sua poltrona di parrucchiere, interrompendo la
lettura (si fa per dire) di un rotocalco oramai liso dal passaggio tra innumerevoli mani curate a festa.
Mani di quelle per le quali è sempre festa e con le quali non può certo stridere una capigliatura male
acconciata. (Che cazzo c’entra? Niente, comunque è carina ).
Mentre l’auto scivola leggera, i fari gialli contromano (da Vinicio Capossela.), lei ci riprova
:”Caronte, leva gli abbaglianti, possono dare fastidio”
“E tu credi che possa sbattermene qualcosa? Sai che cazzo me ne fotte di questa manica di stronzi
ancora in giro a quest’ora di mattina?” rispondi con tutta la crudeltà che avresti dovuto avere
quando interpretavi il ruolo di assistente al generale. Eppure allora non eri così. Non volevi neppure
appropriarti di una zampa di carcassa d’elefante già maciullato!
Un effetto l’hai ottenuto: hai creato un microclima artico all’interno dell’abitacolo della macchina.
E’ calato un tale gelo che ti aspetti di vedere da un momento all’altro la slitta e le renne di babbo
Natale (sempre se non passa nei dintorni qualche safarista). Un gelo che ti richiude nell’igloo dei
tuoi pensieri. Glaciali ed impenetrabili.
Fino a quando vi ritrovate alla destinazione, casa sua, dove la devi lasciare.
“Tutto bene”, fa lei?
“Certo, certo” rispondi con meccanica freddezza.
“Ci sentiamo domani. Cioè oggi?”
“Certo”.
“Ti amo”.
“Anch’io” che è la frase universalmente riconosciuta per dire, se non il contrario, almeno “non
rompere”.
“Ciao”.
“Ciao”.
Appena scesa dalla macchina, il clima artico si trasforma istantanemente in un torrido ambiente
africano. Un disgelo così forte e veloce che nessun effetto-serra ad oggi conosciuto avrebbe potuto
creare. Un disgelo da fantascienza. Un disgelo fantachimico.
Metti in moto e ti dirigi verso casa, almeno così credi. Perché d’improvviso ti accorgi che la strada
che percorri non è quella che ti porterà a casa, almeno non direttamente. Certo ci si può arrivare
anche da qui, ma è più lunga.
Quattro ore e devi essere al lavoro. Ancora buio pesto. Non un’anima in giro; in questa zona della
città è normale. I semafori lampeggiano, sono stati spenti. Secondo una sadica logica per la quale
chi fosse in giro a quest’ora sarebbe così sobrio, equilibrato e lucido da intimorirsi dinnanzi al
dubbioso semaforo intermittente molto più che davanti ad un rassicurante, imperativo rosso.
La causa della maggior parte degli incidenti cittadini notturni: le perversioni psicologiche di
qualche assessore al traffico.
A conferma non ne manco uno. Li infilo tutti in sequenza come perline arancioni di una collana
urbanistica lungo la quale sfreccio in una gara automobilistica alla quale sono l’unico partecipante.
Fortunatamente.
“Forse sono passato di qui perché è una delle vie più belle della città” rifletti. Ed in effetti… Una
lunga serie di palazzi ‘800, tutti curvi e disposti a semicerchio attorno a quanto di meglio la città
stessa offra sotto il profilo monumentale e ambientalistico. Ai bordi della strada alberi secolari,
ippocastani credo, nel pieno della loro forma tardo-primaverile.
“Proprio bello, si”. Mentre qualcosa ti attorciglia le budella. Impercettibilmente, almeno fino a
domani. Quando ti renderai conto che la cosa più attorcigliata era la tua testa, non le budella.
E quando sei quasi alla fine del giro turistico che ti stai offrendo, ecco apparire la visione mistica
che stavi inconsciamente aspettando.
Al margine della strada, in doppia fila dal lato opposto al tuo, un’auto con i fari ed i lampeggianti
accesi come un simbolico albero di natale.
Bianco.
E’ un’auto di grossa cilindrata, di lusso. Una Mercedes, forse. O una Jaguar. O una Bmw.
Bianca.
“Ma che importanza ha?” non fai nemmeno in tempo a pensare che dalla macchina emerge una
postmoderna Venere urbana. Eterea, alta, sinuosa.
Bianca.
Un pensiero, uno solo. Primigenio, assoluto, omnicomprensivo :
“Minchia!”
Sei a duecento metri, e con una istantaneità di cui non ti sospettavi minimamente dotato, recepisci
l’immagine, valuti l’ora, cancelli lei - la tua fidanzata, dimentichi il lavoro, ponderi le infinite
possibilità della tua macchina e…. tiri una pedata sul pedale del freno che avrebbe fatto imbizzarrire
persino un ronzino da traino.
E invece ti scopri negli arti una sensibilità da campione del mondo di rally sul ghiaccio. Senza
nemmeno le ruote chiodate.
Una nuvola di gomma spalmata sull’asfalto. 150 metri, 100, 50, … freno a mano, mezzo testa coda,
ti affianchi, ti fermi! Con il motore ancora in moto.
Wow!
Mentre cerchi di respirare regolarmente per rallentare il tuo cuore che ha assunto lo stesso ritmo dei
pistoni del motore, apri il finestrino del lato passeggero e lei ti fa:
“Ciaaoo! Maa chi sei? Sei divinoo!”
Strano tono di voce, ma le orecchie sono piene del rimbombo del tuo cuore. Non ti sorprende più di
tanto.
“Ciao, e tu chi sei”? Riesci a biascicare mentre cerchi di guardarla. Ma la prospettiva dal finestrino
dell’auto le taglia la testa che tu subito ti immagini appesa tra i trofei del safarista.
“Moa coome, soonoo la tua Edy. Noon mi ricoonosci?”
“Veramente non mi pare che ci siamo mai incontrati.”
Si china, coma farebbe una giraffa durante un documentario, per infilare la testa nel finestrino. Era
molto in alto, la testa. Più che per una questione di collo, per una di tacchi.
“Moa noon sei Gioovanni! Lui arriva sempre coome te.”
Mentre parla le osservi capelli finti, viso liftato, zigomi rialzati, labbra gonfiate. D’un lampo li
associ al tono di voce.
“Cazzo, è un travestito!”. Stupore? Disgusto? Delusione? Stai cercando di scegliere quale emozione
metterti addosso, quando fulmineo il tuo uccello prende in mano le redini e tu ti ritrovi ad essere il
mulo con il paraocchi. Lo stesso formicolio della seconda festa, quella che hai trovato una volta
tornato dal piano superiore. Un formicolio che non sai che ti pervade, almeno fino al giorno dopo.
Un dubbio “Come sarà?”. E poi “Perché no?”.
Fino a qualche ora prima, non avevi mai pensato che potesse succedere. Non a te. Fermarsi da una
battona di strada. E nemmeno da una donna! Addirittura un uomo! In effetti più che un uomo, una
straordinaria incarnazione dell’immagine che l’uomo ha della donna, bisogna ammetterlo.
Impeccabile operazione di mercato imperniata su questa creatura mitologica pansessuale.
“Quanto?” dici succinto mentre consideri quanto sopra e altro. La sinteticità di chi non vuole essere
troppo esplicito. Come se ci fosse qualche altra possibilità. Che so, tipo “Quanto tempo ci vuole da
qui a quell’altro paese a dorso di mulo?”
“Cinquanta” risponde altrettanto succinta. La sinteticità di chi vuole essere completamente esplicito
sapendo che null’altro c’è da dire.
“Ok”. Sintesi suprema di ogni sinteticità. Due lettere che ti catapultano nella Mercedes o Jaguar o
Bmw. Bianca. Con i pantaloni slacciati attorno ad un totem, simbolo di ciò che vorresti venerare e
che non sei.
Eterni secondi di attesa.
“Noon ti aabbassi i paantaalooni?”
“Ah!” …...“Fatto”.
Il totem viene coperto come un monumento da proteggere dalle intemperie. Il preservativo, simbolo
della perfetta preorganizzazione della perfetta operazione di mercato rivolta al pubblico dei
formicolii.
Totem che d’improvviso, con il favore della copertura, viene trafugato da chissà quale genio del
crimine. Sotto la copertura, istantaneamente più nulla. Sparito. Come in quelle leggende
metropolitane che attribuiscono agli abitanti di Napoli la capacità di fare sparire una portaerei sotto
gli occhi dei legittimi proprietari, liberatori e conquistatori americani
Una liberazione, appunto. Un raro caso di sconfitta dell’asse monticello-uccello da parte delle forze
delle stanchezza.
Eterni secondi di attesa.
“Maa tu hai pippaatoo!”
“Scusa?”
“Maa ragazzi, quante volte vi devoo dire di noon pippare la merdaa, che pooi non vi tiraa più. Se
volete pippaare, dovete pippaare la roobaa buoonaa. Dovete venire daallaa ziaa Edy!!”.
Cerchi di capire cosa stia dicendo, cosa stia succedendo, cosa tu sia facendo con i pantaloni a mezza
gamba. Ti volti appena e sotto il tuo naso si è materializzata non sai come una gigantesca mano,
mano di fatica, mano di uomo, nerboruta (come si dice in questi casi) all’estremità del cui mignolo
un’improbabile unghia, inchinata in gesto di devota venerazione, si protende verso la tua narice
carica della stessa polvere bianca.
Formicoli, abbassi il capo, tiri. Botta. “Hey guys, Hoover is back!”
Tutto torna d’incanto perfetto. Il totem oramai non ha più importanza, viene riposto a dovere. La
notte è bellissima, lei è tutto il circo che tanto cercavi concentrato in un’unica attrazione, l’unghia
lavora nel doppiofondo di un portacipria come una ruspa in un cantiere edile e ……
“Cazzo, merda, puttana; hops, scusa non parlavo di te. Tra un’ora devo essere al lavoro, devo
proprio scappare!” Anche se ti pare di sentirti fresco come una rosa.
“Aaspettaa, Aaspettaa, tieni questaa, altrimenti ooggi noon ce la faai a staare sveglioo” . Mi allunga
una bustina, io devo correre, non ho tempo di pensare o forse preferisco credere che sia così, la
prendo, pago e mentre vado via lei mi chiama.
“Aaspettaa, Aaspettaa, tieni questoo, è il mioo numeroo. Chiaamaami aal cellulaare, coosì noon
coomprate più la merdaa”. Ok, Ok, tutto, pur di andare a casa.
E il numero finisce ben riposto nel portafogli.
Ti cala addosso una strana pace, mista di stanchezza e rassegnazione. Forse una punta di
autocommiserazione. Una specie di crepuscolo delle emozioni che poi diventa sipario delle
emozioni.
E’ l’alba, le strade cominciano ad animarsi. Le prime macchine. Qualche fantasma va al lavoro. Su
tutti un dettaglio ti stordisce, un suono che imparerai ad odiare.
Gli uccellini cinguettano.
Una serie di pensieri emerge a fatica dalle nebbie della confusione della serata. Il circo, il pilota
d’auto da corsa, il gelo artico con la fidanzata, il travestito. Cosa ti è successo? Chi eri? Cosa
volevi?
Domande alla quali l’unica risposta te l’aveva già data A.
“Sai, la coca è così. Sembra che non ti faccia nulla.”

PER CONCLUDERE
Sono affetto da una malattia psichiatrica definita disturbo bipolare. Sono cioè soggetto a sbalzi di
umore verso la depressione o verso la manìa.
Non ho mai avuto depressione “pesante”, mentre ho avuto in vita mia alcune “crisi maniacali” che
in greco antico venivano definite come “furore profetico”.
Sono periodi di forte accelerazione biochimica autoindotta e determinata da eccesso di secrezione di
dopamina, endorfine e altre “ine”
Insomma la coca sono io.
Ma con tutte le conseguenze del caso.
Ho voluto parlare di quanto sopra per cercare di spiegare i pericoli, e soprattutto la subdola natura
della cocaina, ma anche un altro concetto fondamentale che mi spiegarono vari medici.
Ogni tossicodipendente sceglie la sua droga sulla base delle proprie caratteristiche personali di
fondo.
Così io non sono mai stato eroinomane, ad esempio, proprio per abitudine e necessità di
accelerazione.
Ma in conclusione, voglio dire che come sia sia alla fine e nell’essenza, non c’è nulla di bello.
E lo dico dall’alto delle mie crisi maniacali, che sono talmente forti che non esiste cocaina che
possa paragonarvisi. Lo dico, cioè, perché io ho vissuto la vera accelerazione, lucidità e
amplificazione. Talmente forte da diventare delirio anche allucinatorio.
Nella cocaina, a parte il fatto che è cocaina, non c’è nulla di bello. E’ autoreferenziale. E’ progettata
in maniera tale da renderla “bella” soltanto in se stessa. E se anche invece non sembrasse così, si
tenga sempre presente che le sensazioni e gli schemi di pensiero sotto cocaina non sono veri.
Non è vero che semplicemente “amplifica” o “rende più lucidi”.
Quello che si pensa e che si fa sotto effetto di cocaina non è quello che si penserebbe o farebbe in
condizioni normali.
La cocaina tira fuori da ogni Dr Jeckyll ogni Mr Hyde.
Sempre.
E a tutti.
Ma quel che è ancora peggio e che si impadronisce della volontà.
La volontà, per essere reale, deve essere appoggiata sulla dimensione spazio tempo.
Ma con la coca questa dimensione diventa una serie infinita di istanti finiti.
Volere si vuole, ma ogni istante si riparte. Il che equivale a non avere più volontà, appunto.
Perché la volontà che dura 1 secondo viene subito sostituita da qualcosa d’altro.
Questo è il rischio della velocità artificiale: quello che ti fotte non è il voglio, ma quando lo voglio..

FANTASIA BLU
Stamattina non è diversa dal solito. Anche se dicono che io stia meglio. I medici, intendo.
Diversi mesi fa mi è stata diagnosticata un comune forma di bipolarismo, alla quale viene attribuito
quasi tutto quello che mi è capitato negli ultimi dieci anni. In parole povere sono strutturalmente
soggetto a sbalzi d’umore che sono le cause prime dei fenomeni della mia vita. Una bella
soddisfazione, soprattutto per chi si era convinto di averla decisamente condotta. La propria vita.
D’altronde chi altri con questo nome, Caronte, non sarebbe soggetto a detti sbalzi? Le due sponde
dello Stige, bene o male, vita o morte, euforia o depressione, alla fine è un destino già segnato
dall’origine. Vorrei vedere!
A me piace definirmi in modo meno tecnico: sono ‘nu pazzariello.
A ben vedere la “patologia” offre anche i suoi vantaggi. Oltre a darti la giustificazione, nei confronti
del prossimo tuo, per una gran parte delle stronzate che ti vengono in mente, verso te stesso offre la
pratica soluzione di avere sempre qualcuno con cui prendersela. L’altra parte di te dall’umore
opposto a quello in cui sei.
Quando sei depresso, puoi incazzarti con quell’altro idiota di te stesso sempre allegro, sempre up,
che quando serve non c’è mai. E quando sei euforico ecco quel noioso del depresso, che fa sempre
capolino da qualche parte per rovinarti la festa, che diventa l’ideale bersaglio delle tue paure che la
festa stessa finisca.
Il brutto è che tu sai già che la festa finirà perchè sai già che nessuno dei due può averla sempre
vinta e al tempo stesso, non sai perché, non riesci a mettere la stessa convinzione nell’altro senso.
Quando sei quello down ti pare proprio che sarà sempre così.
E quando sei up, idem.
In pratica, comunque, è come avere un fratello che a seconda dei rispettivi punti di vista è sempre e
comunque un rompicoglioni.
Di certo c’è che sei sempre in compagnia.
In ogni caso l’alternanza (nulla a che fare quella tra destra e sinistra) ha in qualche modo a che fare
con il turbinio :………….. Nel senso che sembra che quando non lasci l’umore libero di sbalzare,
ecco che quello prende giustamente a vorticarti nel cervello con il rischio che si impunti di botto
facendoti una sorta di elettroshock o corto circuito sul primo pensiero che capita, che a quel punto ti
si inchioda fisso ed indelebile nella mente.
Il problema è che, non so per quale perverso motivo, di solito si tratta di uno di quei pensieri che ti
hanno insegnato di non dovere pensare.
Forse è una prova alla quale il buon Dio ti sottopone, un po’ come per Gesù nel deserto. E tu devi
cercare di seguire gli insegnamenti e di distoglierti da quel chiodo fisso.
E così ecco che da due siamo diventati tre fratelli, il terzo dei quali cerca di infilarsi tra i primi due
litiganti, di dividerli (come se già non lo fossero a sufficienza), e di imporsi.
Certo è che da soli, in due, o in tre, siamo sempre dei rompicoglioni. Sogno uno di questi giorni in
cui spunterà una sorella, bellissima e intelligentissima, per la quale non potranno che sorgerci
pensieri incestuosi che risolveranno qualsiasi conflitto tra di noi facendoci accordare almeno su di
una cosa.
Ma nel frattempo per fermare turbinio e rimbalzi tra di noi devo cercare di pensare ad altro.
Dopo un certo numero di volte l’esercizio diventa più difficile. Perché gli argomenti di distrazione,
perdendo progressivamente di interesse, diventano sempre meno.
All’inizio è facile pensare in primo luogo alla natura che, ovviamente, per contrasto con il contesto
abituale, cattura tutta l’attenzione riuscendo a fare svanire l’effetto elettroshock di cui prima. Ma
dopo un po’ è naturale che, essendo le immagini sempre le stesse, rientrino in un contesto abituale
passando quasi inosservate.
Oggi è uno di quei giorni in cui non funziona nulla. Praticamente come la maggior parte dei giorni.
Ho provato con le notizie (scontate), il lavoro (noioso) , la montagna (fredda) , il mare (caldo), ma il
chiodo riamane fisso, solido come un chiodo da rocciatore, piantato al centro dei miei pensieri.
Un’ultima speranza si affaccia alla mia mente, proprio come se avesse scalato una parete di roccia
di non so quale grado (non me ne intendo) ma di quelle lisce e diritte come quella di un grattacielo,
il tutto usando proprio il chiodo da rocciatore conficcato nei miei pensieri.
Che beffa per il chiodo, diventato strumento della propria sconfitta! Ma lui si ritira paziente,
discreto, con la serenità di chi sa benissimo che domani è un altro giorno, che un’altra occasione si
presenterà.
E’ l’idea di un viaggio che mi ha salvato. Forse perché è una metafora dell’”andare fuori”; forse
senza neanche usare il “forse”.
“Certo che è una metafora, è evidente che è un succedaneo al tuo chiodo da roccia”, mi dico. Ma
tanto basta.
Di colpo mi trovo altrove.
Una buia mattina d’estate.
Soltanto i primi bagliori di un’alba che si nasconde nelle pieghe del territorio circostante. Montagne
a picco sul mare. E’ un’alba di mare, appunto. Sono quelle montagne che, quando eri giovane, ti
davano la scusa e l’illusione di doverci salire sopra e aspettare il momento in cui sorgesse il sole per
poterlo vedere prima degli altri.
“Tutti sulla montagna più alta! Da lì lo vedremo prima!” Chissà prima di cosa o di chi. L’illusione
di potere anticipare o impadronirsi di un fenomeno di per sé immutabile come l’alba, una di quelle
certezze che ti riportano alla solida immutabilità dell’alternarsi dei fenomeni naturali.
Ma tu, giovane, avevi la certezza di essere più furbo dell’alba e tanto ti era sufficiente.
Una buia, calda mattina d’estate.
Calda se non fosse per questa leggera brezza che spira fresca, costante e determinata spinta da quel
semplicissimo fenomeno fisico di masse di aria calda e fredda che si sostituiscono di posto e che
ancora ti ricordi di avere studiato al liceo. E pur tuttavia senza che ancora ti riesca di ricordare in
che senso vadano.
Quanta poca giustizia rende la fisica a questa “refolella” che ti avvolge, increspando l’acqua in
modo così regolare da sembrare realmente creata da una serie di equazioni matematiche e che con
lenta, caparbia determinazione ti da la sicurezza di essersi presentata solo per allontanare con
dolcezza la notte. Anche dalla tua mente!
Mais enfin! : il turbinìo viene sempre più allontanato. O meglio pare che la brezza abbia la forza di
invertire il senso della spirale sul cui binario il turbinìo stesso scorre. Così invece di continuare a
progredire sempre più veloce verso l’ esterno indefinito, d’improvviso ti accorgi che sta regredendo
diretto verso il ben definito ed univoco punto d’origine. Si sta fermando.
Di nuovo qualche certezza. Almeno un punto.
Una buia, calda, silenziosa mattina d’estate.
Un silenzio totale, assoluto, perfetto. Un silenzio di Dio, se ti è consentito. Nemmeno i gabbiani,
integri nella loro unità con l’alternarsi naturale delle cose, hanno ancora iniziato a volare
riempiendo il cielo del loro tragicomico lamento. Quel suono grasso, pesante del tutto contrastante
con l’immagine di leggerezza con la quale padroneggiano in maniera assoluta ben due elementi.
In porto come nello studio, il mio rifugio, è proprio il caso di dire : “non vola un gabbiano”.
Qualcosa si inizia a definire, a parte il fatto che è l’alba: sono in un porto, il che spiega perché sono
al mare e lascia presagire che il viaggio salvifico, quello che ha schiodato il chiodo fisso, sia un
viaggio di mare. Bene, ecco che la mia unica certezza, il punto principe della spirale, si è
manifestato.
Ci prepariamo a salpare, l’emozione più grande di qualsiasi viaggio, ma in particolare di quelli di
mare. Quella che annulla tutte le altre, soprattutto quelle a cui stavi pensando mentre cercavi di
distogliertene.
Qua si sta giocando con l’acqua. Uno dei 4 elementi. Non si scherza. Con l’aria ci ho già giocato.
Una volta ho addirittura fatto il vento e poi ci ho volato dentro. Ma l’acqua fa più paura.
Mille controlli, tutti nella tua testa. Tutto deve essere perfetto, in mare è d’obbligo, in mare non si
scherza.
Ottimo esercizio per canalizzare il turbinio verso il suo punto di origine e focalizzarlo verso l’unica
cosa che conti: la rotta da seguire.
Tutto è pronto, vai al quadro elettrico di comando. La barca è di quelle a motore, due motori per la
precisione, una bella sicurezza. Solidi e veloci. Giri la prima chiave di accensione, un gesto fatto
mille volte che ripeti sempre con un’ombra di apprensione razionalmente ingiustificata: “non mi
tradire”, pensi. L’esercizio di controllo delle tue paure.
In una frazione di secondo un boato distrugge quel silenzio che il buon Dio aveva impiegato tutta la
notte a costruire. Proprio nel momento in cui il sole, come un esploratore in una giungla difficile da
penetrare, fa breccia attraverso la cresta boscosa della montagna e la brezza cessa di spirare.
I gabbiani si alzano in volo sovrastati nel loro grido dal rombo meccanico che hai appena creato. Un
pensiero che dovresti evitare: sembra proprio che, come per un direttore d’orchestra, gli elementi
abbiano risposto ordinati al tuo gesto con la chiave.
Nell’emozione di tanta potenza la seconda chiave non fa più paura. Nulla di tutto ciò che ti circonda
ti ha tradito, non sarà certo un motore, frutto di millenni di evoluzione dell’uomo verso il controllo
di ciò che lo circonda, a fare storie. Giri la chiave : lo stesso rombo, nessun capriccio, tutto a posto.
Pronti, mollate gli ormeggi!
Ancora le tue paure. La manovra, ripetuta mille volte, ma sempre lo stesso dubbio. Non sono più gli
elementi che devi controllare ora, ma solo te stesso. E 20 tonnellate di barca. Due motori, un solo
colpo di gas, avanti adagio.
Lasci fare alla fisica delle forze, la barca segue l’abbrivio. Al punto giusto, come le altre mille volte,
sfrutti non sai quale geniale scoperta dell’essere umano e avvii la controrotazione delle eliche per
fare girare la barca: motore sinistro avanti, destro indietro.
La barca inizia a ruotare su se stessa in quel modo che ti sbalordisce sempre, come se dovesse
spezzarsi o ribellarsi al fatto di doversi dividere in due per soddisfare i tuoi desideri. “Schizotimoneria”.
Ogni volta che lo fai, non sai per quale motivo, ti viene in mente che è lo stesso
principio con cui si guidano i carri armati. Forse ciò che è stupefacente è che con una sola
schematizzazione di principi fisici (in effetti non mi pare nemmeno una scoperta) si riescono a
dominare ben due elementi. Acqua e Terra.
Come i gabbiani, che però pur non hanno studiato, ma padroneggiano aria e acqua.
Tutto ciò ti fa riflettere sul fatto che se non fosse per l’intelletto, l’uomo, specie fisicamente non
certo vincente, sarebbe già estinta. Millenni sono stati necessari al fine di fare ciò che i gabbiani
fanno da sempre. E senza dovere costruire barche o carri armati o aerei.
E mentre vigili, affascinato e assorto nei tuoi pensieri, anche questa volta la barca esegue gli ordini
in maniera ligia, chissà con quanta frustrazione, e tu sei pronto per procedere verso il mare aperto.
“Velocità massima 3 nodi”, recita il cartello sull’ultimo molo di protezione del porto, supremo e
finale tentativo, per ora riuscito, di resistere alla forza delle tempeste invernali.
“Ne facciamo 5, cazzo. Non posso farne di meno!”. E’ una vita che ti chiedi quando cambieranno
questo regolamento che ti mette fuori legge praticamente ovunque e che ti impone ogni volta di
sentirti come un ragazzino dopo la solita marachella. Senso di colpa. Chissà perché. Forse perché
anche questa è una metafora della tua vita: è da sempre che viaggi più veloce del consentito. Ma
sarà poi vero? Questo è quello che ti dicono tutti. Ma sarà poi vero ?
Si inzia a vedere. Il mare aperto. Leggera virata, a sinistra, verso Sud. Il Sud. Ti sorprende sempre
dove stia. Te lo aspetti sempre da un’altra parte, e invece l’ironia della geografia, e soprattutto di
una bussola, ti fa dirigere proprio dove devi andare. Assolutamente diretto verso il nulla. Sempre un
attimo di dubbio.
E’ uno degli spettacoli più grandiosi che occhio umano possa recepire: quell’unica linea diritta,
interminabile, infinita, lungo la quale cielo e terra si ricongiungono nell’unità assoluta. L’orizzonte.
Mille storie, mille miti, uno su tutti, quello principe, la suprema metafora del viaggio di Ulisse.
Un solo rimpianto: sei in un posto dove il territorio non ti consente di appropriarti della grandezza
di un’alba vera. L’unica alba vera, quella che si aspetta tutta la notte quando si è in mezzo al mare.
Tutt’altra mistica rispetto a quelle di terra.
Perché il palcoscenico è quello di una tragedia greca a 360 gradi. Nessuna scenografia, solo un
unico orizzonte circolare che ti circonda, perché al centro del palcoscenico ci sei tu che osservi.
Un infinito principio dei vasi comunicanti fa sì che le tenebre cedano il passo alla luce con una
categorica lentezza che ti fa chiedere ad ogni istante cosa succederà in quello successivo e
soprattutto se l’esito sarà quello che ti immagini. Una guerra dal finale scontato, ma pur sempre da
terminare. Nessun tramonto è così. Ogni tramonto al massimo è una ritirata strategica.
Le stelle hanno perso gradatamente di lucentezza, mentre l’apice della luce indica il punto dove
bisogna aspettarsi che sorga il sole, quello che usiamo definire Est. Poi all’improvviso lo squarcio, e
la netta percezione dell’immensa fatica che il sole fa a sollevarsi, appoggiato con invisibili possenti
braccia, al di là del muro dell’orizzonte. Eppur ogni volta lo stesso risultato: guadagnato il campo,
un trionfo. La continua rappresentazione di una tragedia dal finale conosciuto.
Non esiste null’altro di così assoluto. Almeno credo.
Alba di mare : acqua e fuoco.
Con il rammarico della perdita della scena iniziale di quella tragedia il cui esito è oramai e come
sempre scontato, do un’occhiata alla strumentazione. Motori ancora freddi, bisogna dar loro tempo,
ancora cinque nodi.
Voglia di accelerare, Impazienza, all’andata di ogni viaggio di mare è sempre così. Sempre più che
al ritorno.
“Mare forza olio” sentenzia Aldo ridacchiando. Lui se ne intende, non solo perché è del posto e
perché ne ha viste tante nel suo mestiere e passione di pescatore, ma soprattutto perché lui è uno che
il mare ce l’ha dentro, lo sente, ci parla.
Certo che questa volta era facile: non un alito di vento, non un’increspatura, non una nuvola in tutto
il campo visivo. Procediamo come una palla da biliardo su di un tavolo azzurro.
Ci consultiamo, i motori sono pronti ad assolvere al loro compito, noi un po’ meno. C’è sempre una
sorta di apprensione all’idea di accelerare verso il nulla. Ancora un dubbio sulla rotta. E vorrei
vedere. Siamo proprio diretti verso il nulla. Controllo ancora gli strumenti, quelli moderni e
tecnologici, il Gps per intenderci. Gps: Ground Positioning System, sistema di posizionamento sul
territorio; ma noi non siamo sul territorio, siamo su di un tavolo da biliardo pieno d’acqua. E se si
sbagliasse ? se ci fossero delle correnti ? se ci fosse vento ? se…? …Sempre le solite paure,
inconsce ed irrazionali. Eppur comunque sane.
Ma c’è la soluzione, una controprova. Il metodo antico fatto di carte nautiche e soprattutto
dell’immancabilmente sbalorditiva bussola. Traccio, calcolo, verifico : tutto in ordine, siamo pronti
davvero, il Gps non sbagliava, buona bussola non mente.
Avanti, miei prodi. Suoniamo la carica, ma con dolcezza. Una progressiva accelerazione verso lo
stesso punto immaginario dietro al quale si naconde la buca scelta per noi dal nostro giocatore di
biliardo. Per ora non si vede: ottima difesa, palla /buca coperta.
Il nostro giocatore prende la mira, un paio di oscillazioni dell’avambraccio, poi un colpo secco che
ci imprime la forza per farci rotolare fino a raggiungere il régime ottimale di navigazione.
20 nodi. “A 9 nodi appena, si è un punto fermo nel mare” cantava Fossati. A 20 non cambia nulla,
se non la scia che ti lasci alle spalle, piatta, ed il rumore che ti rimane nel cervello. Davanti a te tutto
è uguale, tu sei sempre allo stesso punto di partenza. Un ottimo esercizio di conferma della relatività
spazio temporale in assenza di riferimenti oggettivi per la misurazione della velocità.
Il rumore è talmente costante da sembrare silenzio. Sai già che saranno quattro ore della più
assoluta monotonia. Se non fosse che sei in mare che per qualche incomprensibile alchimia è
tutt’altro che monotono. Oltre all’aspetto esteriore, è pieno di pensieri, emozioni, paure, aspettative.
Questa è l’essenza e il segreto. Il viaggio è talmente uniforme che sei sia immerso nei tuoi pensieri
sia totalmente proteso alla ricerca di qualcosa di diverso. Una nuvola sull’orizzonte, un uccello, un
pesce, un rifiuto galleggiante o addirittura un’alterazione del rumore. Quando nulla di tutto ciò si
manifesta, ecco che il cervello riesce a deviare dall’insostenibile monotonia con le proprie forze. E
ti presenta tutto un mondo fatto di te stesso: puoi immergerti nei tuoi pensieri,
Dietro di noi la costa si allontana sempre più. Pare proprio così in effetti, ma noi che abbiamo
studiato sappiamo e siamo certi del contrario. Siamo noi ad allontanarci. Fino ad un punto in cui già
sappiamo che non si vedrà più e che nemmeno quella di destinazione si sarà ancora rivelata.
Un’ora di navigazione al buio. Spesso mi dico che la vera destinazione di quella traversata è proprio
quel tratto cieco. Il più carico di emozione e di aspettativa. Che finisca. Quello dal quale apparirà la
soluzione al pensiero che non si ferma. Quella che ti darà l’occasione di gridare per primo “terra,
america”!
Ma è anche quello dove sai che può sempre succedere qualcosa di straordinario.
Passa il tempo che deve passare, quello che si era calcolato, e…. ci siamo.
Il buio. Un buio blu che ti avvolge, dentro mare e cielo, in tutte le sue gradazioni.
Qualcosa succederà.
E una specie di strana percezione : sai che qualcosa sta per succedere. Non sai ne come ne perché.
Ma intuisci che bisogna assimilarsi a tutta quell’acqua e a quel cielo.
Non si può essere una rombante palla di biliardo, perché così si è solo una ferita nel corpo unico di
quello che ci circonda. Così proprio non si è per niente Zen.
Bisogna rallentare e fermarsi. Appena fermi spegnere i motori. La palla si ferma lentamente sul
panno azzurro.
I passeggeri spuntano fuori all’improvviso, smettono di prendere il sole o di dormire o di mangiare,
e preoccupati si affacciano verso di te tutti con la stessa apprensione: cosa è successo ? cosa c’è che
non va ?
Tu rispondi soltanto : “Adesso giochiamo”.
Come spesso ti capita tutti ti guardano e pensano, forse giustamente, “questo è matto”.
Di colpo: “Ehi ragazzi, qualcosa all’orizzonte.”
Un’increspatura sorge a tratti dal pelo dell’acqua.
O forse no.
“Che ne dite, cos’è?”.
Forse…
Noo.
Ma si!
Dici?
Sii!
Eccoli!
Delfini!
Incredibili.
Sembrano l’unica cosa che ci sia. In effetti sono l’unica cosa che c’è. Sono i signori di quel mare.
Vengono a controllarti per decidere se consentirti il passaggio. Speriamo bene!
Peccato non avere del pesce, dovevamo pensarci. Magari riuscivamo a corromperli.
Ma loro ti umiliano; non hanno nessun bisogno del tuo pesce stantio. E tu, primate terraiolo, sei un
povero idiota se pensi di potere comperare il mare!
Ti girano in torno, qualcuno salta, ma più che altro ti guardano. Solo una cosa interessa loro. E tu
devi sapergliela dare con dolcezza e delicatezza, con rispetto.
Insomma quanto ci metti a capire cosa vogliono da te ?
Vogliono semplicemente, essenzialmente, giocare !
L’unico prezzo che devi pagare è che devi farli divertire per qualche momento !.
Dove altro al mondo puoi trovare tanta dimostrazione di armonia, di integrità e in fondo di pietà nei
tuoi confronti ?
Tu che credi di essere il padrone del mondo, che viaggi in lungo e in largo per espropriare ed
appropriarti di paesaggi, animali, culture, della loro dignità riducendoli a spettacolo di cabaret per il
tuo feriale divertimento.
Qui non puoi. Qui sono i delfini che decidono se rivelarsi, e se lo fanno sei tu il loro patetico
spettacolo, con la tua misera barca carica di paure sulla tenuta, e sulla rotta e su chissà cos’altro….
Uno spettacolo da commiserare. Forse non vogliono solo giocare, forse vogliono sfotterci.
Non si sa come, tu sei certo di avere compreso i loro desideri, accendi i motori e metti in marcia la
barca. 5 nodi. La scia della barca ha una geometria ad onde corte e più alte. Non da più l’idea della
ferita ma piuttosto quella di chi ti sta alle costole e rotolando su se stessa cerca di raggiungerti.
E mentre la osservi, eccoli che ci sbucano dentro, in formazione.
Tre per onda su ogni lato si allineano, si immergono e rispuntano. Tutti a cavalcare in ordinata
formazione la tua scia di onde artificiali.
A bocca spalancata li osserviamo tutti: ”Stanno facendo surf !! Ma chi glielo ha insegnato?”
“Ma brutto imbecille.” Sembra di sentirlo, Nettuno. “Sono loro che lo hanno insegnato a voi”.
Se ancora avevi dei dubbi sulla loro intelligenza, ecco che sotto la prua arrivano i doganieri.
Perfettamente sincroni con la barca, si girano su di un fianco, e ti scrutano con l’occhio più analitico
di quello di qualsiasi doganiere mai incontrato. A lungo. Fissandoti. Penetrando i tuoi pensieri.
Poi all’improvviso si reimmergono, spariscono. Sono andati a consultarsi. Ci lasciano in
apprensione. Quale sarà il verdetto?
E mentre ci interroghiamo tra di noi, da una profondità insospettata per quel tavolo da biliardo,
rispuntano, si affiancano, si girano sul fianco e riprendono a scrutarci.
Un brivido ci corre lungo la schiena. Forse non abbiamo passato l’esame, o forse non sono sicuri.
Dopo qualche istante capita una cosa incredibile, più della vista dei surfisti. Ci sembra impossibile,
ma pare proprio che scuotano la testa.
Non di lato, nel modo tipico che vuol dire no, ma in avanti e indietro. Quasi con sufficienza: “ Si, si
andate, va’. Povere nullità” paiono dirci. “Fateci divertire ancora un po’, poi levatevi dalle balle che
fate un casino e una puzza d’inferno con ‘sto catorcio”.
Scomparsi, di nuovo.
Qualche attimo e ce li ritroviamo tutti sulla scia, di nuovo incomprensibilmente tre per onda, questa
volta anche con i piccoli che rompono casualmente la formazione saltando fuori, piroettando,
giravoltando da tutte le parti.
E’ il gran finale.
Scomparsi.
“Tornano, tornano”
“Noo”
“Ma si, ti dico che tornano”
“Ma no, si sono stufati”
Intorno a noi il tavolo da biliardo è completamente liscio.
7 nodi. Ancora
“Ehi, eccoli!”
“Dove!”
“Laggiù, stanno andando via”
A tratti qualcuno ancora salta, ancora inebriato, come se dovesse smaltire l’ubriacatura. Poi nulla
più.
Restiamo soli con un’incolmabile sensazione di vuoto. Quella che resta dopo le forti emozioni.
Quelle che ti sbattono con le spalle contro il muro della tua piccolezza.
Nessuno parla. Il silenzio del rombo dei motori fornisce a tutti un nascondiglio; per non doversi
confrontare. In attesa che dal nulla che ci circonda accada qualcos’altro.
Che a questo punto tutti desideriamo essere l’avvistamento della terra. Inutile nasconderlo:
l’incontro con i delfini è appagante e mortificante al tempo stesso, tanto da costringerci a pensare al
ritorno sul nostro elemento.
Siamo in due a conoscere questa rotta ed il modo con cui, in generale, tutto appare. Per gli altri è la
prima volta.
E’ pur sempre vero, che la prima cosa che vedi non è mai ciò che ti aspetti. Che messa così pare
quasi una regola di vita più che di navigazione.
Si, perché uno crede che avvistare terra voglia dire avvistare la costa, uno scoglio, un tronco
galleggiante.
Ed invece nulla di così solido.
Il meglio che ti è concesso è una nuvola, quando ti è concessa. Altrimenti devi aspettare ancora.
Nuvola che devi sapere riconoscere come nuvola di terra. Altrimenti,…. Mica sono tutte uguali le
nuvole
“Sai, stavamo pescando su una secca parecchio al largo io e x!” mi racconta Aldo “ed era un punto
eccezionale, per la pesca intendo, per cui perdemmo la cognizione del tempo e dell’orientamento e
di quello che succedeva. Quando finimmo, una densa foschia di calura aveva nascosto tutto. La
classica cappa di calimma dei 40 gradi del sud. Quella che al Nord avete solo d’inverno per qualche
processo fisico inverso. Si, la vostra nebbia! Anche noi ce l’abbiamo, cosa credete. Quando fa
molto caldo. Comunque, eravamo soli in mezzo la nulla, come io e te adesso. Non avevamo
strumenti, allora vedemmo una nuvola. Ci consultammo e decidemmo che era di terra e ci
dirigemmo verso di essa. Finché non finì la miscela senza che avessimo avvistato nemmeno una
svrenzola di terra. Ci ritrovarono dei pescatori due giorni dopo. Settanta miglia a Sud di dove
eravamo partiti. Dopo la nuvola ci aveva pensato la corrente.”
“La morale è: mai fidarsi delle nuvole di terra. Continua a seguire la bussola, che per ora coincide
con la nuvola, ma non ti fid…...”
“Ehi, no questa volta l’ho vista! Eccola! Fidati pure!”
“Dove, dove?” echeggio io
“Proprio sotto la nuvola. Il cono!”
“Si, è vero”“Terra, terra!” urliamo a tutti. Una liberazione.
“Dove, dove?” Si alza all’unisono un coro dalla barca.
“Proprio sotto la nuvola. Il cono!”, rispondiamo noi.
Il cono.?! Uno scherzo! Cosa vuole dire “il cono”? Tutti ci guardano, un po’ straniti. Percepiamo
che stanno valutando l’integrità delle nostre facoltà mentali. Un colpo di sole è sempre di attualità a
queste latitudini. O longitudini. Chi si ricorda? Insomma, sotto questo fuoco.
Poi il primo.
“Siii. Eccolo. Eccolo.”
“Dove, dove?”
“La, la.”
“Non lo vedo, non lo vedo.”
“La, la.”
“Sii,sii.”
“Il cono, il cono.”
Incapaci di stare dietro all’eco di euforia che rimbomba da una murata all’altra dell’imbarcazione,
io e Aldo ci guardiamo. Sogghignando. Chissà che il colpo di sole non lo abbiano preso i nostri
passeggeri.
O forse è semplicemente la leggerezza per avere raggiunto la meta. Come nei film di emigranti
verso l’America, quando su una nave stipata come una tortiera di alici c’è sempre quello più sveglio
di tutti che da il la ad un coro festoso che, tu spettatore, sai già essere foriero di chissà quali
sventure. Secondo la nota logica per la quale “‘o cane mozzica siempr’ ‘o stracciato”, emigrare non
è uno scherzo.
Il nostro carico di emigranti turistici invece è alla ricerca del loro sogno feriale che consenta il
ritorno a casa con già in testa un’altra meta da raggiungere. Nelle prossime ferie.
Questa volta è il cono.
Imponente e possente dimostrazione di realtà dell’improbabilità. E’ un cono perfetto, dalle pareti
nere quasi del tutto prive di vegetazione, piazzato lì come un imbuto appoggiato al rovescio sul
nostro tavolo da biliardo pieno d’acqua. Dove per qualche incomprensibile legge fisica, galleggia.
Un vulcano.
Dimora di Eolo secondo gli antichi greci.
L’isola di Stromboli.
Mille metri di imbuto. In realtà tremila, a partire dal fondo del mare. Perché contrariamente a ciò
che sembra non galleggia, ma perfora il tavolo da biliardo di due volte l’altezza che vediamo fino ad
appoggiarsi dove è naturale che si appoggi. Sul fondo del mare.
Tremila metri di pareti scoscese tutte dello stesso grado.
Provare ad ancorarsi è un impresa. Cinquanta metri di catena d’ancora bastano a farti stare lontano
dalla riva di una decina di metri appena. L’incubo di qualsiasi marinaio in tempi di tempesta. Basta
un’onda a farti ritrovare incluso nella parete di lava, pronto a diventare un incomprensibile fossile
per i geologi del prossimo milioneennio.
Ma noi non siamo marinai, e quindi ci ancoriamo con tutti i tremila metri che contemporaneamente,
ci incombono sulla testa e ci sprofondano dentro il baratro.
E mentre fissi il centro della convergenza dei raggi solari verso un punto del profondo dell’abisso,
lentamente una visione si fa più nitida.
Una forma conosciuta, almeno così pare.
Blu.
Ma cosa è?
“Non capisco” ti dici.
“Qui a Stromboli?”
“Ma poi sospesa a mezz’acqua, sotto agli occhi!”
“Possibile?”
Sulla barca non c’è più un rumore. Tutti sembrano scomparsi.
“Non li ho visti scendere a terra, dove saranno andati?”
Lentamente la postazione di guida sulla quale sei seduto comincia a muoversi. Verso il basso.
Sembra sprofondare, diretta alla volta dell’origine dell’imbuto.
O verso quella forma che si distingue al centro della convergenza dei raggi solari.
Blu.
“Cazzo, sto affondando.”
“Ma come è possibile? Non abbiamo urtato nulla, non ci sono falle, gli assi delle eliche non
imbarcano acqua, cosa succede?”
E mentre cerchi di renderti conto, ti accorgi che nulla c’è più da fare, stai proprio affondando,
diretto al centro della convergenza dei raggi solari.
“Merda, e adesso come facciamo a tornare indietro?”
Non puoi dire di avere paura; tutto avviene con una tale dolcezza, e con una tale lenta gradualità, e
sei così vicino alla riva, e a bordo non c’e nessuno. Insomma il naufragio ideale.
Ma perché? Perché?
Poi affiora. Un’idea, un pensiero. Lentamente si fa strada tra le certezze della tua visione dell’isola.
E dei delfini.
Finchè senti un tuffo al cuore e ti accorgi che sei nell’acqua.
Gelida.
“Ma come è possibile che sia gelida, siamo vicino ad un vulcano o no?”
“Si ma in fondo dove sta scritto che deve essere calda, ci sono mille correnti anche qui.”
Non tutto ciò che immagini è realmente come ti immagini.
E mentre speri che tutti questi pensieri non comincino a turbinare per trascinarti verso il fondo, ecco
l’appiglio che cercavi.
Al centro della convergenza dei raggi solari.
Blu.
Una poltrona.
Sospesa a mezz’acqua?
Ti volti a destra, poi a sinistra, la barca non c’è più, l’isola sta sprofondando anch’essa. Stai
assistendo ad uno straordinario fenomeno geologico. “Affogherò, ma ne valeva la pena” pensi.
“Chissà i poveretti che ci vivevano sopra, a quest’isola”, consideri per un attimo dimenticandoti che
sei appeso ad una poltrona che non dovrebbe galleggiare e che da un momento all’altro potrebbe
tirarti a fondo. Devi badare prima a te stesso. Un’altra regola di vita.
Cerchi di levarti l’acqua dagli occhi, ma come d’incanto : asciutto.
Ti guardi in giro e di acqua neanche l’ombra.
Sulla poltrona ora ci sei seduto.
E’ blu.
Come quelle del tuo studio, del rifugio. Quello dove ti chiudi la mattina presto, quando il turbinio ti
impone una sveglia che nemmeno i corpi speciali militari osserverebbero.
Lentamente si dipana la matassa. “Ah già, lo studio, il turbinio, dovevo deviare il pensiero dalle
cose negative, quelle a cui non posso più pensare dopo le esperienze avute, d’improvviso mi sono
ritrovato altrove. Si, Si, al mare. Una buia mattina d’estate. Un viaggio”.
“Wow! Certo che è stato un bel trip”.
E subito una vocina, fatta di decine di voci che ti hanno consigliato, hai seguito, hai soddisfatto o
hai rifiutato, ti stoppa.
“Un bel trip, hai detto?”, ma non dovevi viaggiare per non pensare ad uno di quei pensieri che ti è
stato insegnato di non dovere pensare?
“Un bel trip” non è pensiero negativo”, cerchi di convincerla.
“Sicuro?”senti subito rimbombarti nelle orecchie.
“Va bene, va bene, smetto. Torno a dormire” mentre dentro di te maledici quella vocina, erede
buona di tutte quelle maledette allucinazioni cattive.
Coscienza condizionata, forse virtuale, preposta a sentinella della tua integrità di astinenza. Di
pensiero, non di azione.
Perché tutto parte da lì. Non c’è bisogno di agire, basta pensare e tutto si rimette in moto.

COMUNITÀ
La parola comunità mi piace perchè vale sia al singolare che al plurale. Lessico plurivalente, come
certe personalità.
Per il resto il concetto di comunità proprio non riuscivo a farmelo piacere.
Mi pareva proprio una prigione.
Oltre al fatto che mi pareva evidente che fosse “auto referenziante” : è ovvio che funziona finchè si
tiene uno chiuso dentro, senza uscite, senza soldi e senza contatti.
Ma dato per scontato che poi questo disgraziato ad un certo punto deve uscire, dopo che succede ?
E’ semplicissimo : reinizia a drogarsi e si riparte da capo.
Ma un dato è certo. Altri strumenti non ne esistono.
Non esiste la “lobotomia settoriale chirurgica” che ti asporti quei due o tre grammi di materia
cerebrale dove si annida, ad esempio, il “craving”.
Ciò premesso, anche le comunità non sono tutte uguali.
In questo caso parlo della prima di due mie esperienze comunitarie, avvenuta quasi quindici anni fa
quando a seguito della morte ravvicinata dei miei genitori, io letteralmente impazzii dal dolore.
In realtà quanto sopra non è del tutto esatto: lascia sottintendere che la causa della mia estrema
cocaino - manìa fosse soltanto il dolore.
Mi piace definirla “cocaino-manìa” perché questa scomposizione etimologica mette bene in
evidenza già da sola la natura di manìa del fenomeno. Il che ci riporta a quanto già detto sul fatto
che ognuno si sceglie la sostanza sulla base delle sue predisposizioni “genetiche”.
Ma, per essere del tutto onesti, concausa fondamentale fu l’eredità di un cospicuo patrimonio che
mi mise in una situazione di completa assenza di limiti “pratici”.
I soldi sono lo sterco del diavolo ?
Si. Certamente.
Dopo un anno di delirio assoluto e completa dedizione all’arte dell’assunzione per via polmonare su
scala industriale di cocaina “lavata in base libera” decisi che dovevo fare qualcosa.
Il “freebase” è devastante. Senza limiti esterni si arriva a decine di grammi al giorno. Fumando un
“tiro” via l’altro. A intervalli di 10 15 minuti, se proprio va bene.
Cantava Vasco Rossi, in Idea 77 :
“Mentre intorno c’è la sera e vicino a te qualcuno sta parlando di qualcosa.
Tu respiri la tua vita coi polmoni che si riempiono di coca-cola.
E vorresti che la vita stesse li per un momento ad aspettare.
Perché tu riprenda fiato, per poter ricominciare.
Magari a bestemmiare…... Magari a bestemmiare.”
I polmoni sono un organo straordinario, come tutti quelli del corpo umano.
Due spugne che assorbono aria e ne sparano istantaneamente le parti che servono nel sangue.
Se in quello che respiri aggiungi sostanze chimiche dilatatorie, come ad esempio l’ammoniaca che
si usa per lavare la coca, l’effetto “assorbente” viene ancora più amplificato.
D’altronde è lo stesso principio adottato per le sigarette, che fino a pochi mesi fa contenevano
anch’esse appunto ammoniaca (oltre ad altre centinaia di sostanze chimiche) proprio per
amplificarne l’assorbimento.
Una volta che si sei dentro, ci sono 3 possibilità.
Come in un gioco a premi di Mike Bongiorno puoi scegliere :
1. Ci resti dentro in un perverso equilibrio perché oramai la “base” è diventata la tua signorina.
2. Ci continui a galleggiare dentro fino a che muori (se sei fortunato) o ti viene un ictus o un
infarto.
3. Ne esci.
Ho sempre avuto la convinzione che in me ci sia una qualche energia positiva prevalente rispetto a
quella negativa e tale da permettermi di reagire anche in situazioni estreme, dove per altro spesso
mi metto da solo, con un colpo di coda all’ultimo momento.
Questa è una di quelle.
Io scelsi la “busta numero 3”.
Sempre citando Vasco Rossi :
“ Una nave si avvicina, si avvicina senza fretta.
E’ il futuro che ti aspetta.
Ti conviene uscire adesso.
Adesso basta ! “
E dopo un periodo di qualche settimana di disintossicazione in clinica mi presentai in comunità.
I dottori, che erano quelli di cui ho già raccontato alcuni aneddoti, dicevano che non ero pronto.
Avevano ragione.
Ma sbagliavano sul fatto che pensavano che lo sarei diventato.
A quello che ho visto non mi sarei mai potuto abituare.
E meno male. E’ segno di “integrità identitaria”.
Il primo impatto fu quello di essere Vincent d’Onofrio “palla di lardo” in Full Metal Jacket.
“Vieni dal Texas recluta ? Solo due cose vengono dal Texas : i tori e le checche. E tu non mi sembri
un toro !”
In effetti quel “programma”, sul quale questi sedicenti geni della medicina si sono arricchiti
diventando anche famosi, si diceva essere derivato da alcune tecniche di disintossicazione adottate
per i reduci dal Vietnam. Si consideri però che un programma completo poteva costare oltre 500
milioni di vecchie lire. 250.000 euro, se andava bene.
E senza nessuna garanzia di successo.
Anzi, al contrario. Di tutte le persone che lo hanno frequentato, io non ne ho conosciuta una che una
volta uscita non abbia ripreso a drogarsi.
In sintesi si trattava di manipolazione, sottomissione, umiliazione tutto finalizzato alla dominanza
psicologica. E tutto in “bagno di terapie farmacologiche” che io non capisco ancora bene cosa
contenessero, ma che a me diedero da subito un’ansia insopportabile.
“Il tossico è bugiardo, lavativo, manipolatore, disonesto, falso”.
E loro erano quelli che sapevano come curarci.
Quando lo capii, capii che da Full Metal Jacket mi ero ritrovato in Arancia Meccanica.
Si iniziava dalla divisa.
Scarpe da ginnastica bianche, pantaloni blu, maglietta bianca. Il bianco doveva essere simbolo di
anima nuova, “pulita”.
Gli operatori erano tutti “ex” tossici (chi ci crede ?) cooptati nel meccanismo. Secondo me perché
non avevano alcuna possibilità di reggere l’esterno.
Erano tutti frustrati che sfogavano il loro essere “sfigati” su noi “programmandi”.
Non c’erano operatori professionali o educatori.
Dovevamo essere tutti uguali. D’altronde il rispetto delle diversità non sarebbe stato possibile date
le loro “capacità”.
Un giorno faceva fresco e io, senza pensarci, mi misi una felpa che veniva dal Mar Rosso. C’era
scritto “Divers”, subacquei. Un operatore mi vide da lontano e mi iniziò a urlare addosso insulti di
ogni tipo. Davanti a tutti gli altri che mi guardavano come se fossi un marziano.
Io non capivo cosa avessi fatto. Alle fine del suo sproloquio mi urlò: “Tu, sei divers un cazzo ! Sei
come tutti gli altri ! Togliti quella felpa e buttala via ! E sei in punizione per una settimana ! A
lavare i cessi !”
Un sottile psicologo. Io ad essere divers non ci avevo minimamente pensato. Ma negli anni ho
imparato che le persone stupide usano spesso due meccanismi psicologici di base : la rimozione e la
proiezione. Il tizio parlava di sé.
Le punizioni, ma in generale le prescrizioni su cosa fare e come farlo, erano fatte apposta per
generare frustrazione.
Il che aveva anche un senso. Spesso uno si droga per sopportare le frustrazioni. O almeno così si
dice. Ma li l’esercizio di resistenza a queste frustrazioni era grottesco. Ridicolo. Per lo più
incentrato su una caricatura di pulizia.
L’esempio che ancora oggi più mi fa ridere era legato alla “filosofia della saponetta”. Quando ci si
lavava si dovevano poi ripulire tutte le cose usate per lavarsi. Tra cui la saponetta. A fine
operazione arrivava un operatore, normalmente un clone di quello “divers”, e controllava tutto.
Sulla saponetta vedeva sempre un puntino nero, che non c’era, e tu dovevi ricominciare a pulire
tutto. Si andava avanti anche per un’ora.
Appena si arrivava in comunità si veniva assegnati ad un altro ospite che doveva svolgere la
funzione cosiddetta di “pull-in-atore”. Era quello che ti introduceva alla vita e alle regole delle
comunità. Pull-in : ti tirava dentro.
Si noti tra l’altro il meccanismo di comunicazione associativa : non avrai più il pusher, ma ti diamo
il puller. Sofisticazione psicologica da prima elementare.
In teoria il puller veniva scelto in maniera da avere o potere avere delle affinità con il nuovo
arrivato. Il che sembrava avere un senso : si cercava di creare una specie di “alleanza terapeutica”.
Peccato che ciò sarebbe dovuto avvenire con operatori qualificati. Ma invece si optava per altri
ospiti. Secondo me perché erano gratis.
In ogni caso a me assegnarono Natale. Che già il nome mi piaceva.
E li ebbi la certezza assoluta che di psicologia non capivano proprio un cazzo.
Avrebbero dovuto assegnarmi qualcuno che ci credeva, e invece mi ritrovai con un ragazzo
intelligente, più grande di me, più cinico di me, più sarcastico di me. E mi ci ritrovai proprio bene.
Nelle pause in cui si poteva parlare ci scambiavamo chiacchiere e opinioni sempre dello stesso
tenore :”questi sono tutti scemi”. E ridevamo. Lui mi raccontò che restava dentro perché era in
attesa di non ricordo di che tipo di incasso. Forse questioni di eredità o di assicurazioni. E che
appena incassato se ne sarebbe andato via in barca.
Il vero problema che avevo io però era quell’ansia che inspiegabilmente, da quando ero arrivato li e
mi avevano cambiato i farmaci, era sempre più insopportabile. Ogni 3 o 4 ore mi ritrovavo sul tetto
della palazzina di tre piani e mi dicevo : “se devo restare qui più di un anno in questo stato, mi butto
giù prima”.
Cercai di parlane con i “dottori”, ma ogni volta che mi trovavo a colloquio avevano la stessa
reazione e lo stesso atteggiamento degli operatori : “Racconti balle, sei una merda, senza di noi sei
morto.”
Questo, tra l’altro, era lo stesso messaggio che davano all’esterno a parenti e conoscenti.
Il sesto giorno mi presi da parte Natale e gli dissi : “Natale io non ce la faccio con ‘sta cazzo di
ansia. Non so cosa mi stanno dando. Ma secondo te se me ne vado davvero mi ridrogherò fino a
morire ? Io non ci credo mica.”
E Natale, con tanto di gesto della mano : “Claudio, vai, vai, vai ! Io non posso, se no venivo con te!
C’è la stazione in un paese qua vicino. Sono una decina di chilometri.”
Comunicai la mia decisione. Erano le 10 di mattina.
E iniziò la fase finale di quella grande farsa. La più ridicola.
Seduto su una sedia in punizione. Se vuoi andare via, prima devi stare sulla sedia e farti vedere
dagli altri.
Divieto di alzare lo sguardo verso altri ospiti. Sei un traditore.
In realtà lo fanno per farti perdere tempo e nei loro schemi psicologici da quattro soldi, per farti
passare la voglia.
Su una sedia di fronte a te c’è il tuo pullinatore che ti controlla. Natale. Divieto assoluto di parlare e
guardare gli altri anche per lui. Ha fallito.
Noi naturalmente ci guardiamo lo stesso. Sottovoce gli chiedo : “Natale, ma quanto ci vuole a
questa cazzo di stazione ? ” Lui risponde a gesti per non farsi sentire : “2 ore a piedi”.
Passa il tempo. Un’ora, poi due. Io chiedo spiegazioni. Mi urlano dietro.
Alle 14.00 mi iniziano a girare i coglioni.
“Datemi i miei soldi e documenti così me ne vado.”
“Devi aspettare.”
L’ultimo treno per Milano parte alle 19.00. Vuol dire che mi devo muovere alle 17.00. Non manca
molto.
Passa ancora tempo. Alle 15.00 mi imbufalisco, mi alzo da quella cazzo di sedia e dico : “datemi
soldi e documenti o chiamo la polizia. Io sono qua di mia volontà e se non mi fate andare via è
sequestro di persona.”
“No.”
Ancora attesa, poi alle 16.00 mi rialzo. A voce più alta possibile dico : “Natale ciao, questi mi
hanno rotto il cazzo. Ehi stronzi, io me ne vado. Volete darmi saldi e documenti ? No? Chi se ne
frega. Io me ne vado lo stesso e poi vi denuncio. Tenetevi il borsone con jeans blu e magliette
bianche e infilateveli in culo. E aprite il cancelletto se non ve lo butto giù a calci”.
A quel punto mi aprirono il cancello e mentre stavo per uscire uno degli operatori mi inseguì con il
mio borsone : “questo te lo devi portare via. Qua di te non deve restare nulla” . Reazione da preelementari.
Da asilo.
Oltre a rimozione e proiezione gli stupidi hanno la naturale tendenza alla regressione. O forse non
sono mai cresciuti di più.
Lo guardo e gli dico: “sai che problema!”.
E mi avvio verso la stazione, senza soldi ne documenti. In divisa blu e bianca. Per strada tutti
capiscono da dove vengo e dove vado. Il paesello conta meno di 1000 anime.
Chiuso nel mio orgoglio, che a volte pure serve, inizio a camminare imbottito di sedativi. Non
chiedo passaggi a nessuno. Inizia anche a piovigginare.
Io cammino nella mia fatica immensa guardando continuamente l’orologio.
Voglio prendere a tutti i costi quel treno. Ma ho già elaborato anche lo scenario alternativo : se lo
perdo dormo in stazione.
Quasi allo scadere delle due ore, sudato fradicio e stravolto e ancora con il borsone in spalla, giro
un’ultima curva e davanti a me vedo il cartello della Stazione : “Cittiglio”.
Ancora oggi, mi sembra una delle cose più importanti che ho raggiunto in vita mia.
Vado dritto nel bagno dove mi lavo e mi metto in divisa.
Stavolta la mia.
Scarpe di cuoio e non da ginnastica. E camicia.
Bianca, perché il concetto di anima pulita me lo sentivo proprio bene addosso.
Vado in biglietteria e spiego perchè non ho soldi e documenti.
Il bigliettaio mi sorride (questi paesi hanno meno di mille anime) e mi fa : “non si preoccupi. Può
pagare dopo. Le faccio il modulo”.

EPILOGO.
O epitaffio con tanto di requiem per quei sedicenti “dottori”.
Chi fossero non lo scrivo, ma ho lasciato un indizio.
Invece voglio scrivere il nome di una realtà conosciuta tanti anni dopo.
Un sentito ringraziamento all’Associazione Comunità il Gabbiano Onlus e a tutti i suoi esponenti e
operatori. E anche ospiti.
Per sempre grazie per non essere stati così.
La mia prima esperienza comunitaria durò 7 giorni.
Quando dopo tanti mesi me ne dovetti andare dal Gabbiano mi dispiacque davvero e spesso ancora
mi manca.
Claudio

L’ENERGIA DEL MONDO
Con il passare degli anni si è formata sempre di più dentro di me la certezza dell’unitarietà del tutto.
Forse e all’inizio per letture a connotazione orientale, poi per altre letture di matrice occidentale per
così dire “evoluta”, come ad esempio quelle sui sistemi adattivi complessi derivate da quelle del
caos.
Per tutte queste si è strutturata dentro di me la consapevolezza dell’interconnessione e
interdipendenza tra ogni singolo atomo o particella che compongono noi, il mondo e l’universo.
Non soltanto qui e ora, ma ovunque e sempre.
Ma questo è solo lo schema razionale.
Quello che è successo con l’”avvento” del mio disturbo bipolare, inizialmente nella sua forma di
manìa ma poi più generalmente come “capacità di sentire”, è che questo schema razionale è
divenuto percezione pan-sensoriale.
A volte non è nemmeno questione di percepire, ma essenzialmente di essere.
A volte cioè è l’universo che mi passa dentro, a prescindere dal fatto che io ci pensi o lo senta.
Sono fermamente convinto che ciò sia dovuto ad una spiccata sensibilità derivante proprio dalle
cause del cosiddetto “disturbo bipolare” : genetica e biochimica oltre forse a qualche differenza o
specificità cellulare.
Mi viene in mente Rossana Casale nella sua traduzione di un pezzo di Jacques Brel : “Ci son quelli
a cuore aperto che ci si entra là per là, quelli a cuore tanto aperto che ne vedi la metà. Ci sono quelli
a cuore largo tanto che son sempre in viaggio, quelli a cuore troppo largo per privarsi di un
miraggio”.
Insomma non c’è niente da capire. E’ così e basta. Siamo quelli a cuore troppo largo. E anche tanto
aperto.
Ma questa caratteristica non è comprensibile razionalmente e spesso viene additata come sintomo di
malattia, mentre dovrebbe più correttamente essere apprezzata come “elemento di valore”.
Così ricordo uno psicologo che quando gli esternai alcune delle mie teorie anche generate nella e
dalla euforia della manìa mi disse : “probabilmente è tutto vero, ma se lo dice così non le crede
nessuno”
E poi aggiunse un aneddoto che evidentemente riteneva molto calzante.
Mi disse che aveva una paziente bipolare della quale lui capiva lo stato maniacale perché la donna
lo chiamava e ogni volta gli raccontava situazioni che al di lei giudizio, per me palesemente
condivisibile, confermavano la sua sincronia con l’energia del mondo.
“Vede dottore, l’ultima volta mi è capitato di uscire per andare al lavoro, salire in macchina, partire
e……trovare tutti i semafori verdi ! Addirittura arrivare e……trovare parcheggio proprio sotto
l’ufficio !”
Il dottore a questo punto mi guardò e mi chiese : “capisce cosa intendo” ?
Io rimasi basito qualche secondo.
Incerto se mandarlo a quel paese o mettermi a ridere.
Pensando che questo soggetto cercava di spiegare quello che non va spiegato con la ragione.
Si può solo fidarsi di chi lo sente o sentirlo direttamente.
Poi mi venne quello che per me fu un lampo di genio : “adesso ti inchiodo io” pensai. “Con le tue
stesse armi, con la tua stessa logica”.
E gli chiesi :” Dottore, ma mi spieghi una cosa.”
“Mi dica.”
“Ma i semafori erano verdi davvero?”
“Si”, disse lui.
“E il parcheggio lo trovò veramente?”
“Si” disse lui.
“Allora il dato di realtà c’è.”
“Si, in effetti.” disse lui.
“Allora l’altro dato di realtà, per deduzione, non può che essere che Lei non ha capito un cazzo.”
Eh, Eh, Eh,
A volte anche la logica torna utile !

TERREMOTO
UN BAMBINO CHE GIOCA CON GLI ELEMENTI

Roma.
Sono le tre di mattina o giù di li.
Sto dormendo profondamente. Il che per me è un evento raro.
D’improvviso mi sveglio di soprassalto senza avere realizzato subito perché.
Mentre apro gli occhi sento un brontolio di tremori.
Penso siano addosso a me ma mi rendo conto che sono ovunque.
Ad occhi completamente aperti vedo il lampadario oscillare.
I mobili traballare.
Cazzo ! il terremoto !
Mi butto giù dal letto.
Infilo una maglietta.
Sto per andare a svegliare gli altri quando passando all’altra stanza mi rendo conto che è tutto
fermo.
Un pensiero normale sarebbe stato :“Meno male, è passato”.
Invece penso “che cazzo di sogno, sembrava proprio vero”.
E poi mi dico : “ma quale sogno, eri già sveglio. Il lampadario lo hai visto. Il rumore lo hai sentito”.
“Che cazzo di allucinazione! ”
Possibile ? Non ho voglia di pensarci e mi ributto a letto dove mi riaddormento immediatamente.
Mi trovo a Roma da mesi perché sto cercando di ristrutturare la cooperativa che edita un giornale
storico. Anche in questo caso abbiamo scoperto “porcherie finanziarie”, soldi spariti e cose simili.
Curiosamente sono convinto che questi soldi siano nascosti in società a Londra. Non so perché
penso a Londra, ma è così.
Comunque sia la mattina mi sveglio, ancora chiedendomi cosa fosse successo di notte.
Pur non guardando mai i telegiornali mattutini, questa volta mi viene naturale accendere la
televisione.
Nessuna notizia sul terremoto di Roma.
Strano.
Poi all’improvviso un flash ! : alle 3.00 di stanotte terremoto, si ma …..a Londra !
Un solo pensiero : “come cazzo è possibile ?”
Mi chiedo se l’ho solo sentito o se l’ho fatto succedere io con i miei pensieri sulla “sporcizia” della
finanza londinese.
Questo per esempio, è quel tipo di domande che possono far si che uno venga giudicato malato.
Mi rendo conto. Come il giardiniere Peter Sellers.
Però è così : il pensiero mi è venuto.
E di sicuro un terremoto a Londra non si è mai sentito.
Certamente è una testimonianza di quella sincronìa con l’energia del mondo a cui mi piace pensare
di appartenere.
E sul fatto di come sia stato originato, se sia causa o effetto, non ci è dato per ora sapere.
E’ un po’ come nel film “a beautiful mind” . A chi non capisce la schizofrenia dei “codici militari
nascosti nei giornali” io dico sempre che il dato di realtà è che i codici però esistevano veramente.
L’unico dubbio legittimo è se il protagonista li stesse scrivendo o li stesse leggendo.
In ogni caso anni dopo, ai miei racconti sul fatto che:
1. con l’aria ho fatto il vento e ci ho viaggiato dentro.
2. con l’acqua del mare ho fatto giocare e danzare i delfini
3. con la terra ho fatto tremare una città
Mi sono sentito rispondere : “ti manca solo il fuoco”.
“Eccoti qua: il bambino che gioca con gli elementi”.
E in merito agli aneddoti e situazioni descritte, mi piace ricordare una frase di Marco, un grande
psicologo già menzionato in vari scritti, che mi disse : “un po’ troppe occorrenze per essere
coincidenze”.

ARCOBALENO
 Forse sono davvero un bambino che gioca con gli elementi.
O forse più semplicemente il mondo parla con me.
In realtà lo fa con tutti, ma non tutti possono o vogliono stare ad ascoltarlo.
Peccato.
Mi viene in mente Pino Daniele :”e cammina o vecchiariello sott’ a luna. Quante volte s’è fermato
pe’ parla’ con quaccheduno, ma nun ce sta maje nisciuno ca se ferma p’o senti”.
Peccato, dicevo, che nessuno stia ad ascoltare questo mondo “viecchiariello”. Come tutti i vecchi ha
un sacco di cose da insegnare.
Comunque, da quando mi sono convinto che il mondo parla con me ho iniziato anche io a parlare
con lui.
E a volte ci facciamo proprio delle belle chiacchierate.
Dopo la mia seconda crisi maniacale, con tanto di trattamento sanitario obbligatorio, contenzione
legato a un letto in psichiatria e uscita traumatica con ritorno ad una dimensione “normale” ebbi una
“ricaduta” nell’uso e abuso di cocaina.
L’altrui normalità, infatti, decise di cercare di appropriarsi della mia capacità di intendere e di
volere, mi costrinse a sottopormi a vigilanza patrimoniale da parte del Tribunale, mi precluse la
vista di mia figlia, cercò in tutti i modi di appropriarsi dei miei averi, e così via.
Questa volta non avevo proprio nessuna voglia di smetterla con la cocaina. Ero ben deciso a
“frullarmi” via da questo mondo, partendo dal cervello.
Quel cervello così “biutiful” che nessuno lo riusciva a vedere o a sopportare.
Un giorno riuscìi a vedere mia figlia. All’epoca aveva 6 anni. Mi iniziò a fare domande sulla
malattia. Lei chiedeva e io rispondevo. La vedevo: ogni domanda veniva attentamente ponderata e
ogni risposta meticolosamente digerita.
A un certo punto mi guardò e mi disse: “papà, ma è così facile. Devi solo prendere le medicine.
Come fa la nonna (che ha avuto un trapianto di fegato). E se le prendi puoi anche guarire. Magari”.
Tanto bastò, e scusate se è poco.
Chiesi quindi aiuto ad amici che mi indirizzarono ad una comunità di taglio molto diverso da quella
che pure avevo tentato in situazione simile un decennio prima, quando morirono i miei genitori.
Nella comunità non c’era posto, ma io avevo urgenza di trovare un appiglio a cui ancorare la “teoria
comportamentale”.
Così decidemmo, e mi permisero, di iniziare un percorso all’inizio non residenziale, in attesa di un
posto che si liberasse.
Concordammo che ogni mattina sarei andato in una delle loro strutture. Quella vicino Lodi. Ci
dovevo andare per il primo tratto con i mezzi pubblici. Treno da Milano prima, autobus da Lodi
fino al paesello.
E poi a piedi dal paesello fino alla comunità.
Ci volevano due ore per arrivarci. Delle quali circa mezz’ora a piedi.
E dovendo essere li alle 8.00 voleva dire che dovevo uscire alle 6 da casa.
Il tutto a condizione che io mi impegnassi a rispettare le prescrizioni farmacologiche. E con la voce
di mia figlia in testa, io mi impegnai. E iniziai a prendere questo “cabaret di pillole” regolarmente
tutti i giorni.
Nessuno mi aveva mai detto, ne in questo frangente ne in altra occasione, che gli effetti indesiderati
di questi farmaci ci mettono circa 6 mesi a passare.
Tutti ti dicono che poi ti abitui, ma nessuno ti da mai un orizzonte temporale.
Questo è un punto fondamentale per cui spesso si interrompe la terapia.
Sentirsi costantemente sedato, rallentato, a gambe in pastafrolla, non è facile.
Ne’ per il contrasto con la condizione maniacale, né se devi affrontare situazioni faticose, come ad
esempio il viaggio quotidiano.
In particolare il pezzo a piedi era veramente un calvario. Ogni passo era un macigno da spostare.
Sudavo come un rubinetto aperto. La testa girava.
In più il tragitto era lungo una strada di desolazione estrema. Dal parcheggio del centro
commerciale doveva arrivava l’autobus, seguendo una provinciale, si arrivava ad una breve salita
che immetteva su un cavalcavia dell’autostrada.
Quella salitina era un’inferno. Tanto più se si pensa che ero abituato a camminare in montagna per
ore interminabili.
Il fatto che quei duecento metri fossero, ogni giorno, apparentemente insormontabili era fonte di
infinita frustrazione.
Non c’era nemmeno il marciapiede. Ogni volta che passavano due macchine in senso opposto mi
vedevo spalmato sul guardrail come una sottiletta.
Ma io oramai avevo deciso. Ce la dovevo fare. Era diventata una questione di principio. Mi ricordo
quel dottore che una volta mi disse “Lei è quello che è guarito per dispetto”.
Un giorno mi dissero che se dopo il primo autobus ne prendevo un altro arrivavo ad una fermata
molto più vicina alla destinazione.
“Ma come, me lo dite adesso? Dopo un mese? Adesso vi fottete! Io arrivo a piedi da quel cazzo di
cavalcavia di Sisifo”. La loro era parte della strategia per testare la mia determinazione.
Lungo il tragitto ascoltavo musica. Questa è diventata una abitudine costante. La stragrande
maggioranza del mio tempo da sveglio ho le cuffie nelle orecchie. La musica mi sveglia e mi da
forza. E’ una questione di onde. E’ un po’ come se le vibrazioni fungessero da “pompa cerebrale”.
Un giorno d’estate, limpido e caldo, mentre al ritmo di “tarso, metatarso” mi accingo ad affrontare
il cavalcavia, all’improvviso dal nulla dell’orizzonte della piatta padania spuntano dei nuvoloni che
si dirigono velocemente proprio verso di me.
Io li guardo abbastanza indifferente, pensando che tanto erano lontani e avrei fatto più che in tempo
a passare il cavalcavia e ad arrivare a destinazione.
Dopo qualche decina di passi, a metà cavalcavia, alzai lo sguardo e incomprensibilmente mi ritrovai
i nuvoloni che quasi mi avevano raggiunto. Dico incomprensibilmente perché non c’era un alito di
vento.
“Cazzo, anche la pioggia no ! Ci manca solo quella. Non ho ombrello, ne giacca.”
Il pensiero seguente fu, per me, sbalorditivo: “e se mi bagno io e quello che ho nello zaino diventerò
ancora più pesante e farò ancora più fatica.”.
Ancora pochi passi è iniziarono a piovere “goccioloni” grandi come nespole.
Mi fermai. Ero arrivato in cima al cavalcavia, da cui dominavo parecchia padania. Mi tolsi lo zaino,
mi accesi una sigaretta incurante sia del “rischio spalmatura da sottiletta” che delle nespole e
guardai il cielo.
Dai nuvoloni spuntava a tratti il sole. Mi ci misi dritto in faccia e dissi a voce alta : “oh ! Ma che
cazzo di gioco è ! Pure la pioggia mi devi mandare ! Questa te la potevi risparmiare ! Non ti basta
quello che sto facendo ? Mi vuoi mettere una scopa in culo così ti ramazzo la strada ?”
Come mi è già capitato di esprimere, tutti sono liberi di non crederci, ma qualche secondo dopo
iniziai a sentire una brezza che soffiava alle mie spalle, contro le nuvole.
La brezza diventò vento, e le nuvole iniziarono a recalcitrare per poi essere respinte del tutto
indietro.
In pochi istanti il cielo divenne terso.
Il sole risplendeva, libero, nel cielo azzurro.
Un po’ incredulo girai lo sguardo verso la mia destinazione, la comunità.
Rimasi a bocca aperta : esattamente da sopra la comunità e fino al centro di Milano era spuntato una
arcobaleno bellissimo, nitidissimo e grandissimo.
Io iniziai a piangere e poi a ridere “come un matto” sempre in cima al mio cavalcavia “sottilettaro”.
Ringraziando Dio.
Non tanto per non avere avuto la pioggia, quanto per essersi rivelato così apertamente.
La cosa ancora più incredibile fu che nei mesi seguenti successero una serie di cose che capii essere
state perfettamente profetizzate da quel “fenomeno naturale”.
Ma questa è un’altra storia.

RIVELAZIONI IN QUOTA
QUANDO IL CREATO CI PARLA

In quota succedono cose “rivelative”. Per lo meno a me, o secondo me. Non so per quale motivo
succedano e nemmeno perché succedano quasi solo a me.
Ma ho una teoria in proposito che potremmo riassumere nella concezione maniacale di essere un
eletto.
Non è diverso da quando in mare non si vede più terra intorno a noi.
Deve essere una questione di assoluti. In quota o in mezzo al mare ci sei più vicino.
Anche se nel continuo moto dell’infinito tutto si ricongiunge: si è in cima a una montagna o ai piedi
del cielo ?
O forse senza troppe pippe filosofiche, quello che succede è che in quelle situazioni di “vuoto
apparente” se capita qualcosa si nota di più.
Forse se ci stessimo più attenti, sentiremmo che il creato ci parla continuamente. E allora non
avremmo nemmeno dubbi sull’esistenza del creatore. Con la “c” minuscola come la “p” di ogni
papà.
Io ho imparato a camminare in montagna dal padre di mia moglie, oggi prematuramente morta. Lui
ci è nato. E’ di origine delle montagne della provincia di Brescia.
Io ho imparato a farlo sulle montagne svizzere di un posto chiamato Crans sur Sierre. E’ uno di quei
paesi “inventati” dal nulla a scopo turistico decine di anni fa. Pare su iniziativa di alcuni mafiosi
italiani che dovevano reimpiegare i loro utili.
Come sia sia, “non fa Comune”, il che mi pare indicativo.
Io avevo bisogno di trovare una ragione per il fatto di essere li che fosse diversa dallo sci o dallo
shopping.
Perciò andavo a camminare continuamente verso le cime. In quota, appunto.
La mia definizione di quota iniziava da 2.000 metri e arrivava fino a 3.000. Dopo sopra c’è solo il
cielo. Ma bisogna arrivarci.
L’esercizio del camminare respirando al solo ritmo dei tuoi passi è davvero “zen”. O meglio lo
diventa dopo l’inizio, che è sempre faticoso e durante il quale ci si chiede sempre come si farà ad
arrivare in cima.
Ma una volta “rotto il fiato”, si può andare avanti quasi ad oltranza.
La “quota” per me è quella landa apparentemente desolata, di confine tra terra e cielo, dove uno che
sale camminando, inizia ad abituarsi all’idea di avvicinarsi al tetto dove potrà osservare il creato da
una prospettiva per così dire “celeste”.

Aquile
Un giorno di sole splendente, mentre continuavo a salire da solo, a quota 2300 metri, nel mezzo
della “steppa alpina” fatta tutta di vegetazione rasoterra e rocce, all’improvviso il sole mi si oscurò.
Io camminavo faccia verso il basso, guardando dove mettevo i pieni, il che è una buona regola
quando non si sta su di un sentiero.
Tra me e me dissi che mi dovevo fermare, ma per farlo dovevo mettermi con i piedi in posizione
ben salda. Trovata la loro migliore posizione, mi fermai e alzai lo sguardo.
Mi prese un colpo.
Due metri sopra di me, immobili nell’aria, in quel loro veleggiare fermo fatto di micromovimenti
delle penne e delle ali, c’erano due aquile. Tra tutte e due direi che avevo almeno 5 metri di apertura
alare sulla testa. Una bella “nuvola”.
Si vedevano perfettamente le loro “micro correzioni aerodinamiche”. Il che già di per se è uno
spettacolo. Noi umani ci adattiamo alla terra e a fatica all’acqua. Ma ragazzi : dominare l’aria per
volare è un’altra storia !
Ed erano ben due. Una alla mia destra, una alla sinistra.
Già incontrare un’aquila da sola è una rarità, ma la coppia credo che sia proprio un evento.
Tanto che subito mi venne un dubbio : saranno veramente aquile ? Ma la dimensione, la testa e la
pancia a disegno geometrico bianco non potevano mentire.
Non facevano niente. Non erano minacciose, si sentiva. Mi guardavano e basta. Con la testa girata
su di un lato verso il basso e con quell’occhione giallo puntatomi dritto in testa. Mi era già capitato
con i delfini.
Continuavo a guardarle cercando di capire cosa volevano, cosa facevano.
Ma continuavano a non fare niente. Solo guardarmi. E mi iniziarono a dare i brividi di emozione.
Mi iniziò a venire da piangere di commozione.
Le aquile sono monogame. Come i lupi. Quella coppia doveva per forza volere dire qualcosa.
Ad un tratto, dopo parecchi minuti, spostarono visibilmente una piccola microfrazione di muscoli
alari e virando dolcemente, forse con un moto di remiganti, si rimisero in linea con il vento in coda,
o in poppa, e se ne andarono maestose.
Loro si, sono veramente maestose.
Mi rimase un senso di pace infinito.
E la cosa più incredibile è che solo ora che scrivo, anni dopo, capisco perché .
Quelle due aquile erano i miei genitori morti anni prima, che in quel posto ci avevano vissuto tanto
e sempre insieme. Pur essendo “gente di mare”.
Questa naturalmente è una affermazione che potrebbe determinare un mio trattamento sanitario
obbligatorio.
Ma io non so come spiegarlo, ma so che è così.
Lo sento.
Me lo hanno detto loro, con i brividi e le lacrime che mi hanno attraversato mentre scrivevo.
Erano gli stessi brividi e lacrime di quando ci guardavamo.
Le carezze di Dio.
E delle anime.
E io continuo a piangere.

Nasconderellino
Questo qua non so chi fosse. Ma aveva dello straordinario anche lui.
Non so quanti di noi abbiano mai potuto vedere un ermellino vivo.
Di solito le sue code stanno appese al collo di qualche soggetto “giuridicamente importante”.
E tu ti immagini un animale di dimensione almeno “notabile”.
Invece l’ermellino è uno scricciolino, una specie di mangustina in formato bonsai. Tutto coda e con
un corpicino che ti starebbe comodo in una mano.
Non so nemmeno come lo vidi, tanto era piccolo.
O meglio, lo so.
Lo vidi perché doveva essere un ermellino un po’ stonato. Eravamo in estate inoltrata e lui aveva il
pelo bianco.
Gli ermellini sono bianchi in inverno perché così si nascondono nella neve alla vista dei predatori.
Poi fanno la muta e diventano marroni. Il che già di per se mi sembra miracoloso. Come faranno a
tirare fuori dagli stessi bulbi peli di colori opposti a seconda della stagione ?
La sola spiegazione che mi viene in mente è il miracolo della vita. Deve essere questione di capacità
del creatore. Per forza.
Questo qua comunque doveva avere sbagliato i conti. Un po’ come quel barbone che a Napoli
chiedeva l’elemosina con un cartello che diceva “fate l’elemosina a Giovanni, che ha sbagliato il
conto degli anni”. Il numero di anni entro cui sarebbe morto, voleva dire.
Quest’ermellino doveva avere sbagliato il conto delle stagioni.
Così bianco su sfondo grigio roccia, marrone terra, e verde steppa, spiccava come un hamburger
dietro la cassa di un Mc Donalds.
Ma lui non se ne preoccupava. Si muoveva nervosetto avanti e indietro davanti alla bocca della sua
tana, guardandomi dritto negli occhi.
Appena mi avvicinavo di mezzo metro, si rinfilava dentro la tana. Ma dopo qualche secondo, mi
risbucava fuori da un altro ingresso.
Io mi avvicinavo agli ingressi sinistri della sua tana, e lui mi risbucava fuori a destra.
Allora io mi avvicinavo agli ingressi destri della sua tana, e lui mi risbucava fuori a sinistra.
Siamo andati avanti così per un’ora.
Fino a che mi sono convinto che voleva solo giocare.
Per qualche motivo di me si fidava.
Per me questi sono momenti che il creato concederebbe a tutti.
Ma non tutti sono interessati.
Che questo mio, sia una specie di cantico delle creature ?

Leprotto a Musocco
A Musocco c’è il cimitero principale di Milano.
Non siamo in quota, quindi. Anzi, solo un misero centinaio di metri sopra il livello del mare.
Ci sono sepolti i miei genitori, morti nel 2000 e 2001.
Tomba sobria, austera. Non ho mai creduto nella necessità di “sfarzo necrologico”.
L’unica cosa che mi da fastidio è che ho provato a piantare alberelli o piante perenni che i
giardinieri mi rasano sempre a zero.
Ecchecazzo !
Le piante annuali mi mettono tristezza. I fiori recisi di più. Tutta roba che non fa altro che
ricordarmi quella cazzo di “caducità delle cose”.
Possibile che se pianto un piccolo acero o un ciliegio, questi me lo tagliano ?
Possibile si! Anzi certo, direi!
Un po’ come quelli che buttano nei cassonetti piante ancora ben vive per rimpiazzarle con altre di
nuovo acquisto consumistico. Possibile che nessuno ci pensi, che sono ancora vive quelle piante ?
Possibile si! Anzi certo, direi!
Come sia sia, una domenica vado a vedere la tomba dei miei. Un po’ come Jannacci allo zoo. Per
vedere l’effetto che fa .
Quando arrivo là mi confermo che non fa nessun effetto. E’solo un blocco di marmo sopra un buco
nel terreno.
Osservo il mio rituale, accendo due sigarette contemporaneamente, le piazzo bloccate sotto uno
sportellino di un vano per le candele e mi siedo sul marmo della tomba antistante fumando anche io.
“Fumate con me, mamma e papà”. Questo vuol dire quel rituale.
Sto per alzarmi e andarmene, quando da un cespuglio di una tomba vicina che i giardinieri hanno
risparmiato, sento un fruscio di movimento.
Giro lo sguardo in quella direzione, e mentre cerco di capire da dove veniva il rumore, mi si aprono
a tendina le frasche, ed in mezzo spunta il muso di un leprotto.
Beige.
Senza far manc’an plissè (sempre citando Jannacci) questo batuffolo di pelo salta fuori dal
cespuglio e mi si avvicina con strafottente sprezzo del pericolo che io avrei potuto essere, ma che
non ero.
E lui, o lei, lo sapeva.
Resto immobile qualche secondo con la mia sigaretta in mano.
Il leprotto mi guardava e l’unica cosa che faceva era far fremere le narici con quel movimento
ritmico e veloce tipico di lepri e conigli.
Mi alzai per provare ad avvicinarmi lentamente, in quel modo rispettoso che avevo imparato
proprio in montagna in altri incontri “animali”: senza cioè bisogno di toccarlo a tutti i costi.
Quando mi trovai a mezzo metro il leprotto si spostò dolcemente di un altro mezzo metro indietro.
Sembrava proprio dire : “vediamo se riesci a restarlo, rispettoso.”
Non ero andato da solo a vedere la tomba dei miei. Con me c’era la mia fidanzata. Al vedere quella
scena, lei che invece non era ancora giunta allo stadio evolutivo della “rispettosità”, si mosse verso
il leprotto con la delicatezza di un elefante al galoppo in una cristalleria. Con tanto di schiamazzi di
eccitazione.
Il leprotto, con mio rammarico, zompettò via e scomparve tra i cespugli.
Tralasciando quello che pensavo della fidanzata, ritornai a fumare con papà e con mamma.
Dopo qualche minuto, in un replay di una scena già vista, dallo stesso cespuglio di una tomba
vicina, sento di nuovo un fruscio di movimento. Come prima, mi si aprono a tendina le frasche, ed
in mezzo spunta di nuovo il muso del leprotto.
Replay di prima : il leprotto si avvicina e reinizia a fare fremere le narici.
Io non mi alzo nemmeno. Apostrofo solo la fidanzata dicendole sottovoce, ma il più scortesemente
possibile, di stare ferma.
E il leprotto si inchioda li a guardarmi con le narici frementi.
A quel punto capisco d’incanto che è una leprotta.
Si, perché quel gioco di fremiti di narici era uno dei miei preferiti, e dei pochi, che quando ero
piccolo mi faceva mia mamma.
La leprotta era mia mamma che mi diceva “stai tranquillo, sono con te”.
Come con le aquile, io non so come spiegarlo, ma so che è così.
Lo sento.
Me lo hanno detto, e ancora me lo dicono, sempre gli stessi brividi e lacrime.
Le carezze di Dio.
E delle anime.
E io continuo a piangere.

Il canto delle montagne
Il creato è proprio tutto il creato.
Non solo animali, piante e umani.
Ma anche le cose, in apparenza, inanimate.
Tutto ha un’anima, tutto è come è per quella “forza” o energia che lo rende tale.
Una volta imparato ciò può capitare di tutto, anche di sentire le montagne cantare.
Ero arrivato a quota 2500 metri. L’ultimo tratto di camminata era stato parecchio faticoso. Si deve
salire per circa un’ora lungo delle strette diagonali tracciate in un “ghiaione” molto ripido.
Ma una volta in cima ti rendi conto che ne valeva la pena. C’è un tratto in particolare, dove ti puoi
sedere con le gambe a penzoloni nel vuoto e guardare tutto il mondo.
Di fronte, alcune migliaia di metri più lontano, ci fronteggia un’altra dorsale di montagne ripide e
brulle.
In mezzo, centinaia di metri più in basso, c’è una vallata verdeggiante dove si vede anche una pozza
naturale, e dove se sei fortunato può capitare anche di vedere bere gli stambecchi.
Mentre sto li seduto vedo in lontananza lungo le diagonali già percorse, un puntino che sale. Un
altro uomo.
Non so per quale motivo capisco che lo devo aspettare. Ci vorrà quasi un’ora per vederlo arrivare,
ma io so che devo aspettarlo.
Finalmente arriva in cima, si toglie lo zaino dalle spalle, e si siede gambe a penzoloni anche lui a
qualche decina di metri da me.
Dopo qualche minuto si alza e, incomprensibilmente, viene verso di me.
Quando è a “tiro” per potere parlare sottovoce ma facendosi sentire mi fa: “Je peut vous déranger ?”
“Bien sur”, rispondo. Senza sapere cosa volesse.
Quello si gira e torna al suo zaino. Lasciandomi stupito.
Si inginocchia e tira fuori un oggetto “misterioso” che proprio non capisco cosa fosse.
Sembrava un cilindro di plastica scuro lungo meno di un metro.
Ci inizia ad armeggiare e “il coso” nelle sue mani inizia ad allungarsi, fino a diventare lungo alcuni
metri.
Era un “corno svizzero” telescopico.
Il tizio si mette in posizione, gambe leggermente aperte, il corno appoggiato con la bocca in terra,
rivolto alle montagne di fronte.
Si concentra, prende fiato, e suona una sola nota lunga alcuni secondi.
Si toglie il corno dalla bocca e resta li fermo.
Io penso che non è mica troppo normale.
Passano una ventina di secondi e …… : miracolo! Le montagne di fronte cantano la stessa nota,
ripetendola più volte.
Il tizio sorride.
Poi mi guarda, sempre sorridendo, si rimette in posizione e lancia una seconda nota.
Altri venti secondi e le montagne cantano di nuovo la nota ricevuta, ripetendola più volte.
A quel punto dopo avere ricevuto tanta grazia da quelle montagne che cantarono per me, capii cosa
intendeva con il “je peut vous déranger ?”
E decisi che il “suonatore di montagne” si era guadagnato tutta la sua solitarietà che probabilmente
era stata disturbata dalla mia inaspettata presenza.
Aspettai la terza nota, e quando le montagne la cantarono indietro, mi alzai.
Feci un cenno di ringraziamento con la mano, poi un cenno di congratulazioni con il pollice verso
l’alto.
Lui rispose con un solo piccolo cenno annuente della testa e tornò a guardare le montagne.
Le montagne ci sorrisero, aspettando di potere cantare ancora.

La teoria dello scoiattolo.
Appesi ai rami di alcuni pini pendono dei contenitori pieni di semi di vario tipo, messi li per fare
mangiare gli uccelli.
Li ho appesi io con mia figlia, per fare si che lei imparasse. Tante cose.
Sono creature di Dio anche loro, ovviamente. E se diamo loro un aiutino per mangiare facciamo una
cosa buona.
Eppoi sono uno spettacolo da guardare.
Un giorno ai piedi di un pino si presenta uno scoiattolo. Mia figlia lo battezza “pancia bianca”.
Questo cerca da mangiare tra quello che è caduto in terra.
Faccio osservare a mia figlia che mentre mangia, tra un seme e l’altro, osserva gli uccelli che vanno
dritti alla fonte dei contenitori dove c’è parecchio ben di Dio in più.
Va avanti così per vari giorni.
Fino a che un giorno decide di provarci anche lui.
Si arrampica sul tronco, e restando aggrappato con 3 zampe, con la quarta cerca di afferrare il
contenitore.
Ogni volta che ci prova però, questo inizia ad oscillare e lo scoiattolo lo perde dalla sua portata.
Va avanti così parecchio tempo.
Cambia alberi e contenitori, ma sempre con lo stesso risultato.
Ad un certo punto sembra che “molli il colpo”.
Scende dall’albero, va in terra, mangia qualche seme caduto e alla fine si siede, sempre guardando
gli uccelli e dando a noi le spalle.
Io lo vedo corrucciato, con il mento appoggiato ad una zampa, che si chiede come fare.
Resta li un bel po’.
Fermo a pensare.
Sgranocchiando qualche seme ogni tanto.
Poi d’improvviso si alza, corre verso un albero e si arrampica sul tronco.
Arrivato all’altezza di un ramo da cui pende un contenitore, lascia il tronco dell’albero e cammina
su quel ramo fino a dove è legato il contenitore.
A quel punto si butta a testa in giù tenendosi al ramo con le unghie delle due zampe posteriori e
lasciando così libere le due “mani” anteriori.
Con la destra fa per afferrare il contenitore che si mette ad oscillare andando verso la sinistra. A
quel punto con uno scatto fulmineo lo scoiattolo allunga la zampa sinistra, e tenendo il contenitore
con tutte e due le zampe se lo porta al petto. Trattenendolo a se con una zampa, con l’altra inizia a
“ravanarci” dentro abbuffandosi si semi a più non posso.
Io inizio a ridere e guardando mia figlia le dico “impara Vittoria, impara: c’è sempre un’altra via.”

100 metri
Come dicevo prima, l’esercizio del camminare respirando al solo ritmo dei tuoi passi è davvero
“zen”. O meglio lo diventa dopo l’inizio che è sempre faticoso e durante il quale ci si chiede sempre
come si farà ad arrivare in cima.
Ma una volta “rotto il fiato”, si può andare avanti quasi ad oltranza.
E’ quel “quasi” che però bisogna imparare a conoscere.
Un giorno decisi di avventurarmi sulla vetta più alta del posto raggiungibile a piedi.
Sta a 3.000 metri.

Ad un tratto dopo 5 ore di cammino, già piuttosto stanco, intorno ai 2.800 metri mi trovo in un
paesaggio marziano di rocce rosse e laghetti azzurri e li incomprensibilmente inizia a cambiare
qualcosa.
Vedo già la destinazione finale, ma mi accorgo che gli ultimi 100 metri non sono più di steppa
lunare pianeggiante, ma sono proprio un muro di ghiaia parecchio ripido.
Non c’è da scalare o da rocciare. Non ci sono ferrate, ne corde. Insomma non è nulla di pericoloso,
che del resto non avrei potuto nemmeno affrontare. Sono solo un camminatore, non un alpinista.
Eppure sento che c’è un problema, anche se ancora non so quale sia.
I passi si sono fatti più pesanti. Cammino ancora bene ma sento la fatica.
A quell’altezza già cambia anche l’aria e bisogna fare attenzione a dosare bene il ritmo.
Se acceleri troppo fino a sentire che ti fai mancare l’aria, poi ci metti proprio moltissimo tempo a
riprendere fiato.
Quindi il segreto è che per potere continuare a camminare, e alla fine per potere arrivare, devi
rallentare.
Devi cioè forzare e bloccare l’istinto che ti porterebbe a correre pensando di fare l’ultimo sforzo,
visto che tanto la distanza è pochissima.
Ma io questo ancora non lo sapevo.
Decido quindi di forzare il passo fino all’inizio della salita ripida. Fino cioè a quegli ultimi 100
metri.
10 minuti dopo sono li sotto. E le gambe sono proprio pesanti. Il respiro è affannoso, non per lo
sforzo, ma per la rarefazione dell’aria.
La cosa più incredibile che ho imparato, però, è un’altra : è il pensiero che inizia a tradirti. Da che
eri in armonia con tutto, adesso vedi lo stesso tutto in una luce diversa. Negativa, pessimista. La
montagna non è più tua amica ma è diventata nemica. E’ diventata cattiva.
Decidi di riprendere fiato per quegli ultimi 100 metri. Ti siedi e fai un calcolo : se ci ho messo 10
minuti a fare i penultimi 100 metri, questi li farò in altrettanti. Al massimo 15. Forza tieni duro.
Mangio l’ultimo pezzo di pane, con un pezzetto di cioccolato e due bustine di zucchero, e bevo
l’acqua rimasta.
Errore di valutazione non tenersi nulla di scorta. Ma chi poteva immaginarlo ? Sono solo 100
schifosissimi metri.
Dopo una decina di minuti mi alzo e subito capisco che ho un problema. Un bel problema. Le
gambe di marmo.
Mi metto in marcia e inizio a salire. Ad un ritmo inverosimilmente lento muovo le gambe e conto
ogni passo che riesco a fare. Non ho idea con precisione, ma secondo me riuscivo a malapena a fare
2 o 3 passi al minuto.
Dopo 10 minuti, invece di essere arrivato in cima, ne avevo fatti 20 o 30.
Si tenga presente che dove è molto ripido 100 metri in linea d’aria spesso non si riescono a fare. Per
cui i 100 metri diventano almeno 200 da coprire a diagonali.
Contando un metro per ogni passo ciò voleva dire che me ne mancavano 170. Sia di passi che di
metri. Mi colpì un flash di sconforto: a quel ritmo voleva dire che sarei arrivato in cima dopo
un’altra ora o più ! Un’eternità.
In una fatica che non mi vergogno a definire sovraumana continuo lentissimamente a cercare di
salire. Ogni passo è sempre più pesante.
Mi inizia a girare la testa.
Quando arrivo a 50 metri penso davvero di morire. Sono praticamente “steso” pancia a terra e cerco
di racimolare le ultime energie nascoste non so dove. Anzi lo so : nascoste da nessuna parte. Non ce
ne sono più.
Sembra incredibile. 50 metri sono 10 macchine messe in fila. È uno sputo. Eppure non c’è proprio
modo di affrontarli.
Quasi non riesco nemmeno più a respirare.
Non so neanche cosa fare. Non ho più acqua, ne zucchero.
Sono passati più di 30 minuti da inizio salita. Ma sembra un ‘eternità.
Mi viene lo sconforto.
Quasi mi viene da piangere quando, come spesso mi capita, il creato mi parla.
In cima ai 3000 c’è un rifugio a cui si arriva comodamente anche in teleferica. E’ un posto
incredibilmente bello e dove vanno parecchie persone del luogo, che la montagna ce l’hanno nel
sangue, la conoscono, la rispettano e la temono.
Alzo la testa e vedo che in cima ci sono poche decine di persone che assistono alla mia sfida e al
mio dramma, composte e in silenzio. Non è per lo show. E’ una questione “armonica”, di armonìa.
D’un tratto un ragazzo scende, mi si avvicina e mi allunga una mano. Non per aiutarmi come si
poteva immaginare, sorreggendomi o portandomi lo zaino, ma dandomi qualcosa. Una barretta di
cioccolata e 3 bustine di zucchero. “
Poi si mette a cercare nelle tasche e mi allunga un bottiglietta d’acqua.
Mi dice : “Allez, monsieur. Courage. Resistez. Vous etes presque arrivé. On est tous la à vous
attendre “.
Lui come gli altri sapevano che dovevo farcela da solo.
Gli dico grazie con un cenno della testa. Voce non ne avevo più.
Riesco a mettermi in piedi e a riprendere il mio lento gocciolamento di passi.
Ogni istante in cui sento che proprio non ce la faccio più, alzo la testa e guardo il mio pubblico, che
mi da ancora qualche briciolo di forza.
Alla fine dopo un’altra eternità, arrivo in cima.
Mi appoggio a una roccia.
E mentre cerco di riprendermi inizio a sentire un lento, ritmato battere di mani.
Prima due mani, poi piano piano se ne aggiungono altre, sempre lente. Composte.
Senza una parola, senza una voce, il mio pubblico di montagna stava applaudendo uno di loro.

INQUISIZIONE
SE È UNA RIVELAZIONE LO DECIDIAMO NOI

Gli episodi descritti fino ora sono solo alcuni di quelli che mi fanno credere di essere un “eletto” o
almeno una specie di “illuminato”.
E questo lo dico senza presunzione, ma anzi con una sorte di stupore.
Questa “elezione”, infatti ha a che fare con il mio concetto delle “stranezza” della fede come dono.
Molto grande e bello ma per niente “gratuito”.
Tutti i segni che ho ricevuto, infatti, fanno da contrappeso sulla teorica bilancia della gratuità con
una vasta serie di problemi e dolori vissuti negli ultimi 15 anni che a mio giudizio avrebbero
distrutto parecchi altri.
E che comunque hanno “quasi” distrutto me.
Ma come per le camminate in montagna che possono continuare “quasi” ad oltranza, anche in
questo caso è quel “quasi” che fa la differenza.
Il fatto di essere ancora qua, e addirittura a parlarne spero con una gradevole ironia, mi fanno
pensare che tutti questi problemi siano stati delle “prove”, e tutti quei segni dei “premi”.
Non so quanti capiscano di cosa parlo, ma in ogni caso io mi sento in dovere di cercare di spiegare e
di diffondere questa mia visione o percezione.
Così un giorno mi recai in una frazione di Napoli chiamata Barra, dove “lavorava” un mio cugino
prete domenicano. Barra è un posto di estremo degrado meridionale, che si sarebbe apparentemente
potuto vedere come dimenticato da Dio, se non fosse che Dio ci aveva mandato questo suo soldato,
tra l’altro mio consanguineo. Fabio.
Il cugino non è un prete bigotto o ignorante, se mai ce ne fossero, anzi. E’ uno studioso. Da quello
che so, ma forse sbaglio definizioni, ha una laurea in filosofia-teologia e una in fisica. Ma a Barra
oltre che studiare si occupava delle “pecorelle smarrite” o forse dell’esercito di quelle ancora non
smarrite e quindi da proteggere.
Oggi io penso con orgoglio a quei geni. L’assemblaggio di filosofia, o teologia che sia, e fisica, poi,
mi sembrava proprio azzeccato. Conoscendo a fondo le leggi della natura se ne poteva apprezzare la
divinità. Una volta sentivo anche una punta di invidia per la sua fede. Ma oggi non più.
Quando lo andai a trovare ci potevo parlare “da pari a pari”. Avevo visto la luce.
Fabio ha un fratello, Luca. Tanti anni prima ricordo che una volta Luca mi disse che non capiva e
approvava Fabio perché “se uno vuole fare il prete, lo vada a fare come missionario in Africa”.
Barra doveva essere l’Africa di Fabio.
Quando mi presentai da lui, mi venne incontro con quel sorriso tipico di tanti preti che è una specie
di “profusore di serenità”. Mi mostrò il luogo e mi disse qualcosa del tipo : “lavoriamo, studiamo,
preghiamo. Ma ci sono pochi soldi”.
Gli spiegai che volevo parlargli di quello che mi era successo. Intendevo della mia “folgorazione
sulla via di Damasco”. Mi disse che prima dovevo confessarmi. Lo sapevo, e forse era uno dei
motivi per cui ero li. Confessarmi dopo tanti anni ma con un parente mi sembrava più “plausibile”.
Gli dissi che non mi ricordavo come si faceva.
Lui rispose “non ti preoccupare, ti guido io”.
E così mi confessò.
Alla fine io gli chiesi come fosse possibile tutto quello che mi era successo, perché proprio a me,
perché in maniera così “devastante”.
Gli dissi : “questa è una rivelazione”.
Mi aspettavo che mi dicesse qualcosa del tipo “le vie del Signore sono infinite”.
Invece mi rispose, gelido : “Se è una rivelazione lo decidiamo noi !”
Al momento mi raggelò, ma adesso, anni dopo, capisco.
Io penso e so di essere stato “in buona fede”, ma ho incontrato persone che dietro le loro parole
nascondono qualsiasi cosa.
Come non va bene nemmeno il pensiero alla Vasco Rossi : “siamo solo noi, quelli che tra demonio
e santità è lo stesso, basta che sia posto.
Mi concederò un’espressione poetica :” lo stesso un cazzo !”
L’eterna lotta tra bene e male non è solo un modo di dire. E’ dentro ognuno di noi.
Diceva Donald Sutherland in “The italian job” : “io mi fido degli uomini, è del diavolo che c’è in
loro che non mi fido”.
Infine per concludere, un aneddoto simpatico.
Un giorno dissi ad un grande psicologo di nome Marco, che in certi momenti tutto quel dono era
proprio pesante e a me veniva da bestemmiare, proprio incazzato con Dio.
Lo psicologo mi guardò e mi disse : “beh, dopo quello che mi hai raccontato direi che ti può anche
capitare di bestemmiare. In fondo quando lo fai stai facendo autocritica…..”

SACRO FUOCO
 Come già detto, manìa in greco antico vuol dire furore profetico.
Ciò vuol dire che qui “Magna, Magna” di Greci sapevano già tutto.
Peccato che non me lo abbiano spiegato prima, ma solo dopo avermi lasciato il tempo di bruciarmi
con il fuoco.
Con quel fuoco che in certi momenti sono io stesso.
Ecco quindi che se negli scritti precedenti ero il bambino che giocava con tre elementi (acqua, aria e
terra) adesso mi raffiguro io stesso come il quarto elemento.
A pensare al furore profetico mi viene in mente Giovanna d’Arco. Forse per l’associazione del
fuoco con il rogo. Che se fossi nato qualche secolo prima avrebbe potuto toccare anche a me sulla
base del principio dell’’inquisizione che “se è una rivelazione lo decidono loro”.
“Anvedi che santo, vestito d’amianto” cantava Rino Gaetano.
Ne à Giovanna né a me stesso, però, nessuna Berta ci aveva filato la lana e l’amianto.
Quindi non eravamo protetti in alcun modo.
Meno male che a me è andata meglio che a Giovannona.
Comunque è vero che nei momenti di manìa ci si accende di una sorta di sacro fuoco, illuminante e
purificatore, catartico.
Almeno a me è capitato così.
Nel mio caso si manifesta soprattutto in una dialettica piuttosto feroce, direi appunto
“fiammeggiante”, che rende il mio pensiero, per qualche misterioso fenomeno, visibile a tutti.
Un po’ come se ne vedessero il fiammeggiare, e non solo sentissero quello del mio “verbo”.
Si dice, d’altronde, che alcune persone vedono l’”aura” delle cose.
A me succedeva il contrario : era la mia aura che si faceva vedere da tutti, o almeno da tanti.
La prima volta che mi capitò, fu durante la mia prima crisi maniacale, due giorni prima di essere
ricoverato.
Erano giorni in cui “predicavo molto” in ogni contesto e con ogni persona.
In maniera tale da rendere evidente a qualsiasi interlocutore, nelle mie intenzioni, cosa fosse bene e
cosa fosse male.
Ero sempre vestito tutto di bianco
Una sera entrai in una pizzeria dove mi aspettava un mio amico.
Appena varcata la soglia percepii subito occhi che mi guardavano, discorsi che si interrompevano,
teste che si giravano e così via.
Chiesi del mio amico, e sempre con la sensazione di essere su di un palco sotto un riflettore, mi
avviai verso dove mi avevano indicato.
Mentre camminavo continuavo a sentire sussurrii, a vedere teste che si chinavano, e così via.
Non posso dire che fosse una sensazione né inquietante né spiacevole.
Quando arrivai al tavolo mi sedetti, ma dopo un po’ tutta quell’attenzione altrui mi rese impossibile
anche solo alzare la testa. Praticamente parlavo con il mio amico guardando il centro del piatto
vuoto.
Dopo una decina di minuti però ne ebbi abbastanza. Soprattutto perché mi continuavo a chiedere se
fosse tutto vero o se fosse una mia sensazione. Una paranoia, insomma.
In quella pizzeria ci andavo con mia moglie, che era ancora viva, e con mia figlia, all’epoca piccola
piccola : aveva 4 o 5 anni.
Ci andavamo tra l’altro perché c’era un ragazzo gentilissimo che faceva il cameriere. Era anche
molto bello: alto, magro, signorile, con i capelli biondi raccolti in una lunga coda e degli occhi
azzurri che sembravano cielo.
Naturalmente si chiamava Gabriele, come l’arcangelo, e in effetti sembrava proprio lui.
Ma la cosa più importante era che si prodigava ogni volta in mille invenzioni per fare ridere mia
figlia.
Una volta un gioco di prestigio con i grissini, una volta una boccaccia, una volta un visita guidata al
banco del pesce, e così via.
Quella sera ad un certo punto, per capire se era paranoia o no, mi alzai, andai verso di lui e gli chiesi
“Gabriele, ma che hanno tutti da guardare ?”
Lui sorrise come uno che era lì solo ad aspettare la domanda.
Mi prese dolcemente per un braccio.
Mi portò davanti ad uno specchio.
E mi disse : “guardati. Ti vedi ?”
“Brilli come un lampadario .”

ER FETICCETTO RUSTICO E LA SCROFA PESCATORA (1)
Nota introduttiva
Stesso periodo e stessa logica di “Da seven a ten. Parabola iperbolica”. Anche questo scritto è un estratto rappresentativo delle
modalità di pensiero proprie delle fasi “maniacali” del cosiddetto “disturbo bipolare dell’umore”.
Alcuni ritengono che in tale fase si produca pensiero sconnesso spesso esplicitato irrefrenabilmente in quella che viene chiamata
in gergo psichiatrico “insalata di parole”.
Questo è un altro scritto che tenta di dimostrare e spiegare come ,l’”insalata di parole” in realtà contenga un pensiero lineare
corredato, o forse meglio “immerso”, in nessi logici “frattali” e neoidiomi altrettanto “frattali” (il franzoso, ad esempio) .
Ma il punto focale, è che ha un senso.
E che prima di giudicarlo come qualcosa di incomprensibile e di “malato” si dovrebbe pensare piuttosto a qualcosa di
“genialmente artistico”. E ciò soprattutto da parte di medici che dovrebbero conoscerne la natura e le modalità.

Riguardo chi scrive.
Scelgo lo pseudonimo di “Oscar Doso, elo che stacca in prima e mette la sesta” (2)
Scrivano epipoetico (3)
Fotografo d'arte fetrIsh: tra fetish e trash. (4)
E scrivo in compagnia della mia amica “Eugenia dela lambadina” (5)

La premessa contestualizzante
Come già accennato, ho incontrato persone che dietro le loro parole nascondono qualsiasi cosa.
Già non è cosa buona pensare che siamo “quelli che tra demonio e santità è lo stesso, basta che sia posto”.
perché non è proprio per niente lo stesso.
Così è necessario e importante tenere sempre presente che l’eterna lotta tra bene e male non è solo un modo di dire. E’ dentro ognuno di noi.
Perciò io mi fido degli uomini, ma al diavolo che c’è in loro sto ben allerta.
In questo caso il diavolo era dentro una donna che diventò la mia fidanzata per alcuni anni.
Troppi. O forse invece no.
Sempre a seguito della mia prima crisi maniacale, la conobbi durante il primo ricovero. Era una psichiatra eroinomane. Che conobbi in quanto ricoverata con me e non perché esercitante la professione.
Quando finalmente capii e accettai che, insieme a vari suoi amici era profondamente “deviata”, per non dire “posseduta”, la lasciai.
Era la Scrofa Pescatora, appunto, i cui vestiti e biancheria intima sono appesi al cassonetto Caritas delle foto.
Tra le sue devianze che mi ritrovai addosso, mi toccò di scoprire anche delle “fatture” (nel senso di
“macumbe” non nel senso fiscale, che anzi era piuttosto “allegro”) che scoprii in casa nascoste.
Tra questi il feticcio d’oro delle foto, che lei e sua madre (…..un bel caso di devianza familiare) mi avevano
fatto fondere apposta dicendo che si trattava di una croce africana o roba simile, simbolo caro al loro nonno e padre.

Sono una trappola. Chiamatemi il confessore.
A volte consapevolmente a volte no, una mia modalità comportamentale è quella di “lasciare fare” gli altri per vedere fin dove arrivano.
Io non sono fesso, ma faccio il fesso, perché facendo il fesso, ti faccio fesso. Così mi insegnava mio padre.
Normalmente ci cadono proprio i fessi, che sono tanti e sono tutti intrisi di ubris (una sorta di presunzione dei greci antichi), e che pensano di potermi “far su” come vogliono.
La cosa particolare è che il momento di dire basta non arriva per mia scelta, ma arriva spesso come “fulmine a ciel sereno” mandato, per l’appunto, dal cielo. E’ una di quelle cose da “eletto”, tale per cui sembra proprio che Dio decida, lui da solo, “adesso basta” e scateni addosso qualche …..”sfiga” (non mi vien altro termine) a chi mi vuol male.
A questo punto direi che, anche per non scatenarmi addosso la collera divina, è giunto il momento di dire che mi permetto di definirmi “eletto” ma senza “ubris”, almeno spero .
E’ proprio una percezione, che presumo abbiano in tanti.
Ma non tutti.
Specialmente nell’ambiente benestante da cui provengo.
Senza alcun giudizio morale, solo constatazione, la borghesia è “senza dio”. Brutta storia.
Come sia sia, mi è capitato più volte con il lavoro, mi è capitato con amici e conoscenti, mi è capitato con la mia ex moglie, mi è capitato con la fidanzata di questo racconto.
Se non fosse che non sono scaramantico potrei essere pronto per vendermi come il “gufo”, lo jettatore, da “mille lire appostamento in curva” di Totò.
Invece mi piace vendermi come “nome in codice : il confessore”.
Perché per qualche perverso “harakiri” succede che tanti si confessano con me ammettendo quello che
hanno fatto e che io in qualche modo ho scoperto ho intuito.
Ma tutto quanto sopra è un’altra storia.
O meglio, è assolutamente la stessa storia di manìa mia, ma qui si voleva parlare di come la “frittata o
insalata di parole o di conoscenza”, sia in realtà pregna di senso.
E allora che insalata sia.
Il senso di quello che segue è “sputtanare pubblicamente” un certo gruppo di persone, una volta avute
plurime conferme dalla loro natura.
Si tenga presente che storia e foto sono finite, all’epoca, in rete.
Con discreto successo di pubblico.
Eh, eh, eh
Il confessore è piuttosto scardoso, o cazzimmoso, come dice il nome stesso di O’ ScarDoso.

L’ “insalata di parole”
Er Feticcetto Rustico e la Scrofa Pescatora.
Narratur di una combriccola, non molto carasciò (6), dedita all'antica arte della maialavidanza, del
partouzaggio e dello smazzo (7).
Non molto più è dato di conoscere, a parte alcuni nomi d'arte o di personaggi di grandi fame, sopratutto genitali. O genitoriali (8).
Grey eminenz pare fosse tale vampiresca parapsichiatra vero motorino del gruppo, molto bella tanto
multipla, forse fino a sedici insieme, della congrega delle autoscuole (9).
C'è poi la pubblirica, diafana anoressica, scostante e tossica quanto basta. Tanto amica di tal
demichiloincoffrefort da diventarne boyguard (10).
Er arpista che anagrammando in terza dava l'avvio a riti orgiastici dalla connotazione tenebrosa (11).
La giardiniera rosa, lesbeefebica maestra nell'arte della costruzione, mai esercitata per sovradedizione all'uso di alcole e drogole. amica delle nottole, aggregossi a tanto esercito delle dodici donnole, che sempre cercavano l'efelante della glande pigia. (in chinoseriese). (12)
E tanti ancora. tutti di buona discendenza ma con ghiaione al posto di neurone.
Un giorno la combriccola eccedette in ubris e pensò di potere succhiare l'anima e il sangue di Feticcetto
Rustico. (13)
Poverini trascurarono la specie del poverino pupazzetto, che essendo di genetica in parte nopea, li attirò
facendo di se mismo bersaglio, in una tragicomica trappola contrappassante.
Insomma, tutti esposti al pubblico ludibrio : tutti insieme su rete di inter, in anglico “inter-net”.
Di ciascheduno le reale indole smascherò. E con tanto di scheletri negli armadi, dell’arte della cazzimma
sfoggio a tutti donò. (14)
Fetticceto Rustico, infatti, fu così soprannominato ad evocare il prodotto d'arte culi-in-aria di antica
tradizione dei barri di spagna che come una antica cançion d'un pupo più sì-culo che altro evocava gusti un po' dolci un po' salati. (15)
Digiamolo pure : gusti trans. (16)
Epperforza. chillo è nu buono guaglione. s'astipa i soldi pe' ll'operazione. (17)
Ed era già ricchione da 3000 anni o vieppiù. (18)
Vieppiù vicino creTina. (19)

Note
1. Riferimento al film La leggenda del re Pescatore, di Terry Gilliam
2. Staccando in prima (lettera) Oscar diventa O’ scar. E mettendo (attaccando) la sesta diventa O’ scardoso. Lo scardoso in
napoletano è colui dotato di “scarda” che è la versione più aspra e cattiva della cazzimma. O scardoso vuol dire il cazzimoso, che traduciamo qui in “il dispettoso”. Elo invece di quelo è un riferimento al “guru Guzzanti” di alcuni anni fa.
3. Scrivano epipoetico : scrivano è un’associazione con il termine scriba di antiche culture : egizi, babilonesi, assiri. Dove gli scribi erano casta sacra essendo la scrittura preclusa ai più. Epipoetico perché sta al di sopra della poesia. Gli scribi infatti scrivevano leggi, parlavano di religione, e simili.
4. Si ritiene sufficiente guardare le foto del cassonetto Caritas : in particolare la fattura della biancheria intima e la sua collocazione nel cassonetto.
5. Eugenia dela lambadina è pseudonimo di una amica, già prostituta rumena, che condivise e mi aiutò nello scherzo delle foto. Il suo nome è Gina. Da cui Eu – Genia, con il prefisso EU che significa buono. Dela senza una elle per simulare l’accento rumeno. Lambadina come doppio senso di “lampada” del genio della lampada e lambadina (il ballo) ‘ncopp’u cazzo, come simbolo di attività prostitutoria. In sintesi vuol dire “una mia buona amica che fa la puttana, e che insieme a me ha avuto questa geniale idea”.
6. Citazione congiunta della “combriccola del Blasco di Vasco Rossi, e l’essere carasciò del bar di Arancia Meccanica.
7. Maialavidanza fa eco a una canzone di Manu Chao, all’epoca con i Mano negra, che cantava “tu me sta dando malavida”.
Ma con connotazione “maiala”. Partouzaggio intende pratiche sessuali di gruppo. Smazzo è uguale a spaccio.
8. “fame” sottende il doppio senso tra appetiti sessuali e notorietà familiare (genitoriale). Sono persone di “buona famiglia”.
9. Grey eminenz è un doppio senso (forse triplo) tra l’ambiguità alla Grace Jones, la durezza alla Eminem, e il credersi eminenza grigia della parapsichiatra. “Para” perché non fu mai possibile, infatti, vederne un attestato di laurea, né risultava all’ordine.

Vero motorino sottintende sia il fatto di essere “motore di energia del gruppo” sia essere dedita alla pratica sessuale del “motorino” così detta perché prevede di sedersi su di un fittizio sellino fatto di due peni, mentre se tengono altri due in mano a mo’ di manubrio.
Insomma per usare una parafrasi (o perifrasi), insomma per dirlo in altro modo: “un cazzo in figa, uno in culo e due in mano e in bocca alternativamente. Sempre usando una seconda parafrasi o perifrasi: “ una grandissima troia in calore”.
Che io scoprii anche perché, in preda alle paranoie che mi dava (e di cui si noti bene che lei diceva di “fidarsi”, in un meccanismo tipico di “ammissione implicita” che in inglese da comunità viene definito “toc op”, “coppare”) trovai alcune foto in alcuni siti porno.
Per questo la definisco di personalità multipla. Il fino a sedici è un doppio gioco sulla sua macchina (non motorino) che era un fiat, non multipla, ma modello “sedici”. Non so se sedici si potesse riferire al numero di uomini in contemporanea, però in effetti a pensarci mi pare plausibile.
Congrega delle autoscuole fa riferimento al modo di dire “nave scuola”.
10. Pubblicitaria colta (lirica) anoressica, magrissima, sempre pallida, anche lei eroinomane. Così dedita all’eroina che sua eroina (nel senso di eroe) era tale nobile milanese che teneva in cassaforte la sua scorta di “thailandese bianca purissima” che tutti i membri del gruppo sognavano di provare. Mezzo chilo, appunto. La pubblicitaria diventò la sua dama di compagnia, pur di avere accesso a quella cassaforte.
11. Er arpista si riferisce ad un fotografo pervertito (ad esempio uno che si eccitava ad andare scopare di notte al cimitero) che si credeva musicalmente dotato (l’arpa) e che era anche regista (aprista, colui che apre, che da inizio) delle loro esibizioni di gruppo.
12. La giardiniera rosa fa riferimento alla giarrettiera rosa di Paolo Conte e al cognome della ragazza, che era appunto insito nel termine “giardiniera”. Architetto con un tendenza lesbica, che non riusciva quasi a mai a lavorare perché sempre ubriaca o drogata. Le nottole sono il termine con cui in un cartone animato detto “Winnie the pooh”, venivano definite le “donnole” che sono predatori (o roditori ? ) il cui nome evoca le “donne”. L’esercito delle dodici donnole fa riferimento al film onirico e delirante “l’esercito delle dodici scimmie”, ma riportandole tutte alla loro dimensione “puttanesca” che le costringeva a cercare sempre grandi cappelle (glandi uccelli – o pijie ). “In chinoseriese”a rappresentare cose di scarso valore.
13. Feticcetto rustico è chi scrive.
14. Riferimento alla discendenza napoletana, che contempla quindi la cazzimma, e alla modalità descritta in “sono una trappola”, che si configurò nello “sputtanamento via web”.
15. Arte culi-in-aria sta per culinaria con il doppio senso sessuale che lo pone “a tema” con quanto prima. Barri di spagna sono i “quartieri spagnoli” di Napoli, dove ancora si trovano pasticcerie che seguono le antiche tradizioni, tra cui quella del “pasticcetto rustico” (da cui “feticcetto rustico”) : impasto salato di ricotta, formaggio e salumi in un involucro dolce di pastafrolla. Gusti un po’ dolci un po’ salati fa riferimento a una vecchia canzone del cantante/conduttore Pupo, che ne ammise pubblicamente il significato “omo o bisessuale”. Da cui “pupo si culo”
16. Per questo “gusti trans” ad evocare genericamente sia la perversione del gruppo, sia l’essenza di quanto segue.
17. Riferimento alla canzone “Chillo è nu buono guaglione” di Pino Daniele . Che anticipa la penultima frase.
18. Riferimento ad una puntata del “Costanzo show” in cui presenziarono contemporaneamente Umberto Bossi e Luciano de Crescenzo. Ad un certo punto, dopo mezz’ora di sproloquio di Bossi su nordicità e temi leghisti in genere, De Crescenzo prese educatamente la parola e disse : “ io al Signor Bossi vorrei dire soltanto una cosa. Quando al nord ancora vivevate nelle caverne, noi al sud eravamo già ricchioni”. Con ciò riferendosi alle pratiche omosessuali degli antichi greci, installatisi nel sud d’Italia all’epoca detto “Magna Grecia”, che in quel tempo fu centro apicale di pensiero, scienza e sviluppo.
Da parte mia io ho sempre sostenuto che l’ignoranza piccolo borghese tipica del nord’Italia e del suo popolo butecaio (commerciante di bottega) bene si addiceva a farlo ritenere ancora oggi terra adatta a essere popolata solo da “cinghiali e mammuth”.
19. Doppio senso tra “vieppiù” e “vie(ni) più vicino” che fa riferimento a “sono una trappola”. CreTina è doppio senso tra cretina riferito alla parapsichiatra “Scrofa Pescatora” e il mio cane Tina, di razza beauceron e molto dotata intellettualmente. Eppur sempre cane. O forse no; forse angelo custode.


ECCHILO !
“Ecchilo, Ecchilo !”. “ Tra Romania e Marocco, proprio la !”
“Ma ecchilo chi ? E poi tra Romania e Marocco cosa, dove ? Sei impazzito….?
“Ma no che non sono impazzito. Ecchilo, non lo vedi ?”
“Tu sei fuori.”
“Mmmmh… Ah no, hai ragione. Non Ecchilo. Ma Ecchelo, Ecchelo !”
“ Oddio, ce lo siamo giocato.”
“Oh, ma insomma come fai a non vedere ? Ecchelo, lo sanno tutti cosa è. Dai, quel sistema che ci controlla tutti, e che secondo me ci tiene un missile puntato dai satelliti sopra la testa di ognuno di noi. Non ne hai mai
sentito parlare ?”
“Ma che vuoi dire, Echelon ?”
“Si, si quella roba la : Ecchelo. N.”
“Messa così sembra un ibrido romanesco-Napoleonico.”
“Vabbe’ chiamalo come ti pare, ma non lo vedi li tra Romania e Marocco ?”
Così inizia questa storia.
Siamo nello stesso periodo di “ho viaggiato nel vento”. Sono già in fase maniacale accelerata. Sto lavorando a quel lavoro importante sulle telecomunicazioni di cui ho già parlato. Ormai sappiamo con certezza, sia da fonti interne affidabili che da controprove tangibili direttamente riscontrate, che la teoria del “Grande Fratello” è vera.
Ci ascoltano, ci spiano e ci puntano. E’ una nuova divisione dei servizi segreti : opera non più come un cane segugio, ma come un pointer. Direttamente dal cielo. Sono pointer satellitari.
Casualmente un giorno ricevo la controprova. Sto cercando su Google Maps un punto di una strada a
Milano, quando zoomando più vicino mi spuntano delle scritte che con le strade non hanno nulla a che fare.
Si vede “ufficio del console russo, ufficio visti, consolato di Romania” e addirittura alcuni nomi di persone o
società. E tutte queste sono individuate da un quadratino che non sta sulle strade. Non è un database
“stradario” e nemmeno può essere catastale.
Insomma, sono informazioni che devono per forza provenire da altro database. Lo chiameremo “il database
Totore” (diminutivo di Salvatore) che ti fa da “missilatore”.
La zona che sto inquadrando è quella che va da piazzale Lotto dove c’è il consolato di Romania, fino a via Novara. In mezzo ci stanno il consolato di Russia e una zona di case popolari prevalentemente abitate da marocchini e africani in genere. Uno degli Afroghetti di Milano. Da qui nasce “tra Romania e Marocco”.
A fine scritto si trovano le immagini Google Maps di allora e di ora: come per miracolo oggi quelle scritte non ci sono più. Ognuno è libero di trarre le sue conclusioni.
In ogni caso Ecchilo mi fa girare le balle, ed essendo iperaccelerato mi viene in mente di fargli un
“bubusettete di scherzetto-to”.
Il ragionamento è semplice: per intasare la rete si usa lo spam: si spedisce in giro un numero altissimo di mail così da sovraccaricare i server che le ricevono e alla fine, se lo spam funziona, farli “crashare”.
Io faccio il ragionamento opposto.
Questa è una caratteristica tipica della mia manìa. Se tutti fanno in un modo, allora io faccio il contrario. E d’altronde Erasmo da Rotterdam esordisce il suo “Elogio” con un secondo titolo: “il mondo alla rovescia”.
A me è capitato più volte di sentirmi dire che vedo “il mondo alla rovescia”. L’ho sempre preso come un complimento.
In ogni caso il ragionamento opposto è il seguente: se mi controllano e poi mi tracciano con i loro pointer per potermi sparare un missile in testa una volta capito a cosa miro, io devo trovare il modo di “farmi notare” e poi non dare loro i riferimenti necessari per potermi “missilare”.
E li trovai. Oh si.
Decine di pagine in una sola mail, spedita a tutto il mio indirizzario di oltre 2.000 nomi, tra cui anche
personaggi noti e quindi ancora più sotto controllo.
La mail conteneva, teorie, minacce, bestemmie, istigazioni, improperi e quanto altro potesse fungere da
“keyword” per “Ecchilo”. Anche con nomi e cognomi eminenti : Bush (o Clinton? Non ricordo più), Putin, il Papa, personaggi politici, personaggi famosi. Tutti WWV : World Wide Vip.
Poco prima di schiacciare il “click dell’invio, già ” ridevo “come un matto” immaginando il “valzer dei
satelliti” che cercavano di capire cosa dovessero fare. “Vuole sparare a Clinton….., No, no ha in mente Putin….,No no è il papa che ha sotto tiro. No, no ha una scorta privata di Ebola in cantina. …”
Il punto era che in quella “manna di Ecchilità” tante spiate equivalevano a nessuna spiata : chi doveva
fermarmi ? Chi minacciavo ? Tutto il mondo insieme ? E se per fermarmi c’erano morti e danni collaterali chi se ne prendeva la responsabilità ?
Clickai.
E come sempre, tutti liberi di non crederci, ma né il mio internet né il mio cellulare funzionarono per i dieci minuti dopo.
Il giorno seguente, dopo anche la storia del vento e dei gabbiani lombardi, mi portarono in psichiatria.
Ecchilo vedrà pure tutto, ma non ha “sense of humour”.


O’ CIUCCIARIELLO ‘E FICHELLA
Nota introduttiva
Il tema di fondo è sempre lo stesso. Lo scritto è rappresentativo delle modalità di pensiero proprie delle fasi “maniacali” del cosiddetto “disturbo bipolare dell’umore”.
Alcuni ritengono che in tale fase si produca pensiero sconnesso spesso esplicitato irrefrenabilmente in quella che viene chiamata in gergo psichiatrico “insalata di parole”.
Anche questo scritto, come altri precedenti, è il tentativo di dimostrare e spiegare come ,l’”insalata di parole” in realtà contenga un pensiero lineare corredato, o forse meglio “immerso”, in nessi logici “frattali” e neoidiomi altrettanto “frattali” (il franzoso, ad esempio)
Ma il punto focale è che ha un senso.
E che prima di giudicarlo come qualcosa di incomprensibile e di “malato” si dovrebbe pensare piuttosto a qualcosa di “genialmente artistico”. E ciò soprattutto da parte di medici che dovrebbero conoscerne la natura e le modalità.

Premessa
‘O ciuccariello ‘è fichella è anche titolo di una delle mie ultime mail “urbi et orbi” della fase finale
della mia seconda crisi maniacale.
In effetti delirante, quella si. Con rammarico, ma devo proprio ammetterlo.
Perché seppur connotata di pensiero, quella volta è stata effettivamente eccessiva.
Anche impegnandosi non si poteva capire un cazzo.
Molti dei temi trattati però, sono quelli dei racconti di questa raccolta.
Dissi una volta al mio amico filosofo Antonio : “ho visto alla tv un pezzo dell’ultimo spettacolo di
Alessandro Bergonzoni. Facciamo le stesse cose. Ma io non capisco perché lui è un “artista” e io
sono un “matto”.
Antonio rispose : “matti lo siete tutti e due, ma lui si rende comprensibile”.
Antonio è sempre geniale, quando vuole.
E così ci ho provato anche io. E a farmi capire penso di esserci riuscito, anche se non so se riesco a
fare ridere come Bergonzoni.

Il ciucciariello ‘e fichella.
Il pensiero sottostante è riassunto nelle immagini a fine racconto.
E’ un’espressione tipica napoletana, che usava mio padre quando mi voleva dire, affettuosamente,
che ero “malaticcio”, “deboluccio”. Io lo uso con ironia, perché di “deboluccio” in quello che
racconto mi pare non ci sia proprio nulla.
Nella fase delirante della manìa diventò anche simbolo di una sorta di “pan-sessualità
onomatopeica” che doveva rappresentare l’equidistanza o equipollenza di tutti i sessi rispetto alla
solita “unitarietà del tutto”. Non c’è guerra tra uomo e donna, perché tutti siamo parte della stessa
cosa. Insomma lo ying e lo yang, che assommati, danno l’unità simboleggiata da un teorico terzo
sesso. Quello dell’ameba che è capace di autotiprodursi. O quello “trans” di alcuni altri passaggi
(che però è imperfetto e rimane sempre uno “scimmiottamento” della realtà, al contrario della
ameba, perché il trans non si autoriproduce”).
Diventò anche “locandina” di un teorico spettacolo pubblico che assomigliava molto al concetto di
“psicodramma”. Il protagonista ero io nel mio modo di essere e di fare, come in una specie di
Truman Show ma consapevole.
La locandina conteneva:
1. il riassunto del “ciucciariello”, denominato Tatsebando Mao….. tutto su sfondo giallo.
2. l’immagine di geometrizzazione di cui ho scritto, che doveva spiegare come dalle parola e
pensieri del riassunto sub.1 si potesse arrivare alla concezione sub.3
3. la “galassia dei marchi” che era la raffigurazione grafica della mia idea di “Ri-evoluzione”
contenuta nel progetto “microeconomia adattiva complessa”. I marchi erano tutti
rappresentativi di aree di attività o società di reale esistenza o costituzione.
In questa sede cercherò di spiegare il senso del primo punto, tenendo presente che il terzo punto è
relativo ad una serie di iniziative “imprenditoriali” realmente tentata e ideologicamente apprezzata
da molti, ma anche ritenuta visionaria da molti altri.
Iniziativa rimasta incompiuta per vari motivi il che (il fatto di avere delle incompiute) come mi
piace dire è una cosa concessa solo ai “grandi”.
E’ importante aggiungere soltanto che quella che sembrava “delirante sconnessione”, era una
modalità di comunicazione verbal-visuale, credo di mia concezione, in cui le immagini, le parole, la
loro disposizione e sequenza, i loro colori, i suoni o le musiche, avevano tutte un senso se percepite
insieme.
Se prese singolarmente, diventavano per forza di cose “sconnesse” proprio perché non facenti più
parte di quella interconnessione logico-sensoriale che dava loro significato.
Io sono ancora convinto che tutto ciò fosse geniale. Una specie di karma-essere realmente concreto
e operativo.
Peccato per l’incompiutezza.
E peccato per la degenerazione in delirio, che ha avuto un buon ruolo anche nel determinarne
l’incompiutezza.

Mimetismo semantico
Tatesbando Mao riassuntino Vidò.
Intendevo “esponendo pubblicamente il mio concetto di rivoluzione (Mao) ve ne do (Vidò) il
riassunto”. Il Vidò fa riferimento al gioco del backgammon che si chiama così perché una delle
strategie vincenti, e forse più affascinanti, è quella “in difesa”, tale per cui si attira l’avversario
verso la propria casa per poi riattaccarlo una volta che non può più tornare indietro.
A ben pensarci, come fecero i russi sia con Napoleone che con Hitler. E nel suo piccolo come fece
er Feticcetto Rustico.
Il Vidò è quel dado magico con il quale quando uno dei due giocatori si sente in vantaggio può
raddoppiare la posta, lasciando all’altro la possibilità di accettare o decretare di avere perso e uscire
dalla partita.
Arriva fino a 64 volte la posta iniziale. Poi si resta così. La mia concezione di Ri-evoluzione era il
mio Vidò a 64 che avevo dato al mondo. Ero convinto di avere vinto, di avere trovato la soluzione
ai mali del mondo.
“in stile backo gamon” voleva dire appunto quanto sopra, con un doppio senso giocherelloso
alimentare su vino (backo) e prosciutto (jamon).
Questo è un esempio chiaro di “senso interconnesso” : contestualizzando “backo gamon” è piuttosto
chiaramente il “backgammon”, ma se ne prendo i pezzi singoli non vogliono dire più niente (vino e
prosciutto, appunto).
Diciamo che si può interpretare o definire come “mimetismo semantico”.

Mperatory librante urbi et orbi : Riferimento al pensiero imperatore (imperativo, come
l’obligatoire), che si libra, che vola ovunque.
I versi seguenti, YYY, hi ho hi ho, YY, Y, TE, TYE, TTT, sono una raffigurazione onomatopeica
del passaggio dal verso dell’asino (hi ho…) a un YYY di nitrire di cavallo, fino a TTT.
T e Y sono due raffigurazioni grafiche di “trinità” che vogliono ricondurre al “né maschio né
femmina” del pansessuale.
Comunicato delo 7 7 bubusettete, fa riferimento allo scherzo a Echelon, raccontato in Ecchilo !
Tutti i siti internet indicati (www.) sono realmente esistenti a quell’epoca e sono l’ossatura portante
del progetto della Microeconomia adattiva complessa. Il qual progetto è raffigurato dalla galassia
dei marchi di cui in precedenza e a fine scritto.
La privacy serve a chi ha da nascondere qualcosa. Fa anch’esso riferimento a Ecchilo!
Manìa mani pulite libere fa evidentemente riferimento alla consapevolezza della manìa, ma anche
alla speranza di “pulizia” finanziaria mondiale, come con “mani pulite”, da rifare meglio.
Falla girare : se ne è già detto.
Io vi guardo da vicino è di nuovo Ecchilo!
Safari, era la colonna sonora di quel periodo, e fa riferimento a un album di Jovanotti, molto
azzeccato in termini di “filosofia circolare.”
I/O è riferimento al sistema binario “Acceso/Spento” o “bene/male” o “si/no”. con anche la
possibilità di assonanza con il verso dell’asino.
Ma con il cerchio chiuso da un Juiscio perché in quel periodo ero convinto di essere ebreo.

E sul bipolarismo, per ora, questo è quanto.



SI CHIUDANO I CERCHI
Per qualche strana alchimia cerebrale, io del disturbo bipolare ho conosciuto come fase estrema
soltanto quella della manìa.
La depressione pesante non l’ho mai vista, anche se un senso di profondo e oscuro dolore mi
accompagna da sempre.
Ma mai si è impossessato di me in maniera totale.
Secondo alcuni dottori, anche perché al suo presentarsi io ero sempre pronto a ricacciarla via a
“colpi” (è proprio un termine azzeccato) di coca.
Ci sta. Può essere. Mi pare sensato. Forse almeno stavolta ci hanno beccato.
In ogni caso ho sempre mantenuto una profonda e radicata capacità di trovare il bene in ogni
situazione, e ad esso mi sono sempre attaccato come ad un ancora.
Quando dicevo alla mia ex-moglie, oggi morta, che non ne potevo più e che quella era la volta
buona che mi ammazzavo, lei mi guardava sicura e con un risolino mi diceva : “non puoi. Non ce
l’hai nei geni.”
Il che mi faceva venire una gran voglia di strozzare lei.
Ma probabilmente aveva ragione.
Al riguardo pare anche che i bipolari solo “maniacali” siano davvero pochi.
Quindi io sarei una rarità.
In questa “raritudine” una cosa che mi è capitata in entrambe le mie due crisi maniacali conclamate,
è stata quella di sentirmi “guidato” in una costante attività di geometrizzazione del mondo a me
circostante.
Si trattava di disegnare cerchi, quadrarli, tracciare rette o diagonali, individuare forme, dividerle,
riassemblarle. Non solo cerchi e quadrati, ma anche triangoli, pentagoni, esagoni. Tutte forme
geometriche di derivazione numerica : l’uno, il due, il tre e così via. Fino all’infinito del cerchio.
Messa così, però, mi rendo conto che non rende per niente l’idea. Cerco di spiegarlo, ma mi rendo
conto che forse non si può. Ma io sono testardo : se continuo a provarci alla fine ce la farò. “Se
Davide potette accidere a Golia, ancora nun saccio comme, ma l’aggia vincer’ io (Almamegretta).
Era una qualche forma di schematizzazione e imbrigliamento dell’immensità del mondo circostante.
Un po’ come se una volta percepita la sua infinita energia per “allinearsi” ad essa ed entrarne nel
flusso, avessi avuto bisogno di “inquadrare” il tutto in modo da sapere cosa fosse uno, due, tre e
così via.
In sintesi direi che era una specie di esercizio necessario per “capire” quello che sentivo.
E ciò per potere assolvere al meglio al compito che mi era stato dato di essere e fungere come uno
dei punti di flusso di tutta questa energia o meglio di tutto questo essere.
Un po’ come una specie di sinapsi del “cervello-mondo”.
Chi non lo avesse già fatto, dovrebbe guardare il film Avatar. Oltre ad essere un capolavoro, la
filosofia sottostante rende bene la visione che ho e l’idea che cerco di esprimere di
“interconnessione”.
In tutto questo processo c’era un tema di fondo : in quanto sinapsi di questo cervello-mondo il mio
compito era agevolare e indirizzare il flusso di energia che lo attraversava.
Una specie di “router”, che è quell’apparecchiatura elettronica che permette a internet di funzionare
indirizzando pacchetti di dati sulla base di codici dodecanumerici chiamati “indirizzi IP”.
Tanti anni prima abbozzai una teoria che chiamai la “civiltà dell’intelletto” che era anche una
premonizione di questa visione di cervello-mondo di cui scrivo adesso e che mi è realmente capitato
di “toccare con mano”.
Uno degli aspetti di questa “sinapsicità”, era simboleggiata nel dovere riportare forme geometriche
imperfette a forme geometriche “perfette”. Il cerchio, appunto
Il che era un sorta di simbolismo della teoria del “falla girare”, cantata da Lorenzo Cherubini in arte
Jovanotti, e su cui si imperniava anche la concezione delle civiltà dell’intelletto. “Lo sai che proprio
adesso noi stiamo vivendo e qualche cosa proprio adesso ci stiamo scambiando….Falla girare così
che tutti la possano vedere, falla girare così che tutti la possano sentire”.
In ogni occasione o luogo mi trovassi, mi veniva naturale vedere tutto in maniera circolare. Cosa o
chi lo fosse già, e cosa o chi no. Spesso la seconda fattispecie diventava oggetto delle mie
attenzioni.
Ciò che non era circolare lo doveva diventare, ed io dovevo trovare il modo per cui ciò accadesse.
Il tutto basandomi sulla convinzione di possedere un “algoritmo genetico” (definizione presa in
prestito da un gruppo musicale italiano di anni fa) tale per cui la mia sola presenza o parola o
pensiero, era sufficiente ad attivare o deviare l’energia del mondo in maniera che tutto si riportasse
a come doveva essere.
Insomma, per sintetizzare : “Che trip! Cazzo che trip!”
Oggi mentre scrivo mi rendo conto che messa così sembra proprio il delirio di un matto, ma mentre
lo sto pensando e scrivendo, il mio algoritmo genetico mi corre in soccorso.
Tutta questa immensità e complessità circolare è già espressa in forme d’arte forestiere.
Non c’è bisogno di rispiegare di nuovo, ne tantomeno di cercare di capire da zero.
Basta guardare e sentire l’essenza di un mandala http://it.wikipedia.org/wiki/Mandala.
A fine racconto ne riporto due che feci io. Ma prima di essi, si trovano alcuni esempi dei disegni
“geometrizzanti”. La visione delle quattro foto dovrebbe rendere l’idea del passaggio dalla
“scomposizione geometrica” alla “ricomposizione circolare”.
In ogni caso per renderlo più comprensibile alla cultura occidentale, da sostantivo suggerisco di
pensarlo in imperativo.
“Mandala !” In giro. L’energia intendo.
Che quindi diventa, guarda caso, un analogo di “falla girare”.
Mandala in giro, dunque !
Falla girare, quindi !
Così che tutti i cerchi si possano chiudere !




BUROPAZZIA
Una cosa che mi ha particolarmente impressionato di tutta questa mia vicenda, è come, nel
momento stesso in cui “entri in circolo” a questo mondo ufficiale di pazzia, la conseguenza
immediatamente tangibile è che diventi “pezzi di carta in procedure legali”.
Così con il Trattamento Sanitario Obbligatorio, per cominciare.
Qualcuno lo concepisce e chiede il permesso, che viene istituzionalmente concesso. Primo pezzo di
carta.
I soggetti preposti ti colloquiano, o almeno fanno finta, e questo è un secondo pezzo di carta.
Ti portano in ospedale dove la prima cosa che succede è che ti formalizzano un altro colloquio, e
questo è il terzo pezzo di carta.
E così via.
Il paradosso è che i loro pezzi di carta diventano la storia univoca della tua vita, ma se tu provi a
scrivere che qualcosa non va, quella è la prova della tua pazzia.
Rimani completamente disarmato.
Poi un giorno, con il quarto pezzo di carta, decidono che non sei più pazzo. O almeno che non lo sei
abbastanza da essere tenuto dentro; e ti fanno uscire.
Frastornato da tutto quanto, ti ritrovi a casa tua e mentre cerchi di riprenderti, ti arriva il quinto
pezzo di carta. Busta grande verdolina : roba grossa.
Eh si, per il sistema sanitario nazionale non eri più pazzo a sufficienza.
Ma per tua moglie lo sei eccome. E lei decide che vuole diventare il tuo Amministratore di
sostegno, figura giuridica preposta alla gestione e controllo patrimoniale delle tue sostanze, e te lo
fa comunicare dall’autorità giudiziaria. Senza fartene prima nemmeno una parola. E con il chiaro
intento di mettere le mani sui tuoi soldi.
A quel punto tu dovresti reagire con la stessa logica e le stesse armi, e procurarti anche tu un pezzo
di carta che dica che l’Amministratore non è indispensabile. Probabilmente questo tuo pezzo di
carta te lo scriverebbero pure. Ma tu proprio non ce la fai a lottare e combattere per dei soldi.
E quindi di buon grado accetti il sesto pezzo di carta: il decreto del Tribunale che nomina
l’Amminsitratore di Sostegno.
Da quel momento ogni cosa che devi o vuoi fare deve essere autorizzata dall’Amministratore che in
pratica opera “in nome e per conto del Tribunale” . E per “ogni cosa”, e intendo proprio ogni cosa,
anche prelevare 50 euro dal tuo conto, si richiede autorizzazione scritta preventiva.
In pratica la tua vita diventa bersaglio di una gragnuola di pezzi di carta. Dei quali perdi anche il
conto, ma sono decine e decine ogni anno. Per facilità espositiva li chiameremo tutti insieme i
settimi pezzi di carta.
Poi un giorno succede quello che ti aveva profetizzato un arcobaleno su di un cavalcavia e che
rientra nella logica del tuo “sono una trappola”: tua moglie muore in tre sole settimane a partire
dalla diagnosi di un tumore fulminante.
I tuoi problemi economici d’incanto finiscono. E tu pensi che con i settimi pezzi di carta hai finito il
“giro”. Pensi che si siano chiusi i cerchi.
Invece tua moglie, come la punta della coda del diavolo, ha lasciato un ottavo pezzo di carta con cui
nomina sua erede universale tua figlia. Con il dettaglio che nulla di quello che aveva era suo, ma
tutto era di provenienza dei tuoi genitori. Ma questo ti sta pure bene. E’ per il bene di tua figlia. In
ogni caso basterà produrre un nono pezzo di carta per far valere la legittima. Tanto ti basta.
Ma non a lei che nell’ottavo pezzo di carta ha lasciato anche il decimo: vuole che tu venga
interdetto in maniera che sua sorella diventi la Tutrice di tua figlia. Pur non esistendo alcun
presupposto giuridico né medico in tal senso. E con il dubbio-certezza che l’unico intento fosse di
nuovo mettere le mani sul patrimonio della mia famiglia, da parte della sua.
L’undicesimo pezzo di carta è quindi di nuovo un gruppo di pezzi di carta, definiti e concordati con
i tuoi legali, per arrivare al rigetto da parte del Tribunale della richiesta di nomina a Tutore da parte
della sorella di tua moglie.
Tutto ciò a spese tue, che devi pagare con il dodicesimo pezzo di carta : le disposizioni di bonifico
di decine e decine di migliaia di euro di avvocati e spese varie.
Fortunatamente riesci a non impazzire davvero e ti risparmi il tredicesimo pezzo di carta di un altro
TSO.
Ma non è mica finita.
Su suggerimento testamentario di tua moglie e candidatura spontanea di tua cognata, decidi in base
alla tua oramai legalmente riconosciuta e legittimamente esercitata patria potestà, che tua figlia vive
meglio e più sicura nell’ ambiente familiare di tua cognata che ha un marito e due figli.
Per cui decidi di firmare il tredicesimo pezzo di carta, che è un accordo con cui la cognata si
impegna a crescere tua figlia.
Si, ma al prezzo del quattordicesimo pezzo di carta che sono altre disposizioni di bonifico per
35.000 euro all’anno per “le spese di mantenimento della bambina” che ha otto anni e che così nei
successivi dieci anni avrà modo di crescere in un ambiente familiare, ma per ritrovarsi a 18 anni con
mezzo milione di euro in meno.
Ma non è mica finita.
La cognata di te non si fida. Ha paura di non ricevere regolarmente il suo stipendio per le pur
amorevoli cure che da a tua figlia. E quindi richiede, con il quindicesimo pezzo di carta, la nomina
di un curatore speciale di tua figlia. La figura sarebbe prevista per legge per gli atti di straordinaria
amministrazione. Lei la pretende anche per quella ordinaria. Tu accetti di buon grado per il bene e
la serenità di tua figlia.
Il sedicesimo pezzo di carta è la nomina del Curatore e la successiva ulteriore carta necessaria,
come per l’amministrazione di sostegno. Da quel momento in poi serve una richiesta in carta da
bollo anche per prelevare un euro dai conti per tua figlia.
A questo punto, consapevole di correre il rischio di “nominare il nome di Dio invano”, ma fiducioso
nella Sua infinità bontà, dedico questo pezzo di carta, che sarebbe quindi il diciassettesimo, a formulare una richiesta ufficiale, in bollo, al Signore Iddio.
“Caro Signore: pensi che tutto ciò possa bastare,
o hai intenzione di continuare ancora a lungo a rompermi i cugghiuni ?”
Clau

EPILOGO  

Enfin !
Après tout,
il n’est pas trop fou,
ce clau ci.
N’est pas, oui ?






Nessun commento:

Posta un commento